Libro di Isaia: Capitolo 14, 1-32

Il testo che meditiamo è certamente singolare per le sue caratteristiche e per noi forse abbastanza nuovo, dato che non ha gran cittadinanza nella liturgia latina. Tuttavia c’è noto in maniera indiretta, perché la tradizione vi ha ricorso a proposito di Lucifero e della ribellione degli angeli. Non ci soffermeremo però su quest’elemento, ma sul senso letterale del testo.

Una prima osservazione di carattere generale riguarda la traduzione che abbiamo sotto gli occhi: è molto piatta e non rende ragione di elementi lessicali e stilistici espressivi. Gran parte del capitolo ha, infatti, un’intonazione satirica: è un canto di benvenuto e congratulazioni sul ritmo dell’elegia funebre, dove la satira si colloca non solo al livello dei contenuti, ma anche dello stile. Inoltre ci sono termini che meriterebbero scelte lessicali più attente.

Una seconda osservazione è che il testo è talora diviso in sezioni da alcuni commentatori che v’individuano diversi oracoli. Questo è senz’altro vero quanto all’origine del capitolo, ma, di fatto, ora esso è strutturato in una profonda unità sintattica e lessicale con quanto precede e al suo interno, così non pare si debba sezionare leggendolo come un mosaico di frammenti disparati, ma si debba piuttosto cogliere le tensioni interne che lo percorrono.

In particolare la parte centrale (vv.5-20), la gran satira sulla caduta del re di babilonia ha una struttura drammatica all’interno della quale si avvicendano diversi personaggi che intervengono di volta in volta, come segue:

  • vv. 5-9 gli israeliti
  • vv.10-12 le ombre
  • vv.13-14 il re
  • v.15 ancora le ombre
  • vv.16-20 il pubblico

La prima parola di Is.14 è una congiunzione (ki) che potrebbe essere causale (“perché”) o osservativi (“sì”, oppure: “davvero!”). Come che sia, nella sostanza non cambia molto: in entrambi i casi, infatti, s’intende legare l’oracolo di ritorno dall’esilio di 14,1-2 con quello contro Babilonia del cap.13. La città sta per essere giudicata e cadere a sua volta, perché/davvero il Signore ha pietà del suo popolo.

Il breve annuncio del ritorno è accompagnato dal segno tipico del DeuteroIsaia e del TritoIsaia: il popolo, infatti, non tornerà da solo, ma accompagnato, scortato, sorretto dai nemici di un tempo. Tutto questo sarebbe l’antefatto al canto satirico che annuncia la morte del re di Babilonia e la sua discesa agli inferi, preludio alla liberazione, che è il tratto più interessante dell’intero capitolo. In realtà è ben di più.

A quest’antefatto corrispondono, infatti, i vv.21-23, annuncio del castigo definitivo di Babilonia, cui fanno seguito altri oracoli contro le nazioni (Assiria, vv.24-27 e Filistea, vv.28-32). L’ambiente rimane quindi quello degli oracoli contro i nemici tradizionali d’Israele, in continuità con Is.13. Il nucleo centrale del capitolo è costituito dai vv.4-20 con la satira (masal), appunto, contro il re di Babilonia.

Si formulano molte ipotesi per assegnare un nome a questo sovrano. Il testo in realtà non elementi storici tali da favorire una vera identificazione, se non un’allusione che vedremo. Si tratta di un canto che esprime sollievo e gratitudine per la liberazione, ironizzando sull’apparente invincibilità del potere umano abbattuto invece da Dio.

Nel masal intervengono interlocutori diversi, come ho accennato. L’invito che il profeta rivolge al popolo (v.4°) come fosse una persona sola, fa esplodere la comunità in un’esclamazione di sollievo, in cui il re nemico è nominato alla terza persona, quasi a prenderne le distanze (v.4b): finalmente è finita!, si dice. Il verbo finire è anzi ripetuto due volte nel giro di quest’emistichio. Il discorso degli Israeliti continua sino al v.9, proclamando che la gran mutazione politica è opera del Signore e segno della sua potenza. Tuttavia da una parte s’indulge a rievocare la violenza del re enfatizzando l’attuale senso di sollievo; dall’altra si presenta la visione di un mondo pacificato, perché anche la creazione subiva violenza come gli uomini sotto la tirannia /vv.7-8); infine si presenta il mondo degli inferi dove la notizia della caduta dell0’aguzzino e del suo prossimo arrivo sta creando un certo scompiglio (v.9).

Dal v.8 poi il profeta è passato di colpo, dalla terza persona dell’inizio, alla seconda: ora si rivolge al re come a un tu. Il discorso si fa serrato e vicino, da una pura constatazione dei fatti alle reazioni che essi provocano. Uomini, creature tutte, e persino l’abisso sono toccati da quest’evento. L’abisso è pieno di re spodestati e detronizzati, di uomini dal potere apparente perché effimero (v.9). Proprio costoro sono invitati, come il protocollo esige, ad accogliere il nuovo ospite di rango con una specie di ricevimento ufficiale. Il tono dei discorsi però non è encomiastico, come spesso accade in simili circostanze, ma sarcastico, sospeso tra meraviglia e compiacimento perché a tutti è toccato lo stesso destino (v.10):

Anche tu sei stato abbattuto come noi.

Il potere crea una ben strana solidarietà, evidentemente, che si esprime qui con l’ironia e con giochi di parole impossibili da tradurre. Certamente riconosciamo qualcosa di familiare al v.12, laddove si parla di “Lucifero, figlio dell’aurora”. Il versetto non è chiarissimo, tanto che sono proposte diverse congetture. Forse si potrebbe tradurre:

come sei caduto dal cielo “stella del mattino”, “figlio dell’aurora”,

senza personificazioni.

