Libro di Isaia: Capitolo 42, 1-25

Incontriamo con questo capitolo, per la prima volta, un misterioso personaggio che compare in tutto quattro volte nell’opera del DeuteroIsaia. Si tratta del servo del Signore (‘ebed YHWH), sulla cui identità ci si è interrogati senza successo per molto tempo e ci s’interroga tuttora. Non ci soffermeremo adesso su questo problema che può avere soluzioni articolate e non univoche. Prima di iniziare la nostra meditazione del capitolo, ci fermiamo invece per un momento sul termine “servo”, parola che oggi ha poco corso e, anzi, può suonare come un insulto.

Nel V.O.A. poteva al contrario essere un termine onorifico: i plenipotenziari di un sovrano, i ministri, i personaggi di rango di una corte avevano titoli che ricordavano servizi quotidiani. Abbiamo già visto infatti in Is. 36,2 Rab Saqeh, ” il gran coppiere”: in questo caso un servizio quotidiano è diventato titolo. Perché chiaramente non si va sotto le mura di una città assediata per mescere vino.

Quando i servi di fiducia assurgevano a rango più alto, il loro titolo si formalizzava sino a diventare onorifico e era attribuito a persone con funzioni diverse da quelle originarie, in taluni casi poteva evolvere anche in nome proprio, cosa che è probabile per lo stesso Rab Saqeh.

Accade così che anche i grandi personaggi dell’A.T., coloro cui Dio dà la sua totale fiducia per incarichi importanti, siano insigniti del titolo di “servo”, cui si accompagna una serie di atteggiamenti reciproci di fiducia e affezione. Mosè è colui che lo riceve più spesso, proprio per la sua capacità di trattare il padrone con franchezza pur essendogli sottomesso.

L’anonimo servo che abbiamo di fronte nei vv.1-9, ha perciò un rapporto molto speciale con il suo Padrone. Tuttavia questo capitolo non parla solo di lui. Potremmo individuare i seguenti momenti:

  • vv.1-9 il servo del Signore,
  • vv.10-13 inno,
  • vv.14-17 rinnovata promessa divina,
  • vv.18-25 situazione del popolo,

profondamente concatenati tra loro, come sempre.

La particolare presentazione del servo (vv.1-4) esige una premessa storica. Nell’ambito del diritto babilonese esisteva un funzionario denominato araldo del gran Re, con il compito, dopo che il re aveva emesso una sentenza capitale, di percorrere la città per renderla pubblica nelle piazze nel caso che si fosse qualcuno che potesse ancora testimoniare a favore del condannato. L’araldo era munito di bastone da viaggio e lanterna: al termine del percorso, se non si era presentato nessuno per discolpare il condannato, si recava alla casa di lui e in sua presenza rompeva il bastone e spegneva la lampada, dichiarando così la sentenza inappellabile.

Possiamo comprendere bene le caratteristiche che il profeta attribuisce al servo in ordine alla missione che gli è affidata e che è evocata da una serie di sette verbi negativi (non guiderà, non chiamerà, non vocerà, non spezzerà, non spegnerà, non vacillerà, non si spezzerà), all’inizio, al centro e alla fine della quale troviamo però tre verbi positivi (fa uscire, promuoverà, stabilirà).

Il servo non ha caratteristiche direttamente messianiche e ha un compito esattamente all’opposto dell’araldo babilonese: questi infatti pronunciava una condanna, il servo deve proclamare un giudizio ( si noti l’insistenza sul termine “diritto”, mispat vv.1.3.4, da intendersi piuttosto come “legge”, “decreto”) di salvezza. Tale giudizio è universale, tocca le nazioni, la terra e le isole (v.1.4): il servo deve rivelare a costoro la volontà di Dio espressa nella sua legge, realizzando quest’impresa in forza dell’investitura che ha ricevuto (v.1) con lo spirito divino.

