Libro di Isaia: Capitolo 49, 1-26

Riprendiamo la nostra meditazione al cap.49, dopo aver riflettuto sul cap.43. Tutti i capitoli intermedi affidati alla nostra personale lettura casalinga, non fanno altro che riprendere le tematiche tipiche del DeuteroIsaia, senza aggiungere molto di peculiare. Isaia 49, invece ci permette di riallacciare un filo facendoci incontrare, ai vv.1-13 un personaggio che avevamo visto in Is.42, 1-9, il cosiddetto “servo del Signore”. Questo secondo canto del Servo, anzi presenta alcuni elementi paralleli al primo, in particolare:

Is.42,6; Is.49,8 il tema dell’alleanza
Is.42,6; Is.49,6 con il simbolo della luce

Israele è luce delle nazioni e, mediante l’insegnamento della Torah, offre ai pagani la via d’accesso all’alleanza. Tale insegnamento è evidentemente dato da Israele suo malgrado, perché il popolo non è certo andato in esilio volontariamente, né volontariamente si è disperso. E’ stata anzi, come sappiamo, una dura correzione di passate idolatrie, che ha un po’ colto il popolo di sorpresa dopo che, per così dire, aveva cercato di convertirsi con una riforma religiosa. Come spiegare allora un dramma come la caduta della città Santa, il saccheggio del tempio e tutto il resto?

La spiegazione che il profeta ci offre è in chiave “apostolica”: solo deportazione e diaspora possono permettere ai pagani di conoscere la realtà del Dio d’Israele attraverso gli Israeliti che sono tra loro. A questo punto si ripropone ancora il problema dell’identità del misterioso servo, che si autopresenta ai vv.1-9. Abbiamo dei testi molto vicini ad essi nel libro di Geremia, le cosiddette confessioni autobiografiche del profeta, di cui la più nota è quella del cap.20.

Tuttavia gli interpreti, sia quelli tradizionali sia quelli storico critici più vicini a noi, hanno tentato anche altre ipotesi: che il servo sia Mosè, grazie alla sua mitezza nel soffrire a causa del popolo; oppure che sia una personalità collettiva, come lo stesso popolo d’Israele. Tenteremo anche noi di affrontare il problema della sua identificazione.

A favore del fatto che il servo possa trattarsi di Geremia giocano i vv.1 e 5, per l’insistenza circa la sua vocazione fin dal seno materno, immagini che compaiono, appunto anche nella vocazione di Geremia, e la disillusione del v.4.

Ancora: al v.6 si parla di “rialzare Giacobbe” e “ricondurre Israele”, e al v.7 del gran riscatto operato dal Signore nei confronti del popolo oppresso. Tutto ciò farebbe pensare che non sia possibile un’interpretazione della misteriosa figura del servo in chiave di personalità collettiva (servo=Israele). In realtà tale interpretazione è comunque la più coerente. Il vero soggetto della restaurazione e della riunificazione del popolo, infatti, è Dio, e la missione del servo non avviene necessariamente e solo entro Israele. L’espressione:

è troppo poco (v.6)

Dà, infatti, alla missione del “servo” un respiro universale. Dio gli assicura che Israele è per lui un campo d’azione troppo ristretto: non deve, infatti, limitarsi a ricondurgli Giacobbe (le tribù del sud) insieme a Israele (il nord), riunificati. Il suo compito missionario travalica bensì quest’orizzonte interno per aprirsi nei confronti delle genti.

Il personaggio di cui si parla non può dunque essere individuato come persona singola, bensì come persona collettiva. Resta comunque il problema: può, e come può?, il popolo d’Israele salvare, riunificate se stesso e da se stesso tornare? Di fatto l’interpretazione collettiva del servo non riguarda tutto il popolo, ma quello esiliato e reietto, che ha trovato la via della purificazione, e grazie al quale Dio va verso le genti. Quello che il ProtoIsaia ha chiamato re’ Sit Ysra’el “resto d’Israele”. L’interpretazione collettiva è soprattutto consentita verbalmente dal v.3:

Tu sei mio servo, Israele

Dove difficilmente si può pensare alla parola Israele come a una glossa, come molti interpreti al contrario sostengono, per favorire la lettura individuale e messianica della figura del servo. La presenza del nome proprio Israele è attestata in tutta la tradizione manoscritta (tranne che in un testimone) nei LXX e a Qumran. Dunque il servo è il resto d’Israele sofferente nell’esilio, attraverso il quale tutto il popolo torna al Signore e la Torah si diffonde ai lontani. Le altre ipotesi di identificazione (Ciro, un anonimo profeta ecc.) non hanno gran ragione d’essere.

E’ Israele che salva Israele, o, meglio: un personaggio che porta questo nome, al modo della comunità per la quale deve agire. Del resto nella tradizione dei patriarchi il termine Israele indica un personaggio, mentre in quella dell’Esodo indica il popolo nel suo insieme. E’ molto probabile che qui si giochi su questa doppia valenza del termine. E’ probabile anche che ci siamo abituati già da qualche tempo a sentire un’interpretazione messianica della figura del servo. Concretamente però il Testo non offre alcun elemento che la consenta ed è doveroso rispettare quello che il testo dice. Certo il destino d’Israele è nel suo complesso messianico, ma qui bisogna riconoscere piuttosto un segreto messianico: analogo a quello del Messia sofferente.

