Libro di Isaia: Capitolo 1, 1-31

Isaia in senso stretto svolge la sua attività profetica negli anni tra il 740 e il 701 a.c., prendendo però le date in maniera semplificata. E’ in ogni caso un periodo in parte sereno in parte turbolento, che si conclude con l’invasione del paese da parte degli Assiri.

Isaia è un uomo di corte, coltissimo e raffinato. Il suo linguaggio è spesso difficile anche per un buon ebraista, perché ricco di preziosismi: a conferma del fatto che quando affermiamo che il Signore si rivela e affida grandi incarichi ai poveri significa che chiama persone disponibili a tutto per lui (Isaia, come capiremo, ebbe una vita assai tribolata, e la tradizione lo fa morire martire), quale che sia la loro estrazione sociale e la loro cultura. Non pochi profeti dell’A.T. anzi provengono da classi sociali elevate, ma si considerano e sono in ogni modo “poveri” davanti a Dio.

Cominciamo a vedere la prima sezione del ProtoIsaia (capp.1-12).

Si tratta di una sezione fondamentalmente unitaria, contenente tempi di tensione e di guerra: brutta guerra, perché in parte guerra civile. Gli Assiri, infatti, che si stanno costruendo sistematicamente un impero che comprenda tutto il V.O.A., si alleano con gli ebrei del regno del nord (Samaria) per ridurre a vassallaggio il regno ebraico del sud (Gerusalemme).

Il profeta cerca di sostenere la politica autonomista del re di Gerusalemme proponendo in continuazione il ritorno alla fedeltà all’alleanza con il Signore.

In questo primo capitolo in particolare rimprovera la città per la sua idolatria, che il profeta vede come causa dell’eventuale rovina politica, perché Dio corregge il suo popolo attraverso gli avvenimenti della storia e il profeta è chiamato a interpretarli.

Gerusalemme, vista come cifra del regno di Giuda e dell’intero popolo dell’alleanza, è al centro dell’interesse di Isaia: è come un filo rosso che tiene uniti i tre livelli compositivi dell’intero libro.

Nel capitolo 1 distinguiamo:

  • 1,1 data del ministero del profeta (740-701 a.c. circa);
  • 1,2-8 prima requisitoria divina contro il popolo
  • 1,9 e confessione del popolo;
  • 1,10-20 seconda requisitoria divina contro il popolo;
  • 1,21-28 descrizione della Gerusalemme idolatra;
  • 1,29-31 requisitoria contro i culti idolatri.

Le requisitorie si aprono ambedue con l’imperativo “Udite!” (vv.2.10). La descrizione della Gerusalemme idolatra inizia con un’esclamazione con cui inizia anche il “Libro delle lamentazioni”, che ne evoca la grande rovina.

L’atmosfera è come sospesa, il profeta vede la situazione concreta della città e del regno e capisce che così non può continuare: se all’orizzonte si profila il pericolo dell’invasione assira è però vero che il popolo sta contaminando città e tempio disattendendo l’alleanza in tutti i modi possibili.

La prima requisitoria (vv.2-8) convoca in qualità di cancellieri e garanti del giudizio il cielo e la terra, perché il peccato, di fatto, coinvolge tutta la creazione: cielo e terra, ossia l’universo, ed essi possono attestare, spettatori muti eppure eloquenti, che le accuse sono vere, controllando che il giudizio si svolga regolarmente.

Il testo (v.4) procede identificando l’accusato andando verso un’intimità sempre maggiore: si parte dal termine “nazione/gente”, per passare a “popolo”, a “razza/stirpe” per arrivare al famigliare “figli”. Gli aggettivi sono una malizia sempre più compatibile con l’essere figli. Descrive poi la grave infezione che ha colpito il popolo e che non lascia altro spazio a correzioni divine. Infezione che ha invaso tutto, dalla testa ai piedi (vv.5-6).

Qual è il loro peccato?

