Libro di Isaia: Capitolo 41, 1-29


Ogni volta che ci si accosta al DeuteroIsaia, varcata la soglia del cap.40, sarebbe necessario leggere a ritroso, per vedere come ogni nuovo capitolo presenti tematiche riprese dal precedente, o ampliate o con più forti accentuazioni polemiche o con differenti connotazioni simboliche. Il complesso di Isaia 40-55 non presenta soluzioni di continuità, se non in maniera apparente: anche laddove, infatti, sembra che “cambi discorso”, il testo è reso compatto da queste riprese tematiche, lessicali, sonore. Leggendo e meditando Is.41 guarderemo quindi indietro verso Is.40 (evidentemente si può guardare anche in avanti verso 42ss, ma volgersi indietro è meno spontaneo e, al tempo stesso, più utile per cogliere l’unità del testo).

Cerchiamo intanto di individuare i momenti essenziali di cui si articola Is.41. Possiamo indicarli, a grandi blocchi, come segue:

  • cap. 41,1-5 vocazione di Ciro,
  • cap. 41,6-7 versetti spostati al cap.40,
  • cap. 41,8-16 vocazione di Israele
  • cap. 41,17-20 nuovo esodo,
  • cap.41,21-29 processo con il rito del giudizio contraddittorio (ryb) contro gli dei.

Già questo schema mostra come ci troviamo di fronte a temi e motivi già meditati nel capitolo precedente, per questo sarà bene passare ai dettagli.

In che senso possiamo affermare “vocazione di Ciro” (vv.15), questa che potremmo chiamare anche la “sezione delle isole” (vv.1.5)?

Non certo nel senso tecnico di un racconto di vocazione. Tuttavia il profeta sta parlando di un personaggio anonimo cui affidato un incarico importante, o piuttosto che, suo malgrado, è chiamato a compiere qualcosa che il Signore ha voluto. Infatti, è un vincitore che tale crede di essere per forza propria, mentre tutto, compreso il suo potere politico militare, è stato voluto dal Signore per liberare il suo popolo dall’esilio. E’ chiaro che questa lettura della storia è ideologica: Ciro non si è certo mosso dalla Persia per liberare gli Israeliti, ma è interessante vedere come un evento che noi oggi definiremmo imperialistico sia qua letto in chiave provvidenziale.

Dal punto di vista tecnico questi versetti sono già un processo con il rito del giudizio contraddittorio (ryb), analogo a quello che chiude il capitolo, che perciò è da intendere tutto nell’ambito di una rovente polemica contro gli dei.

Non sono essi a governare la terra, quand’anche esistessero e fossero le divinità delle nazioni dei potenti che sembrano reggere le sorti del mondo. A questo processo, in cui i due contendenti, secondo procedura, devono elencare ognuno le inadempienze dell’altro alla presenza di testimoni, finché uno dei due sia ridotto al silenzio, i testimoni sono le isole e le nazioni (vv.15). Al v.1b compare un’espressione già presente in 40,31; si tratta di “rinnovano la loro forza” che là aveva il tono della promessa mentre qui è un’apostrofe ironica.

La traduzione della CEI ha “badate alla mia sfida” per la solita questione che, altrimenti, il testo sarebbe incomprensibile.

Il culmine della pungente requisitoria divina è la domanda del v.4, cui tutti rispondono con il silenzio, mentre Dio procede con una solenne autopresentazione. Egli è colui che annuncia il futuro e fa salire le generazioni sul proscenio della storia: è il primo e sta con gli ultimi, ossia il suo popolo, per ora, apparentemente, senza futuro. In questo dramma Ciro, l’anonimo potente, non è il vero protagonista, ma solo un attore guidato con sapienza da Colui che vuole essere, al tempo stesso regista e primo attore.

Segue quella che abbiamo chiamato “vocazione d’Israele” (vv.8-16). Anche questa è una terminologia di comodo, perché non abbiamo davanti un vero racconto di vocazione. Il profeta insiste sull’elezione gratuita del popolo, senza passare a dire quali compiti o responsabilità essa implichi.

