Libro di Isaia: Capitolo 51, 1-23

Normalmente questo capitolo non riceve attenzione da interpreti e lettori, quasi schiacciato come è tra i cosiddetti canti del Servo dei capp.50, 52,53, rispettivamente, in mezzo ai quali si trova.

Il motivo per il quale, al contrario, gli dedichiamo la nostra attenzione è proprio questa non facile posizione, che lo rende una specie di ponte. Notiamo, infatti, che il testo è costellato da imperativi che hanno una sorta di loro presupposto in Is,50, si estendono per il cap.51, appunto, e proseguono al cap.52, sino al decisivo v.13, allorché ha inizio la presentazione del Servo nell’ultimo canto.

Tenendo conto di tale serie di imperativi che percorrono il Testo, possiamo tentare di identificare come segue la struttura del capitolo 51, nel quale distinguiamo tre sezioni:

vv.1-8 prima sezione
(continua il discorso del Servo)
v.1 ascoltate/ guardate
v.2 guardate
v.2b-3 motivazione dell’imperativo
v.4°-b datemi retta/ porgete orecchio
v.4c-5 motivazione dell’imperativo
v.6 alzate i vostri occhi /guardate
motivazioni dell’imperativo
v.7 ascoltate/ non temete/ non scoraggiatevi
v.8 motivazioni dell’imperativo

vv.9-16 seconda sezione
(apostrofe del Signore)
v.9 destati/ destati/ rivestiti/ destati
motivazioni in forma di interrogazione retorica e autopresentazione del Signore

vv.17-23 terza sezione
( apostrofe a Gerusalemme)
v.17 svegliati/ svegliati/ alzati

In particolare, dalla seconda sezione, grazie alla ricorrenza della stessa forma verbale ( ‘uri 51,9) si riconosce lo stretto legame con il cap.52, che riprende in gran parte lo stesso versetto (52,1). Siamo in buona sostanza, di fronte ad un’unità redazionale che ruota attorno al tema dell’alleanza entro le diverse dimensioni della storia.

Vediamo ora alcuni dettagli delle diverse sezioni, che, evidentemente, si potrebbero analizzare identificando in loro delle unità interne più piccole e espressive.

Sino al v.8 continuerebbe il discorso del profeta/Servo, iniziato a 50,10. Sua preoccupazione è richiamare l’alleanza nella dimensione storica del passato, ricordando Abramo e Sara (v.2), progenitori del popolo fedele (v.1). Chi cerchi la giustizia e il Signore, ha infatti nella prima coppia di patriarchi i propri ascendenti. Come dunque accogliendo fedelmente la promessa, essi sono divenuti fecondi senza limitazioni nel tempo, così il popolo che si è mantenuto fedele è intagliato nella roccia divina ed è segno della fecondità delle promesse fatte ai patriarchi.

Ho detto “roccia divina”, perché al v.1c ricorre il termine sur, tipico della tradizione deuteronomista e del DeuteroIsaia, riferito a Dio. Ho detto anche “segno di fecondità delle promesse fatte ai patriarchi” perché proprio questo qualifica l’alleanza nel suo primo stadio: la promessa di una discendenza numerosa, che assicuri nel tempo il possesso della Terra che Dio ha giurato di dare. Basterebbe rileggere la storia di Abramo da Genesi 12 in avanti, per sapere che la promessa non riguarda solo lui personalmente, ma anche le generazioni a venire. Abbiamo dunque, in pochissime e scarne parole, un riepilogo della storia salvifica nei suoi inizi.

D’altra parte, non si tratta unicamente di un passato glorioso. Esso è il seme del presente e del futuro immediato, come mostra il v.3 con la motivazione dell’imperativo. In particolare il tema della consolazione, come abbiamo visto sino da Is. 40,1, è tipico del profeta e ci propone qui di nuovo il confronto tra paesaggi (deserto; giardino; città) in conformità con le stesse promesse ai patriarchi.

Il testo è di per sé intessuto di immagini e temi già noti: l’ascolto, la Torah-come-luce, la subitaneità della salvezza divina.

E’ inoltre coinvolta la corporeità, occhi compresi (v.6). Gli interpreti concordano sul fatto che il DeuteroIsaia sia, in questo senso, la cerniera tra ascolto e visione, senza assolutizzare nessuno dei due momenti della fede: ascoltare e vedere sono infatti reciproci, per il profeta, rispetto al credere. Nello stesso tempo la salvezza di cui si parla è qualcosa di onnicomprensivo: essa è rivolta a Israele, popolo del Signore, e ai lontani (vv.4-5) Dunque, nel complesso, qualcosa di durevole nel tempo ed estesa nello spazio, anche se tale non appare, perché non interdetta ad alcuno.

