Libro di Isaia: Capitolo 50, 1-11

Secondo alcuni interpreti Is.50 si prolungherebbe sino a comprendere anche Is.51,1-8. Volendo, ognuno potrà anticipare questi versetti nella lettura personale, tanto per vedere se esista una coerenza o meno tra la fine del cap.50 e l’inizio del cap.51.

Noi li leggeremo insieme nella prossima meditazione. Intanto possiamo individuare tre momenti nel capitolo in oggetto, e precisamente:

  • 1-3 causa del Signore (rib) contro il popolo;
  • 4-9 cosiddetto terzo canto del servo del Signore;
  • 10-11 (+51,1-8) discorso del servo.

I vv.1-3 suppongono un sottinteso lamento del popolo, analogo alle obiezioni di Gerusalemme che abbiamo ascoltato nella riflessione precedente.

Israele si percepisce come figlio di una madre ripudiata da un marito infedele. Possiamo vedere delle accuse analoghe in Is.42,18-25 e 43, 22-28.

Il Signore si difende con il solito giudizio contraddittorio (rib) e porta le prove del fatto che c’è stato un documento attestante il ripudio, ma che questo era del tutto legittimo. Crimini e infedeltà sono stati reali (v.1) e tali da far pensare ad una situazione analoga a quella presente nel profeta Osea (1-3), dove ricorrono la stessa immagine nuziale e la stessa legittimità dell’allontanamento della moglie e dei figli. La strategia del Signore nel dibattimento si rivela vincente.

Alla requisitoria del v.1, infatti, nessuno risponde (v.2°), con una tacita ammissione di colpa. Chi si riteneva creditore nei confronti di Dio è preso dal timore e, ancora una volta, dal dubbio, questa volta circa le proprie recriminazioni. Dio si appella allora alla propria potenza e ai prodigi facendo presagire una teofania (v.3). Immagini e ambiente orientano questi versetti d’apertura all’epoca dell’esilio. Saremmo quindi davanti ad un detto del DeuteroIsaia conforme a temi e testi che già abbiamo incontrato.

Ben diverso è il problema dei vv.4-9 (per qualche studioso la sezione termina però al v.9°) in cui siamo davanti ad un problema ormai noto. Parla, infatti, un personaggio anonimo.

Tradizionalmente si chiama “il Servo”, come colui al quale abbiamo ascritto due canti in precedenza. Tuttavia, in questo caso, la parola “servo” non compare. Possiamo allora considerare questi versetti un cantico come gli altri?

Il protagonista +, per esempio, lo stesso del cap.49? Benché non si autodefinisca “servo”, certamente gli somiglia. Il testo ha caratteristiche che rinviano ad una vocazione profetica, con tutto ciò che essa comporta: una chiamata alla parola (v.4), la sofferenza nel portare a compimento l’incarico ricevuto (v.5), una gran fiducia nel Signore (vv.7-9).

In particolare, egli sa affrontare il giudizio umano: la non-resistenza, infatti, può essere oppure è spesso scambiata per un’implicita ammissione di colpa. Questi tratti e i toni drammatici ci fanno intravedere sullo sfondo la figura di Geremia con la sua esperienza fatta di prove, perseveranza e consapevolezza

Tuttavia l’uso costante del pronome di prima persona (“io”, “me”, “mi”, “mio”) inducono a pensare che ci troviamo davanti all’esperienza interiore del profeta. Si tratta cioè dell’unico testo autobiografico del DeuteroIsaia, una vera e propria confessio da attribuire al profeta più che al misterioso Servo che abbiamo già incontrato. Salvo che i due non s’identifichino, cosa che pare improbabile. Certamente il profeta è l’uomo della consolazione d’Israele, ma della consolazione a caro prezzo.

Si presenta anzitutto come un “discepolo” (v.4):

Il Signore Dio diede a me una lingua da discepoli (limudim).
Perché io sappia sostenere lo sfiduciato, sveglia una parola.
Ogni mattina sveglia il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli (limudim).

Mostrandoci come il discepolato sia ascolto assiduo e quotidiano della parola divina e, in un secondo momento, un ministero di insegnamento verso “lo sfiduciato” nel quale non è eccessivo identificare il popolo esiliato.

Uomo che vive di ascolto e uomo della parola il profeta si lascia modellare dal Signore senza opporre resistenze (v.5) come già Isaia (6,8). Ma questo “discepolo”, da inquadrare, come abbiamo detto, nel tempo dell’esilio, è già l’uomo della Scrittura. Davanti a noi non sta un profeta originale, che porta un messaggio speciale, ma un uomo della tradizione.

A causa dell’assenza del tempio, del suo culto e delle sue scuole, come accadde durante l’esilio, assenza che rende probabile la nascita della sinagoga, non c’è che la parola scritta alla quale appellarsi per accedere al progetto divino e portare consolazione.