Non hanno saputo vivere la propria condizione di figlio nei confronti del Signore (v.2) e persino un buon capo di bestiame allevato in casa (v.3), che sa riconoscere il proprio padrone al passo, alla voce, al richiamo, nel suo genere, è più “sapiente” di lui, totalmente dimentico dei legami stretti con gli altri uomini e con Dio, per esempio la gratitudine.

Dobbiamo a questo versetto se, nei nostri presepi compaiono l’asino e il bue. Nessuno degli evangelisti ne parla, infatti, ma si tratta piuttosto di un ripensamento tradizionale del fatto che l’uomo vive totalmente dimentico di quanto il Signore fa per lui e, alla fine, gli animali domestici hanno più senso di chi sia il loro signore. Il popolo prende la parola alla fine (v.9), riconoscendo che la propria situazione è come stare sull’orlo di un abisso: Sodoma e Gomorra, infatti, equivalgono a toccare un fondo, il massimo della contaminazione, da cui si risale in pochi.

La seconda requisitoria ha grande affinità con il Salmo 50 e si apre con un’identificazione tremenda: il popolo pensava a Sodoma e Gomorra come ad un limite estremo da scongiurare. Il Signore assicura che è un limite già toccato e forse superato. Il testo è costruito come un giudizio bilaterale ( i due contendenti si affrontano e ciascuno rinfaccia all’altro le sue mancanze, finché uno dei due riconosce la sua colpevolezza).

Nella contesa che il Signore ha con i capi del popolo, visti come responsabili dell’ingiustizia, egli non lamenta le mancanze nei confronti del culto, che, anzi, è “eseguito” anche troppo bene, bensì la mancanza di giustizia e di attenzione verso i deboli (v.17). I capi, a differenza del popolo della sezione precedente, non rispondono e questa è un’ammissione di colpevolezza. Se volessimo usare il linguaggio di oggi dovremmo affermare che si tratta di una polemica anticlericale che si chiude, però, (vv.16-17.19-20) con un molteplice richiamo alla decisione responsabile (vv.16 ss.).

Vediamo da ultimo la descrizione della Città infedele (vv.21-28), di cui ci sono parecchi paralleli nella letteratura profetica.

Essa è intonata sul ritmo del canto funebre (qina), come se Gerusalemme, che è ancora politicamente libera, fosse un morto vivente o un morto che cammina.

La città è identificata come adultera e infedele (il lessico in ebraico è più pesante); una capitale è un luogo cui si pensa sempre come sede e garante della giustizia, ma Gerusalemme ha davvero tradito la sua vocazione, grazie alla corruzione dei suoi governanti.

A quel punto, il Signore dovrà provvedere da solo a sanare la situazione (vv.24-28), non senza però una polemica contro i culti idolatrici della fecondità, di ascendenza babilonese, che erano celebrati nel contesto di giardini nei confronti di alberi particolari. Questi diventano un segno di vergogna e la pena è una specie di contrappasso, quella siccità che toglie ogni forza agli uomini.

Forse, in chiusura di questo nostro primo meditare con Isaia ho l’impressione che leggeremo, nel prosieguo dei capitoli qualcosa di non proprio consolante.

Naturalmente non troveremo solo questo nel corso del Libro, ma i capitoli 1-39 hanno davvero questa come caratteristica dominate.

Nonostante le grandi promesse cha la liturgia romana valorizza in particolare nel tempo di Avvento, e che troveremo in una piccola collezione di oracoli dal cap.7, il ProtoIsaia ci mette davanti alla necessità di riconoscere e accogliere la via di correzione che il Signore ci indica attraverso la parola del profeta, per avviare un vero processo di conversione della nostra vita.

Del resto dobbiamo aspettarci che la Scrittura ci sia realmente guida nella vita e dobbiamo imparare a vedere anche la correzione come un conforto: il Signore corregge non solo perché ama, ma soprattutto perché ha stima di noi, ha fiducia che noi possiamo cambiare.

Lo stesso atteggiamento egli ci chiede di avere verso i nostri fratelli: la fiducia nella conversione nostra e loro è un’autentica radice, come pure un’autentica forma di speranza.

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