Libro di Isaia: Capitolo 34, 1-17 al 36, 1-10

I due capitoli oggetti della meditazione ci propongono uno dei conflitti fondamentali presenti nelle Scritture: quello tra paesaggi. Gran parte della letteratura biblica ha come sfondo, infatti, il deserto, il cui contrario, come una specie di sogno di continuo evocato, è un paese verdeggiante, prospero, ricco d’acqua. Tale contrasto è ancora oggi evidente per chi vada in Giudea, la parte centrale d’Israele, dove sorge Gerusalemme, in cui, nonostante gli enormi sforzi recenti per popolare d’alberi l’ambiente, chi ha visto ha ricavato in ogni caso l’immagine di un verde polveroso, sotto un cielo che pare una compatta lastra azzurra priva di nuvole e di chiaroscuri, ben lontano dal senso di fresco che si accompagna al nostro panorama. Il conflitto di paesaggi è il paradigma di altri conflitti quali peccato/fedeltà, correzione divina (come l’esilio) e restaurazione, sconfitte politiche/militari o drammi naturali (come la siccità) e prosperità, dura realtà quotidiana e realizzazione delle promesse messianiche nel tempo ultimo.

Nel nostro caso il contrasto tra paesaggi corrisponde ad un diretto confronto tra il nemico storico d’Israele dell’epoca dell’esilio, Edom, e Israele stesso. All’epoca della conquista babilonese del regno di Giuda, gli Edomiti collaborarono con l’invasore e dalla distruzione di Gerusalemme (587 a.C.) trassero indubbi vantaggi. Mentre Israele era ridotto a deserto, come correzione del proprio peccato, secondo l’interpretazione profetica, Babilonia e Edom erano il paese dei giardini e dell’acqua in cui andare in esilio. Al contrario, allorché Dio deciderà che sia giunto il momento di porre termine a questa dura correzione, saranno i nemici a diventare un luogo desolato, mentre Israele diverrà un paesaggio fiorente; non solo: persino lungo la strada del ritorno, che pure passa per il deserto, tutto si vedrà rifiorire. Edom, o meglio la sua rovina, è così il protagonista di Is.34. Il ritorno di Israele da babilonia di Is.35. Evidentemente allora, la data dei nostri due poemi, che possiamo leggere quasi in parallelo, va rimandata all’epoca del DeuteroIsaia (per un maggiore approfondimento, vedasi “Storia del popolo ebraico attraverso la Bibbia”).

Il cap. 34 inizia con una specie di invitatorio affatto gioioso e di estensione universale (v.1): non si deve celebrare nulla, semplicemente ascoltare, assistere e prendere atto. Segue la lugubre evocazione di una strage che coinvolge tutta la creazione: gli uomini (v.3°) e l’ambiente nelle sue dimensioni elevate, quelle che paiono intoccabili ed eterne (le montagne e i cieli v.3b-5°), facendo pensare così ad un evento definitivo. Da ultimo si chiarisce l’obiettivo autentico della strage: Edom (v.5), il cui nome però è assonnante con ‘adam (l’uomo in quanto “terrestre”) e ‘adama ( “la terra”): dunque una strage che va oltre il nemico storico e la storia stessa. Essa è infatti il segno di quanto avverrà In quel giorno (v.8) che abbiamo spesso sentito evocare nei precedenti capitoli e che indica il tempo del giudizio ultimo e definitivo.

Il paesaggio diventa infernale (vv.9-10), secondo io nostro immaginario, in quello antico invece ricorda piuttosto le parti terribili del deserto in cui si è a stretto contatto con le forze malvagie e insidiose e, in questo vaso, con il giudizio divino. Il richiamo paesistico e letterario è senz’altro a Sodomia e Gomorra, paesi di fuoco, zolfo, aridità e distruzione assolute. Notiamo, in particolare, nel processo di desertificazione, i diversi passaggi: si parla infatti prima del suolo (vv.9-10); poi si dà grande attenzione alla fauna (v.11); si accenna alla scomparsa della vita sociale (v.12), per andare alle piante selvatiche (v.13°) e tornare agli animali (vv.13b-15). Il tutto culmina nella divisione del paese: il Signore infatti tiene le corde come un agrimensore per prendere le misure e procedere alla spartizione del territorio tra le bestie dopo la scomparsa del proprietario (vv.16-17). E’ dunque un ritorno al caos.

Gli animali citati nel testo sono, per tradizione, non animali feroci, quanto animale impuro. Gli animali feroci che spesso compaiono nell’A.T. hanno spesso una loro intrinseca nobiltà, perché associati alla figura del re, o comunque alla vita di corte e alle sue scene di caccia. Ma cornacchia, riccio, civetta, corvo (v.11), iene, gatti e capre selvatiche, gufo, serpente e avvoltoi (vv.14-15), sono le bestie che si nutrono di quello che trovano, cadaveri compresi. All’israelita è proibito nutrirsi di tali bestie, che arrivano quando l’uomo con gli animali che egli cura e alleva, scompare dal territorio. Ma c’è un altro dettaglio che parla di una rovina irreversibile.

Al v.4 si parla del cielo che è arrotolato come un volume al termine della lettura, e al v.16 Dio compare con un libro in mano, una specie di anagrafe del disordine, in forte contrasto con il mondo ordinato che è dato per dissolto, proprio per procedere alla distruzione delle terre tra questi abitatori impuri. Al centro di questo contrasto di libri sta la scomparsa della memoria del nemico (v.11), del quale vanno distrutti non solo gli archivi e documenti, come spesso accadeva dopo la conquista di una città, ma persino il nome.