Il servo dunque, di cui si parla in terza persona, parrebbe essere una persona corporativa, Israele, come hanno inteso i LXX. Passando attraverso questo filtro si può accedere ad una visione messianica del misterioso personaggio, come intende invece il Targum.

Dal v.5, Dio parla al servo, presentato in precedenza con gran solennità e alla terza persona, in maniera diretta (si passa all’apostrofe con l’uso della seconda persona). Anche in questo conferimento di incarico il tono si mantiene alto.

Il Signore si presenta come creatore e datore di vita in una visione del mondo che procede dall’alto al basso: cieli, terra, vegetazione, persone, forse anche gli animali (“quanti camminano su di essa”, v.5). In questo discorso rivolto direttamente al servo, il compito che egli riceve è rivolto prima al popolo di Israele e, da esso, alle nazioni.

“Chiamato” e “formato” (v.6), dunque abbiamo davanti una dichiarazione sulla vocazione del servo, che tale è da prima della nascita, il servo è “preso per mano” e “stabilito”: la sua vocazione ha avuto un seguito costante; egli è stato accompagnato fino a crescere ed essere confermato (“stabilito” nella traduzione CEI) come il “firmamento” della tradizione “P” del racconto della creazione: la radice è infatti la stessa) in maniera definitiva.

Proprio perché è “alleanza per il popolo” (42,6; 49,8) e “luce delle nazioni” (42,6; 49,6), il riferimento del servo è la Torah come luogo dell’annuncio.

Per inciso, noterei un gioco di parole: nella Scrittura la formula classica è “popolo dell’alleanza”: qui i termini sono invertiti “alleanza per il popolo”. Esso permette al profeta di costruire un discorso progressivo: dalla chiamata del servo, a quella di Israele e quella delle nazioni immerse nelle tenebre dell’ignoranza come in una prigione, che saranno illuminate dalla Torah, fino ad attingere alla salvezza già partecipata ad Israele.

Il profeta parla di quest’irradiazione senza dirci se e fino a che punto sarà efficace: certo l’offerta di salvezza del Signore attraverso il servo è universale. Avremmo così conferma dell’identificazione del nostro misterioso protagonista con il popolo d’Israele: con la testimonianza della sua accoglienza della Torah infatti compie un’opera missionaria verso tutti.

Finalmente Dio autopresenta e si passa alla prima persona (vv.8-9) Torna la polemica contro gli idoli e l’annuncio della salvezza futura. L’accenno agli idoli chiarisce maggiormente il ruolo del servo: è portavoce di un giudizio salvifico per Israele e le nazioni nei confronti dell’idolatria, in piena coerenza con l’insegnamento del DeuteroIsaia.

L’inno dei vv.10-13 è la risposta a questa promessa di salvezza. E’ costruito alla maniera classica degli inni ed ha un forte piglio guerresco (v.13) che rafforza la tematica del giudizio salvifico attraverso quella della sconfitta degli idoli.

L’inno apre la strada però ad una nuova promessa. Nuova non solo perché rinnovata, ma soprattutto perché presentata in maniera unica. Dopo aver lasciato, infatti, il popolo in esilio e nella dispersione a purificarsi, tollerando anche l’arroganza dei pagani, il Signore esce dal suo silenzio, si presenta come una madre che partorisce (e questa è la prima ed unica volta che adatta a sé questa immagine), e dà il via ad un nuovo esodo.

Oltre a questa novità, in questi pochi versetti (vv.14-17) ricompaiono temi e motivi che collegano questa promessa al resto di Is.42 e al più vasto complesso del DeuteroIsaia: il passaggio dalle tenebre alla luce, l’appianarsi della strada, la sconfitta dell’idolatria. Con il suo silenzio sulla tragedia dell’esilio, Dio è diventato come gravido di storia e, come ogni donna, ha ben custodito il futuro che vuole generare. L’immagine femminile che il profeta ci pone davanti non sottolinea tanto la sollecitudine, quanto la pazienza materna del Signore.