Avremmo di fronte, con “figlio dell’aurora”, un titolo mitico, fenicio o ugaritico, che equivale ad una proclamazione di divinità, tanto più sarcastica se pensiamo che è conferito al re abbattuto dagli abitanti del mondo delle ombre. Il contrasto cielo/abisso, innalzamento/abbassamento, potere/caduta continua ai vv.13-14: sono ricordate infatti le passate affermazioni del re, subito smentite dalle ombre dei re già detronizzati (v.15). Considerato dunque il luogo, il momento e il pubblico, il sarcasmo è crescente: se il re parla di se stesso solo proiettato nel passato, in termini di innalzamento sino a rendersi pari all’Altissimo, ora il suo progetto è caduto e, per di più, gli è rinfacciato da altri re che hanno vissuto le stesse cose prima di lui.

Dal v.16 ha inizio una sorta di meditazione da parte di un pubblico che ha assistito al canto iniziale degli Israeliti e all’accoglienza nel mondo delle ombre. E’ un pubblico incredulo, la cui riflessione riprende i temi già uditi più quello della sepoltura negata. Il mondo antico era particolarmente sensibile al fatto che si tributasse al defunto una sepoltura adeguata: si pensi ad Antigone, nella tradizione greca, per esempio.

Questo era vero anche nel V.O.A. e per gli Ebrei è ancora vero a tutt’oggi: si può accettare una morte atroce, non già la mancanza di sepoltura o la profanazione di una tomba. Essere perciò dissepolti e abbandonati come è detto al v.19 è il massimo degli affronti. Nello stesso versetto compare per altro una possibile allusione all’identità del tiranno caduto. Si parla infatti di lui come di un virgulto (neser), termine assonnante e forse allude al re Nabucodonosor, in ebraico Nebukadnesar.

Il pubblico aggiunge anche una sua considerazione etico-politica: il re distruttore di popoli ha distrutto, con le altre, la sua stessa nazione e la sua discendenza, segnate oramai da una decadenza irreversibile. La storia ha confermato questa riflessione. Tutto è concluso da un oracolo divino (vv.22-23) che decreta la devastazione di babilonia: la grande città ricca di acque e di giardini, secondo lo schema consolidato dei testi di maledizione o che descrivono la desolazione del territorio, finisce abitata da animali selvatici con i suoi fiumi e canali ridotti a palude.

Il capitolo comprende ancora due oracoli: contro l’Assiria (vv.24-27) e contro la Filistea (vv.28-32). Il primo risale probabilmente all’epoca della guerra siro-efraimita, di cui abbiamo già parlato. Come abbiamo visto gli Assiri invasero di fatto il regno di Giuda, ma nella geopolitica di Isaia questo era il modo con cui Dio avrebbe richiamato a sé il suo popolo nella fedeltà. In questo oracolo però si aggiunge paradosso a paradosso: il Signore si serve dell’invasore per correggere il suo popolo, ma l’invasione è una trappola per gli Assiri stessi che proprio in Giudea subiranno una grande disfatta.

La tematica è, in fondo, vicina a quella della satira contro il re di Babilonia. Lo stesso si potrebbe dire del secondo oracolo, ci troviamo verso l’anno 728-727, data in cui si colloca la morte del re Akaz. Abbiamo dunque oracoli e testi di epoca diversa riuniti nello stesso capitolo in base ad un’unità tematica fondamentale. Anche per la Filistea, stato vassallo dell’impero assiro, infatti si parla di una verga che si è spezzata (v.29) e che è quella dei suoi dominatori, ma sarà una gioia breve. Anche per lei verrà la devastazione e forse cerca alleanza con Sion. Ma la parola definitiva, coerente con la politica sempre sostenuta dal profeta è che il vero alleato di Gerusalemme è il Signore: la città santa e il tempio sono il vero presidio del popolo.

Questo capitolo ci offre dunque uno spaccato molto vivace della visione politica presente nel libro di Isaia. La gioia per la caduta del tiranno, il sarcasmo nel constatare lo scarto esistente tra l’ambiziosa corsa al potere e il destino di chi al potere aspira, l’affermazione che in ogni modo Dio dirà l’ultima parola perché solo il suo potere è unico e assoluto: Isaia ci pone davanti ad una percezione disincantata e realistica delle vicende. La storia procede, ai nostri occhi, in maniera incomprensibile tra regimi e dittatori che paiono destinati a dominare per tempi lunghissimi e magari finiscono per cadere nel volgere di poco tempo, situazioni tragiche che sembrano stagnare in conflitti senza fine, rari periodi di serenità.

Ai nostri occhi la storia pare una serie di vicoli ciechi in cui gli uomini si cacciano, di volta in volta, senza imparare nulla dell’esperienza altrui, e raramente dalla propria. Il profeta ci mostra come tutte le contraddizioni obbediscano ad una logica che invece è ben nota all’Eterno, che tutto governa. Agli occhi di Dio un tiranno resta quello che è e le sue azioni possono al massimo essere usate come correzione all’idolatria del popolo; ma si tratta in ogni caso di un potere a termine.

In ogni caso infatti nell’orizzonte della Scrittura la tragedia storica è ancora a misura (Isaia parla di “coppa” dell’ira divina). Ben altro è invece il discorso sulla tragicità della storia del ventesimo secolo nel quale la violenza si è dimostrata gratuita e non ha conosciuto confini nei modi e nei numeri. Per essa siamo ancora alla ricerca di un modello profetico-teologico adeguato per interpretarla.

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