Libro di Isaia: Capitolo 6,1-13 al 7, 1-17

Se abbiamo letto attentamente i versetti dei capitoli, oggetto della nostra meditazione, dovremmo avere riconosciuto quelli che ci sono familiari. Infatti, il Santo che proclamiamo o cantiamo ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia viene proprio dal racconto della vocazione di Isaia (6,1-13).

Entrato nell’uso liturgico della sinagoga nel contesto di una benedizione, è poi passato anche nella nostra liturgia.

Adesso lo vedremo nel suo contesto originario e verificheremo anche quali ne siano le immediate conseguenze nella vita del profeta.

Sarebbe forse stato legittimo aspettarsi questo racconto in apertura del libro a giustificazione non solo della missione del profeta, ma anche dei contenuti del suo messaggio. Lo troviamo invece a fare da cerniera tra gli oracoli del primo periodo (Is.1-5) in cui è presentato il giudizio cui Dio sottopone il popolo attraverso l’Assiria e quelli del periodo successivo (Is.7-8) in cui si parla della salvezza del resto d’ Israele.

Di fatto, non presenta tanto un’esperienza mistica, anche se così potrebbe sembrare dal linguaggio, quanto piuttosto una visione della storia e una lunga teologia politica “teopolitica”.

Distinguiamo nel racconto tre momenti principali che vedremo uno per uno:

  • vv.1-5 teofania
  • vv.6-7 purificazione/consacrazione
  • vv.8-13 missione

Dio compare come un re intronizzato di dimensioni straordinarie. Il profeta vi insiste con l’altezza del trono e la descrizione di un manto di grande ampiezza.

Gli abiti regali dell’epoca, in realtà, non avevano strascico. Questo elemento serve perciò ad accentuare la maestà divina e d’altra parte è proprio solo quello che vede il profeta: non già il volto di Dio, ma dai piedi in giù.

I seraphim che stanno in piedi sopra di lui di per sé sarebbero serpenti alati e dal morso bruciante che proteggono il re nell’iconografia egiziana (“urei”); uno di loro maneggia le molle dell’altare (v.6): questo dettaglio fa pensare ad esseri misti.

La scena si svolge nel tempio (v.1): il fumo che lo riempie (v.-4) è quello dell’offerta dell’incenso: siamo quindi nel corso della liturgia e Isaia è stato sorteggiato per questo gesto particolare, come accadrà a Zaccaria, padre di Giovanni Battista (Lc.1,8ss). Il fumo cela il volto divino, e nello stesso tempo è nella celebrazione che l’uomo può “vedere” quel poco che del tre volte Santo si rende accessibile.

Egli è quindi, al tempo stesso, vicino e lontano. Si rende presente, segnando una distanza indicata anche dal canto dei seraphim. “Santo” (qadòsh) infatti significa alla lettera “separato”, dal male certamente, ma in ogni caso trascendente, altro dalla realtà umana e oltre essa. Si rivela al suo popolo e al profeta, ma si nasconde nel momento stesso in cui si rivela.

Nello stesso tempo in canto ci segnala che:

la gloria di lui riempie tutta la terra

La gloria è il peso sociale e l’influenza che una persona ha e può esercitare.

Dunque egli non è estraneo alla storia degli uomini sulla quale ha una reale signoria che raggiunge ogni angolo della terra.

E’ questa serie di affermazioni in tensione tra loro ad introdurci alla geopolitica cui ha accennato sopra.

Il Dio d’Israele è un Dio con un suo corteggio, è pieno di maestà ed estende la sua giurisdizione ben oltre il suo popolo, perché raggiunge tutta la terra e le schiere celesti (seba’ot) ovvero gli astri. Dunque una realtà storica e cosmica.

Siamo nell’anno 740 il re assiro Tiglat-Pilezer III° sta per cominciare una politica espansionistica che lo renda padrone di tutto il V.O.A. Dio però si vede e si nasconde: bisognerà leggere attentamente le vicende storiche e politiche per capire dove sia e quali siano i suoi progetti (vedi “Storia del popolo ebraico attraverso la Bibbia”).

Isaia, colto alla sprovvista dalla teofania, capisce di non potersi unire al canto dei seraphim e denuncia la propria impurità, in contrasto con la santità divina. D’altra parte l’impurità non è solo sua: semmai condivide quella del popolo in mezzo al quale vive ed è solidale con la sua condizione di peccato. Comprende anche che il momento è decisivo per la sua vita catapultata di colpo al confine della morte.

Assistiamo allora ad un rito di purificazione in cui entrano in gioco due elementi: il carbone preso dall’altare e la parola che Dio gli rivolge attraverso il saraph. E’ in virtù di questa che la colpa scompare e il peccato è coperto (v.6).

La scena ha il fuoco come elemento dominante (dall’ureo che si accosta per questo rito, al carbone ardente, alla parola divina che spesso nei testi profetici è assimilata al fuoco).

Vista la condizione del popolo e del mondo, Dio ha consultato la sua corte celeste e ora si pronuncia parlando con essa senza rivolgersi direttamente al profeta. Interpella bensì la corte sull’identità del plenipotenziario che lo rappresenti nell’attuale situazione.

Isaia si trova nelle condizioni di chi ha assistito a tutta quella scena e si fa avanti. Interviene spontaneamente nel consiglio celeste, perché istruito dall’apparizione divina e dall’infuocata purificazione.

La cosa è abbastanza sconcertante, ma non è un’autocandidatura: le chiamate sono sempre indirette e devono essere colte all’interno delle esperienze che si fanno nella propria vita. Certo: esistono esperienze quotidiane ed usuali, come esperienze forti rare e speciali. Ma il fatto che tutto questo avvenga nell’ambito liturgico mostra che il confine tra esperienze feriali e peculiari non è facile da stabilire: il culto è una dimensione della vita cui si partecipa normalmente, meno lo è coglierne le valenze e le dimensioni mistiche e rivelatrici.