Durante l’esilio si fissano, infatti, le tradizioni legali storiche e profetiche, ma nasce, soprattutto, la classe degli scribi non più come funzionari di una corte che non rinascerà, bensì come redattori e responsabili dell’insegnamento dal quale dipende l’identità popolare.

E’ una classe laica, non sacerdotale, in cui vale non la famiglia o la tribù di provenienza ma puramente il nuovo criterio dell’applicazione all’ascolto, allo studio e, finalmente, della competenza.

Non manca chi consideri il DeuteroIsaia un discepolo del ProtoIsaia, perché si attribuisce il termine limmud, che è raro e compare, se non sbaglio, in Is. 8,16. Forse apparteneva ad una scuola profetica nata durante l’esilio, che si rifaceva ai grandi temi di Isaia, Questo legame potrebbe giustificare sia l’anonimato del nostro Profeta sia il fatto che egli consideri il suo messaggio strettamente connesso alle promesse consolanti di Isaia, passata la correzione dell’esilio. Correzione che, per altro, anch’egli ha vissuto nella deportazione, con il macabro rituale che essa comporta: sputi, flagellazioni, depilazione (v.8).

Vissuto in esilio, egli è in grado di confortare il popolo di cui pure subisce l’opposizione, giacché la conoscenza della tradizione nell’ascolto quotidiano gli consente di riconciliare Israele col proprio passato e di aprirgli le porte del futuro. A lui spetta ascoltare e perseverare nella prova. In questo ha già le caratteristiche “cristologiche”.

Osserviamo ora con realismo la situazione del popolo. Il profeta parla al resto esiliato non a chi è rimasto nel proprio paese: gli esiliati sono, infatti, considerati l’autentico popolo d’Israele. Il perché di questa identificazione è molto chiaro socialmente.

Era esiliata, infatti, come altrove ho detto (vedere “Storia del popolo ebraico”, la classe dirigente: sacerdoti, uomini politici, capi militari, funzionari e burocrati, intellettuali; coloro che, in patria, avrebbero potuto guidare una rivolta e una resistenza, ma che, una volta sradicati dal paese, erano costretti ad assimilarsi. Questo popolo però è ancora incredulo e accecato, nonostante la consolazione del profeta.

All’inizio della terza sezione (vv.10-11), che probabilmente è un’aggiunta più recente rispetto a quanto precede, troviamo finalmente la parola “servo”.

Il Signore esorta, infatti, il popolo ad ascoltare la voce del suo “Servo”, il profeta. A questo punto le due figure si sovrappongono e questa sovrapposizione spiega come mai anche i vv.4-9 siano poi stati considerati un canto del Servo, anziché un’autobiografia del profeta.

Il legame strutturale tra le due sezioni è assicurato anche dalla ripetizione della interiezione “ecco!” (hen) che apre i vv.9 e 11. Dovremo verificare se questa sezione si prolunghi nel capitolo che segue, come ho detto in apertura.

Certamente ciò che cattura la nostra attenzione, in questo breve capitolo, è l’autobiografia profetica, una rarità, come genere letterario, nell’A.T., in cui il vero protagonista è però non chi parla/scrive, bensì un altro, il Signore, che compare ai vv.4.5.7.9.

Benché dunque l’esegesi tradizionale riconosca, negli altri tre canti del Servo, Israele, se ebraica, o il Messia, se cristiana, essa è tuttavia concorde nel riconoscere il profeta, con le caratteristiche che abbiamo delineato, in queste poche righe. Questo ci permette di metter ancora meglio a fuoco quali ne siano le caratteristiche, poiché scriba e discepolo.

Ci permette anche di riconoscere che è probabilmente tale consapevolezza a sostenere l’anonimo profeta nel momento della prova che, come abbiamo visto, è duplice. Essa proviene, infatti, dall’esterno, ossia da chi lo ha costretto all’esilio, e dall’interno, cioè da coloro che sono esiliati come lui e resistono al suo ministero di consolazione e di speranza. Per lui dunque tutto si gioca sull’ascolto e sulla perseveranza. La consapevole accettazione di tale destino corrisponde alla strana espressione del v.7:

rendere la propria faccia dura come pietra

che ritroviamo anche nel profeta Ezechiele (3,8-9) e all’inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme dove si compirà la sua pasqua (Lc.9,51).

Ora Ezechiele è in condizioni analoghe a quelle del nostro profeta anonimo, dato che è partito per l’esilio con la prima ondata di deportati. Questo può spiegare la consonanza dell’immagine.

Nel caso di Gesù potremmo affermare che il ricorso a questa formula dice come e quanto questi profeti abbiano esercitato una sorta di magistero che egli ricapitola portandolo al suo compimento con la sua passione morte e resurrezione.

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