Egli è una madre che sa aspettare il tempo giusto per il travaglio. Sarebbe potuto intervenire prima per il popolo/figlio, ma ciò che gli preme è che questi sia maturo per il grande evento che lo attende. I vv.18-25 ci mostrano infatti che il popolo non è ancora pronto.

Notiamo innanzi tutto che l’identificazione del servo di Israele che precedentemente avevo proposto è legittima (vv.18-19). Il testo si mostra profondamente unitario grazie ai suoi richiami interni, talché pare trovare conferma l’ipotesi che avevo fatto sopra di un servo come persona collettiva.

Tuttavia la cosa più interessante da cogliere è la gran modernità del pensiero del DeuteroIsaia, per il quale il popolo non impara nulla dalla propria esperienza di sofferenza e di abbandono (v.20). Ancora una volta non è l’esperienza che insegna né il tempo che guarisce: questi fattori diventano importanti e sono elementi costitutivi di sapienza soltanto se la rivelazione divina ne è il quadro di fondo e la chiave interpretativa.

In altre parole: unicamente se l’uomo si interroga sul senso metastorico degli accadimenti e si pone nell’atteggiamento del profeta, che cerca di guardare la storia con gli occhi di Dio. Da questa riflessione che il DeuteroIsaia ci presenta per immagini, si capiscono il silenzio di Dio nella sofferenza e come gli uomini finiscano con il cadere sempre negli stessi errori.

Pessimista dunque nella valutazione dell’intelligenza umana della storia, il profeta ci presenta invece un Dio ottimista. Benché consapevole della situazione, Egli infatti aspetta perché crede che noi si possa capire e cambiare. Nulla è più ottimistico della pazienza, fondamento della speranza.

Tanto più ottimistica se si guarda quanto chiara sia l’immagine che Dio ha del suo popolo. Questi tende sempre ad accusare il suo Signore di cecità e sordità quando si trova nella distretta. Ma il Signore ritorce l’accusa: chi resta chiuso come in una prigione nel dramma dell’esilio re non si apre all’annuncio del ritorno (pur con tutti i rischi e le sofferenze che comporterà) è il vero ed unico cieco e sordo della situazione. Il profeta invita certo a custodire la memoria in chiave pedagogica, invita ugualmente a non essere prigionieri del proprio passato.

Esso va rivisitato alla luce della Torah per cogliere il senso del dramma come correzione e richiamo (v.24) Dio ha un disegno di fronte al quale il popolo è sordo e cieco, tanto che questi due aggettivi diventano appellativi per antonomasia (v.18). Ma adesso è giunto il momento di rovesciare l’oracolo dato al ProtoIsaia al momento della sua vocazione:

Udite bene con le vostre orecchie senza capire. Guardate bene con i vostri occhi senza riconoscere. Ottundi il cuore di questo popolo, appesantiscigli l’udito, accecagli gli occhi, perché con i suoi occhi non veda e con le sue orecchie non oda, con il suo cuore non capisca, non si converta e non guarisca (6,9).

Israele deve finalmente aprire gli occhi e vedere, ascoltare e capire il senso dei fatti passati, presenti e che verranno.

Siamo dunque di fronte ad un capitolo ricco di tematiche. Dovrebbe colpirci l’abilità che l’autore biblico dimostra nel riprendere gli stessi temi sotto angolature sempre diverse. Le tematiche infatti sono pressoché costanti, ma il modo di affrontarle varia considerevolmente. Ugualmente dovrebbe colpirci la sua visione della storia.

In epoche in cui, secondo le nostre esperienze, le tragedie erano ancora a misura, pare a noi che non fosse poi troppo difficile pensare la speranza dopo la tragedia. La tragedia per noi, dopo i drammi del ventesimo e del ventunesimo appena iniziato, è ampiamente superata dalla misura di un male gratuito e invasivo.

Per quel tempo, tuttavia, e per una piccola etnia, era tutto il dolore possibile, e imparare a leggerlo non deve essere stato facile.

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