Con un linguaggio solenne ed enfatico, in cui sono in reciproca tensione i pronomi personali “tu” (‘atta) ed “io” (‘ani), quasi a rilevare il privilegiato rapporto a due tra Dio e Israele, e con il ricorrente “non temere” (vv.10.13.14 – formula cara alla tradizione ebraica per individuare la relazione di amicizia e di confidenza che lega Israele al suo Signore), chi parla emette un oracolo di salvezza che spezza l’attonito silenzio che ha accolto la precedente requisitoria.

L’oracolo comporta dei titoli per il popolo, tra i quali vale la pena di valorizzare “stirpe di Abramo”, che rimanda quest’attuale salvezza alle promesse fatte al patriarca, dandole così uno spessore storico e di memoria, e “mio servo”, perché nel mondo antico il servo preferito dal padrone riceveva più confidenze e fiducia di un figlio.

Il popolo è inoltre identificato da due nomi “Israele” e “Giacobbe”, che ricordano la lotta corpo-a-corpo tra Dio e il patriarca, mentre il testo insiste sulla lontananza dalla quale il popolo è riscattato (v.9).

Chi era dapprima vicino a Dio come l’antenato, è divenuto lontano nell’esilio, ma tornerà ad essere vicino, anzi gode della presenza divina (v.10), mentre si troveranno ad essere lontani ed introvabili gli oppressori, fino a non esistere più (v.12).

Tutto si gioca sul contrasto lontano/vicino e in seguito, sul contrasto debole vs. forte, evocato dalle immagini del verme e della trebbia acuminata. La storia conosce un rovesciamento di situazione per la decisione divina che passa attraverso il conquistatore straniero ed ignaro, ora non più chiamato in causa. In causa, in realtà, è la pura decisione divina di scegliere di nuovo e sempre il suo stesso popolo.

La vicinanza tra Dio e popolo diventa consanguineità (v.14), poiché il Signore si presenta come il go’el, ossia il “vendicatore del sangue”, “colui che riscatta”, il suo popolo e che per il diritto ebraico antico doveva essere in parente più prossimo dell’offeso. ? sempre il go’el che difende l’orfano e la vedova e che può riscattare chi sia prigioniero per debiti, ma la consanguineità ne è la condizione qualificante.

Conseguenza di tale decisione è un nuovo esodo, tanto più grande, quanto più coloro che ne sono i destinatari non si aspettano nulla. La strofa che lo annuncia (vv.17-20), si chiude con un’autoproclamazione divina con una particolare sfumatura. Si chiede infatti il riconoscimento che il vero protagonista di tutta la storia è il “Santo d’Israele”, titolo che troviamo già al v.16.

Questa ripetizione opera una sutura tra il precedente oracolo e questi versetti e ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, la profonda unità del testo. Il nuovo esodo è visto nel contrasto sete/abbondanza d’acqua, vita/morte. La trasformazione del paesaggio in cui “poveri e indigenti” si aggirano senza trovare acqua è totale: non si tratta solo di acqua per bere e sopravvivere, ma tale e tanta da consentire la crescita di sette tipi di alberi. Alcuni di loro sono di alto fusto (cedro) e non familiari al paesaggio d’Israele, altri entrano nel paesaggio e sono pregiati o per il loro (acacia, legno usato per gli arredi del culto, Es.25-27) o per la loro fragranza (mirto) o per il loro frutto (ulivo).

Il deserto diventa un giardino lussureggiante ed un bosco. Lo percorrono “fiumi”, vi scaturiscono “sorgenti”, vi si forma uno “stagno”, e vi sono “fonti d’acqua. Come a Babilonia (il pensiero della città d’esilio, così diversa dall’aridità della Giudea, è vivo) l’acqua non mancherà, ed è tutta acqua non canalizzata, non frutto di faticose ricerche umane, ma semplicemente data per irrigare con straordinaria abbondanza.