La seconda sezione (vv.9-16) ha , al suo centro, una solenne autoproclamazione divina, che richiama le pagine dell’Esodo e, in particolare, nel decalogo (l’uso del pronome di prima persona singolare ‘anoki che ricorre, riferito a Dio, in Es.20,2). Tale autoproclamazione non è però chiusa in se stessa. E’ bensì aperta alla relazione privilegiata che Dio ha con Israele: è infatti “il Signore tuo Dio” (v.15) che dichiara a Sion “Mio popolo sei tu” (v.16). Benché a distanza, siamo di fronte ad una formula di reciproca appartenenza, tipica dell’alleanza.

D’altra parte questa sezione intreccia in maniera quasi inestricabile l’Esodo (il riferimento al “braccio del Signore”) con il mondo mitologico della creazione evocato in controluce dal “drago” ( rahàb) del v.9. Creazione e liberazione sono i due momenti della salvezza in una situazione di reciprocità che il popolo vive come relazione di alleanza con il Signore.

Nello stesso tempo l’elemento che più cattura la nostra attenzione è la necessità di “destare” Dio, in altre parole di vincere la sua assenza, adombrata dal sonno, immagine tipica del salmi di supplica. La seconda sezione, in poche parole, fa convergere passato remoto (creazione ed Esodo) e passato prossimo (esilio), accennando alla situazione normale dei credenti che sperimentano l’assenza o “eclissi” di Dio, che ha trovato nel secolo XX un apparente punto di non ritorno.

Eppure il Signore è sempre presente alla storia umana: tanto il passatoi, lontano e vicino, così come il presente, esigono che si confidi nella sua consolazione ponendo in campo la sua grandezza davanti all’effimero esistere e potere delle potenze mondane.

Proprio tenendo conto dell’assenza / eclissi di Dio ha senso la doppia presentazione (‘anoki ‘anoki) del v.12, che riprende, rafforzandolo, l’inizio del decalogo, perché in tal modo si affaccia una risposta che può essere importante anche per noi, almeno in una certa misura. Spesso infatti non è Dio ad essere assente o a addormentarsi nella storia, siamo piuttosto noi a dimenticarci di lui (v.13).

L’ultima sezione del capitolo è dedicata a Gerusalemme e riprende il tema teologico cui abbiamo appena accennato. Non il Signore dorme, ma la Città Santa è in preda all’ubriachezza (e quindi all’oblio) della correzione divina.

L’ubriacatura è fuori misura, per un verso: deve essere stato un vino davvero forte e speciale, se ne è bastata una coppa. Il probabile riferimento è all’uso di narcotici cui si ricorreva per i condannati a morte. Talché il vino drogato annuncia una morte prossima.

Tuttavia l’immagine dell’ubriacatura dice anche che la condanna è a misura, è dosata, ha una sua finitezza: Gerusalemme ha avuto una coppa, una sola, che ora, passando di mano in mano, è data ai suoi nemici (vv.22-23). La correzione divina quindi dura appena il tempo di un bicchiere e non è esclusiva del popolo di Dio.

Egli ha ascoltato i lamenti della città e li ha davvero accolti, sino a rispondere a Sion con cordialità e affetto.

L’esilio è stato una droga, ma forse dovremmo rammentare che non c’è droga che, nella giusta posologia, non sia anche un farmaco. Tutto il problema sta nel dosaggio. Questa è infatti la grande intuizione del profeta, dal punto di vista della teologia della storia. Può esserci un dolore che “fa bene”, per quanto distruttivo sia per chi lo vive.

Tale impostazione ci mette nelle condizioni di capire il senso dell’ultimo canto del Servo, oltre alla sua collocazione. Non ci autorizza però ad applicare questa interpretazione delle tragedie storiche a nostra discrezione. Tale applicazione spetta, semmai, a coloro che sono oggetto della correzione stessa, non ad osservatori esterni non toccati dal dolore. Inoltre, secondo il dettato del Testo, deve essere a misura ( la coppa).

Riguarda cioè tragedie storiche con un ritorno, come l’esilio babilonese. Difficilmente o per nulla si applica alle tragedie storiche del nostro secolo, la cui vastità, quanto al numero delle persone coinvolte e quanto alle conseguenze nel tempo, è senza confini. Pensiamo a “genocidi”, “pulizie etniche”, “delitti contro l’umanità” (nel secolo ultimo siamo pur stati costretti a inventare un lessico nuovo a causa della incommensurabilità di quanto è accaduto) alla notizia dei quali siamo ormai purtroppo assuefatti, ma la cui comprensione ci sfugge totalmente.

Is.51 ci presenta dunque diverse tematiche degne di approfondimento. Di tutte la più rassicurante è che nessuna correzione divina (o, almeno nessun fatto della vita e della storia che noi leggiamo come tale) è senza termine. Il profeta insiste sulla rivelazione della paternità divina sia attraverso l’affermazione dell’alleanza, sia quando Dio pare rendersi assente nei nostri confronti. L’alleanza resta, al di là degli umani tradimenti, al centro della rivelazione e della fede.

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