Possiamo individuare, a questo punto, come si articola il carme? La sequenza proposta da Alonso Schoekel (studioso) è la seguente:

  • vv.1-4 parla il resto d’Israele come un’unica persona, appellandosi a Dio;
  • vv.5-6 Dio gli risponde (indirettamente) chiamandolo a radunare l’intero popolo;
  • v.7 Dio parla all’Israele-popolo ancora in stato di oppressione;
    vv.8-13 Dio allarga l’orizzonte.

A questo punto subentra un altro personaggio molto importante per la simbolica del DeuteroIsaia. Si tratta di Gerusalemme, moglie che si sente tradita e madre che deve riscoprire, invece, come non sia mai stata abbandonata e abbia, anzi, acquisito una nuova fecondità. Il v.14 segna uno stacco forte, e meglio sarebbe tradurlo valorizzandone l’aspetto avversativo:

Ma Sion dice: l’Eterno mi ha abbandonata
Il Signore mi ha dimenticata

Il lamento di Sion ci mostra una sposa abbandonata dal marito, che è anche una madre che non ha potuto proteggere i suoi figli. Talché rimprovera il marito assente e di fronte alle parole consolatorie di lui si trova a dover fare i conti ancora con i dubbi, tenuti vivi dal dolore vissuto. Sion deve confrontarsi con una difficile vicenda storica, evocata dalla situazione coniugale anomala: un marito latitante, figli davanti ai quali non può ostentare sicurezza, avversari terribili. Il dolore come matrice del dubbio è un elemento costante della condizione umana ed è normale che metta in questione la fede.

Pressoché invano, all’interno del lamento, sono mandati a Sion segnali positivi. Si ricorre all’immagine della madre (v.15), che per Sion è ancora più causa di dubbi dolorosi. Si parla di ricostruzione in termini di nuova creazione e di sponsalità: al v.16 infatti, laddove le mura della città sono faccia-a-faccia con il Signore, si usa un’espressione che riporta allo stesso faccia-a-faccia della prima coppia in Genesi 2,18 (si veda la formula “un aiuto che sia faccia-a-faccia a lui”).

Il testo non è sempre di facile traduzione, ma vale la pena cogliere anche qualche altro dettaglio. Al v.17, per esempio, l’ebraico non parla di ricostruttori (bonìm) bensì di figli (banìm): l’assonanza dei due termini suggerisce di lasciare il Testo come è (banìm “figli”), pensando che sotto ci sia un chiaro gioco di parole.

Ebbene, sono proprio costoro, i figli, ad affrettarsi, dato che, in fondo, non serve a granché ricostruire una città se essa resta priva di abitanti. Ugualmente al v.19 troviamo un brusco passaggio del verbo che non è bene normalizzare. Suona infatti il testo alla lettera:

Perché i tuoi luoghi deserti e le tue rovine
E il tuo paese devastato
Tu sarai subito troppo angusta per i suoi abitanti.

Il salto dall’immagine dei luoghi al pronome personale funziona con l’immediatezza di un primo piano improvviso, dopo che lo sguardo sia partito da lontano. Infine sempre al v.19, i “distruttori” sono in realtà, alla lettera, “divoratori”, che anticipano il rovesciamento finale della prospettiva al v.26.

Sion riceve inoltre dei doni (monili e cintura, v.18) che sono un ritorno al fidanzamento. E nonostante l’obiezione che la città solleva al v.21, deve assistere ad un atto di vassallaggio (v.23) di fronte al quale ammutolisce stupita. Quasi a riprendere fiato, segue un ultimo dubbio (v.24) cui il Signore dà una risposta violenta, comprensibile nell’ambito di chi abbia subito sconfitta, distruzione e loro conseguenze dopo una violenta guerra d’aggressione.

Il nostro capitolo ci presenta quindi parecchi elementi di riflessione. Possiamo sceglierne due, in particolare. Il primo è la funzione missionaria di esilio e diaspora. Forse non è sempre detto che per evangelizzare si debba partire volontari grazie ad una mozione interiore.

Gli eventi della storia possono avere conseguenze non immediatamente prevedibili e così pure risvolti anche pastorali non meno seri e importanti. Essenziale invece è che comunque la parola divina si diffonda e sia glorificata. Come direbbe l’apostolo, senza che si resti legati a luoghi o stili o situazioni particolari.

Il secondo è che Dio ha rispetto dei dubbi umani che nascono nella sofferenza. Si noti il tono delle sue risposte alle obiezioni di Sion: manca qualunque rimprovero, così come sono assenti affermazioni apodittiche, perentorie e di ostentata sicurezza. Abbondano invece i gesti e le immagini che fanno riferimento più alla rassicurazione in positivo della città che non alla confutazione dei suoi dubbi.

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