L’immagine presente alla mente del Profeta è forse quella del giardino delle origini, in cui scorrevano quattro fiumi; come allora tutto sarà opera divina, altrettanto libera e felice.

Le due sezioni riguardante l’elezione d’Israele e la sua realizzazione per parte divina con il prodigioso ritorno dall’esilio, per il quale riscatto è ri-creato il deserto, sono incastonate tra due momenti del grande ryb con il quale Dio vuole paradossalmente convincere gli idoli della loro colpevolezza, anzi della loro vacuità. Il paradosso sta evidentemente nel voler convincere chi non esiste, ma l’artificio letterario risulta di grande efficacia.

Essi sono gli dei delle nazioni che prima hanno oppresso il popolo di Giuda e ora, apparentemente, lo libereranno.

Il centro di interesse del capitolo è dunque la consueta polemica anti-idolatrica che parrebbe, nei nostri tempi di dialogo interreligioso, fondamentalista e culturalmente retriva, come qualcuno ha detto, non rispettosa della libertà altrui. In realtà dovremmo rammentare che “dialogo” non significa cedimento nei confronti dell’idolatria. “Dialogo” significa conoscere e rispettare la diversità ma, ugualmente, rendere testimonianza al Dio Unico nella gradualità della rivelazione. Nel contesto di Isaia la comprensione del problema non può essere così complessa, perché il coinvolgimento di ogni nazione con il proprio dio era, all’epoca, totale e il culto comportava pratiche incompatibili con la rivelazione.

Da qui la dura requisitoria del vv.21-29 che coinvolge i falsi dei e chi li serve, preparando la presentazione del servo del Signore, figura chiave del DeuteroIsaia, che compare la prima volta al capitolo 42.

Anche in questo processo compare la sola requisitoria divina. Gli idoli, conformemente all’accusa di nullità che è loro rivolta, non possono che rispondere col silenzio. Essi sono sfidati sul terreno del tempo: se e quando avessero predetto nel passato e se e quanto possano dire sul futuro (v.22). La storia è il terreno dello scontro, sebbene in apparenza il Signore d’Israele sia stato in un primo momento sconfitto, come ha mostrato l’esilio. In realtà il respiro della storia è più ampio che non le poche generazioni della disfatta del regno di Giuda o di quelle che stanno entro l’arco della nostra esperienza, se guardiamo i drammi della nostra storia.

Passato e futuro non “dicono” nulla però circa l’opera delle divinità pagane, dunque esse non esistono. Il v.24 presenta infatti in sequenza incisiva l’apice della requisitoria divina:

Ecco: voi siete da niente; e le vostre opere, vuote; scegliervi, un abominio.

Passando dall’essere all’agire e all’adesione che altri ha nei loro confronti.

Per contrasto il Re di Giacobbe (v.21) presenta le prove della propria azione, talché alla fine del capitolo ricompare il liberatore anonimo da lui suscitato. Compare persino l’araldo (mebaser, al maschile, questa volta, v.27) che avevamo incontrato al femminile in 40,9 (mebaseret). L’affermazione che il Dio d’Israele parla e agisce, dà conto di quanto annunzia con i fatti e rivela con la sua parola il senso dei fatti stessi, in assoluta solitudine (v.28), è l’affermazione del suo essere protagonista unico, accanto al quale ci sono solo comprimari, come Ciro.

Il v.29, con il quale il capitolo si chiude, riprende in buona sostanza il v.24, sottolineando la vacuità degli dei. Il passaggio anzi dalla seconda persona del v.24 alla terza del v.29 indica che la distanza tra il Dio d’Israele e costoro è un abisso incolmabile. Dunque: temi, motivi e termini già visti e che vedremo ancora.

Dovremo abituarci ad una sorta d’eco, da un capitolo all’altro, cogliendo, di volta in volta, gli aspetti peculiari a ciascuno.

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