A questa scena terribile dominata dalla collera e dallo sterminio divini, al v.2 compare il termine ebraico herem, che indica una specie di “sterminio sacro” più volte menzionato nell’A.T. per preservare il popolo dall’idolatria, corrisponde con una sorta di parallelismo il grande rigoglio del paesaggio per il ritorno degli esiliati. L’ambiente è quello desertico che si trova oltre il Mar Morto a sud-est: è una specie di passaggio obbligato per tornare da Babilonia, ma, al tempo stesso è il paese degli Edomiti, desertificato completamente per loro, rifiorisce e si rallegra al passaggio dei figli d’Israele. Il contrasto presente nel testo non è sarcastico; piuttosto è aperto ad una gioia ed uno stupore incontenibili. Il fatto poi che il paesaggio sia personificato è un modello letterario che compare spesso nella letteratura del ritorno dall’esilio. Vediamo il parallelismo con Is.34 e qualche dettaglio.

Il ritorno è il sogno di un paese verde e pieno di fiori, come possono essere il Libano coi suoi grandi alberi o la Galilea, dove i prati traboccano di fiori alla fine della stagione delle piogge. Il profeta si compiace di questo capovolgimento di situazione, che dice tutta la potenza del Dio d’Israele. Basterebbe contare quante volte compaiano i termini della gioia, dell’allegrezza e del giubilo: in ebraico le ricorrenze sono dieci: molte, per così pochi versetti. Tuttavia lo stesso profeta ha anche ben chiaro che il deserto, per quanto fiorito, è sempre e solo un fatto temporaneo, un posto dove far passare una strada (v.8), in verità anch’essa molto speciale. La Via Sacra è quella che conduce al santuario pertanto è percorribile se non dopo essersi purificati (il che vale per stranieri e israeliti): la bonifica perciò è totale, tocca il paesaggio e gli uomini. Il testo del v.8 presenta qualche problema per la traduzione. Se dovessimo leggere alla lettera, sarebbe:

E vi sarà là una strada e una via
Via Sacra sarà chiamata
Non vi passerà l’impuro
Ed Egli vi camminerà
E gli inesperti non si smarriranno.

In particolare i problemi sono due. Il termine “strada” (maslul) compare solo qui; all’interno della Scrittura troviamo ancora la stessa radice, attestata anche in accadico, ma non in questa forma, talché la traduzione non è facilissima. O meglio: non è facile identificare quale tipo di strada si voglia intendere con questo termine raro. Certo fa contrasto il preziosismo di maslul con la doppia e immediata ricorrenza del più consueto termine derek: il profeta si rivela ancora un uomo di raffinata cultura, oltre che di ampie visioni storiche e teologiche. Il secondo problema è che il popolo pare preceduto dal Signore stesso. Egli fa da battistrada, da guida o da esploratore.

Le nostre traduzioni tagliano il mezzo versetto in cui se ne parla perché secondo un certo tipo di critica pare non abbia senso. Indipendentemente dalla questione di metodo, se sia giusto cioè tagliare quello che si capisce poco, questa presenza del Signore alla testa del popolo che torna è molto significativa. Oltre ad essere un’immagine cara al DeuteroIsaia (compare infatti anche in Is.40), essa mette ancora di più in risalto la purità della via, di coloro che la percorrono e, soprattutto, della meta: Gerusalemme e la terra d’Israele.

Il testo ha l’andamento di una marcia alla quale partecipa un popolo rinnovato, libero, perché guarito dalla propria idolatria e quindi dalla pusillanimità, dalle proprie deficienze morali e quindi dalle debolezze fisiche. I codardi riprendono coraggio all’apparizione del Signore, che viene di persona a salvare il suo popolo (v.4) Da questa trasformazione fondamentale dipende tutto il resto (vv.5-6). Il mondo appare allora un paradiso ritrovato per un’umanità trasfigurata, perché raggiunta e salvata dal Signore. Tale salvezza è sovrabbondante. Lo zoppo infatti non si limita a camminare, ma salta come un cervo, il muto non riacquista semplicemente la parola, ma recupera il canto gioioso. Ugualmente sono scomparsi gli animali impuri (v.7), assieme alla trasformazione del paesaggio. Sono scomparsi anche quelli feroci che potevano tendere un’insidia a questa specie di corteo trionfale che sta partecipando, di fatto, ad un pellegrinaggio verso la Città Santa e il Tempio.

Evidentemente due capitoli così ricchi ci offrono molte opportunità di riflessione e conversione. La nostra attenzione può fissarsi per esempio sull’immagine del pellegrinaggio che si snoda per il deserto puro e festoso. Stiamo infatti per entrare in un’epoca di pellegrinaggi, i quali si ridurrebbero a poco più che ad una sorta di turismo religioso, se non si tenesse conto di tutto il tessuto che un vero pellegrinaggio suppone. Anzitutto la volontà di conversione accettando la correzione/purificazione che il Signore opera nella vita di tutti ed è stata vissuta dagli Israeliti nel corso dell’esilio. Poi l’accoglimento della salvezza, cosa non facile per l’uomo contemporaneo abituato a conquistare, guadagnare, meritare, non ad accettare ringraziando una salvezza decisa e donata da un Altro.

Infine l’accettare, con la salvezza, il cambiamento/guarigione di sé con il ritrovamento della gioia. Non la banale soddisfazione cui ci ha abituato il conseguimento di un qualunque buon risultato, ma la gioia che nasce dal rinnovamento, spesso doloroso, della vita. E, soprattutto, la dimensione di popolo di tutto questo processo. Non è una salvezza da vivere e celebrare da soli, ma insieme; nella quale, anzi ci si riconosce come popolo. Su questo modello potremmo già da ora verificare il nostro modo di accostarci alle realtà che viviamo nei nostri luoghi esistenziali.

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