L’incarico che Isaia riceve è singolare e quasi contraddittorio, duro e scandaloso per noi: deve infatti annunciare al popolo per quanto ascolti non capirà e per quanto veda non saprà.

Dio anzi prende le distanze dal popolo che non è individuato da alcun aggettivo possessivo, ma da un freddo “questo popolo” (v.9).

Si tratta di un giudizio e di una correzione che sono in realtà aperti sul futuro, come avevamo visto nel caso del cantico della vigna (Is.5,5ss). Lo vediamo dalle ultime parole del v.13:

seme santo sarà questo ceppo

Benché infatti il popolo debba aspettarsi di essere ridotto pressoché a nulla ( da ceppo a seme), alla fine della dura correzione sarà, però e finalmente, partecipe della stessa qedushà divina.

Isaia da vero plenipotenziario non chiede “perché” al sovrano che così ha stabilito. Chiede solo “fino a quando” (v.11) durerà la grande prova: ed è qui che si vede come questa in fondo sia aperta su di un punto di speranza. La prova infatti avrà fine e non sarà definitiva per il destino del popolo.

Gli assiri che stavano per impadronirsi di tutto il V.O.A. seguivano una prassi innovativa nella loro politica. Una volta conquistato il paese, ne deportavano la classe dirigente e gli abitanti fino a lasciarne un decimo sul proprio suolo nel quale spostavano altre popolazioni in modo da, diciamo così, mescolare le carte. Questo impediva la creazione di movimenti di resistenza e rivolte nazionalistiche.

Il “resto” era quel decimo che restava e pertanto è una nozione politica, alla sua origine: una parte di popolazione minima e dalla quale, per di più non ci si può aspettare nulla.

Isaia fa diventare questa nozione teologica: sarà un “resto santo”, purificato, convertito, che è quello che davvero conta per garantire una rinascita.

Non meno importanti e familiari sono i versetti del cap. 7. Inizia con esso il cosiddetto Libro dell’Emmanuele (Is.7-12).

Siamo in piena guerra: gli assiri sono alle porte della Palestina e il regno del nord si è legato d’alleanza agli aramei, cioè alla Siria, per resistere alla nuova potenza. I capi della lega vorrebbero coinvolgere anche il re di Giuda e per convincerlo meglio stanno movendo in armi contro Gerusalemme.

Tutta la collezione degli oracoli che riguardano questo periodo è costruita su una serie di segni: dai nomi dei figli di Isaia al giovane principe di cui si annuncia la nascita, oracolo che noi leggiamo in chiave messianico-cristologica grazie a Matteo 1,23.

Vediamo qualche dettaglio.

Nei vv.1-9 troviamo le notizie che inquadrano la situazione politica e poi un primo avvertimento al re che Isaia dà indirettamente con il nome di suo figlio. Se’ arya sub significa infatti “un resto si convertirà/tornerà”; il nome perciò annuncia contemporaneamente esilio e ritorno, correzione del popolo e sua reintegrazione nella santità. Ma al momento quello che preme è l’attacco dei due re, di fronte al quale Isaia richiama alla vigilanza, alla calma e alla fede. Come affermare che non è il caso di affannarsi a cercare alleanze politiche e militari in altre nazioni, né di lasciarsi intimorire da questo assalto che vorrebbe defenestrare il re legittimo per passare il potere ad una dinastia che farebbe poi la loro politica (v.7).

L’oracolo è incisivo e sembra concludersi con una sentenza facile da memorizzare (v.9b):

se non credete, non sussisterete

Essa gioca sulla ripetizione della,radice ‘amàn, da cui viene anche “amen”, che significa appunto “credere”, “affermare”, “star saldi”.

Segue poi un latro oracolo (vv.10-17) in cui si garantisce la continuità della dinastia davidica al potere con la nascita di un principe ereditario, in contrasto con il re fantoccio che gli avversari vogliono imporre.

Il termine ‘almà, che traduciamo “vergine”, in realtà significa “donna giovane”. “Vergine” è un termine che risale ai LXX ed è entrato nell’uso, perché la stessa tradizione giudaica ha visto nel continuatore della dinastia stabilita da Dio il segno del messia. La nascita del principe ereditario conferma le promesse divine al casato davidico. Si spiega così perché il nome dell’erede sia “Dio-con-noi”: egli infatti indica non solo la continuità del casato, ma soprattutto la fedeltà di Dio alle promesse che egli ha fatto.

Un richiamo a queste promesse, del resto, c’è persino nella sua dieta: latte e miele, come era la terra che il Signore aveva giurato di dare ai padri.

Isaia ha infatti invitato il re a guardare la creazione, opera di Dio, e a cercare in essa il segno della presenza di Lui presso il suo popolo. Al diniego del re imputabile ad una falsa pietà, il profeta oppone allora un segno storico e concreto. Quello che né il re né noi sappiamo vedere nelle straordinarie meraviglie della creazione è sotto i nostri occhi nel,a realtà quotidiana della vita che continua.

Abbiamo quindi davanti un testo molto denso.

Alla densità di Isaia, anzi, ci dovremo abituare. Al di là infatti della trama di avvenimenti che sottostanno al testo che abbiamo letto e meditato è indubbio che esso ci trasmette un messaggio di speranza. Tutto sta nel sapere guardare la storia e nell’ascoltare quel che Dio dice entro e su di essa.

Coniugando queste realtà il popolo di Dio comprende il suo presente e costruisce il suo futuro.

Libro di Isaia – Indice: