Libro di Isaia: Capitolo 43, 1-28

Isaia 43 ha il suo centro di interesse nella tematica continuamente ripresa dell’esodo. Questa ripresa ha due sviluppi importanti.

Il primo è di mostrare la Scrittura che rilegge se stessa reinterpretandosi. Le mutate esigenze storiche esigono, infatti, che si colleghi l’antica salvezza alle nuove situazioni, evidenziando come il Signore sia sempre lo stesso nel volgere del tempo e tuttavia intervenga per il suo popolo in modo nuovo e adeguato. Il che, evidentemente, chiama in causa la capacità del popolo di leggere tali novità, accoglierla e viverla. Ha così origine quel metodo, quel corpo di materiali, anzi quella mentalità, che in ebraico è denominata midras che noi riconosciamo, in senso lato, nelle scienze esegetiche ed ermeneutiche.

Il secondo è che questo capitolo, proprio per quanto si è appena detto, è di importanza capitale per la liturgia ebraica, soprattutto per la celebrazione della cena pasquale. La cosa è facilmente comprensibile: la celebrazione, infatti, ricorda le gesta divine e riporta il credente al momento salvifico originario, dal tempo e dalla condizione in cui attualmente si trova. Non sarà difficile vedere che gli elementi dell’Esodo pervadono tutto il capitolo. Al centro sta la narrazione del passaggio del Mare. Ma entro formule già sentite e immagini già evocate, emerge con forza la questione dell’ Io divino, unico protagonista della salvezza antica e sempre rinnovata. Questo Io pervade il testo con insistenza come richiamo al monoteismo, alla salvezza stessa e alla grazia della salvezza.

IL capitolo si apre con un oracolo (vv.1-7) in cui viene di nuovo assicurata al popolo l’antica elezione in forza di un capostipite, Giacobbe/Israele, che aveva ricevuto le promesse. Tal elezione non sarà indolore: ci saranno ancora pericoli da affrontare (nelle acque e nel fuoco del v.2 troviamo già una prima allusione all’esodo, con la condizione servile in Egitto e il passaggio del Mare). Tuttavia il Dio creatore (v.1) è pronto ad una nuova transazione commerciale per liberare Israele. Il riscatto, infatti, è una vera e propria transazione che comporta il coinvolgimento di tre persone: il debitore o lo schiavo (che tale può essere per debiti, o per guerra o anche per altro motivo), il creditore e colui che si offre di pagare (v.3) per rifondere la somma dovuta, ripristinando il debitore nella condizione libera originaria. Il riscatto cioè non passa sotto il padrone che lo riscatta, ma è libero a pieno diritto.

Nel nostro caso Israele sarà libero di tornare nel proprio paese, ricostruire il Tempio e diventare volontariamente servo del suo Signore. Si noti l’insistenza, al v.3 sui quattro termini autorivelativi del Signore:

Il Signore (YHWH), tuo Dio
Il Santo d’Israele, tuo salvatore.

Due nomi propri e due apposizioni, che si spiegano reciprocamente in termini di salvezza e provvidenza e ci rimandano, confermandola, alla rivelazione di Es.3,14 ( vedere anche la formula “con te sono io” al v.5). In corrispondenza Israele, a conferma della propria elezione e chiamata, riceve un nome: “Miei figli” e “Mie figlie”. Quest’oracolo c’introduce così in un clima di grande speranza che sarà amplificata nel corso del capitolo, nell’ambito della teologia della storia del Deuteroisaia.

I vv. 8-13 vanno intesi nella cornice di una controversia giudiziaria con le divinità pagane, sfidate sul piano della storia passata (v.9), se mai possano affermare che qualcun altro, diverso dal Dio d’Israele, abbia potuto far previsioni su quanto sarebbe accaduto. Dalla storia la controversia passa poi al piano dell’esistenza divina (v.10). Benché Israele, infatti, abbia potuto vedere e ascoltare non è stato testimone attendibile, ma si è comportato come fosse cieco e sordo (v.8). Eppure la storia attesta esistenza e unicità di Dio, nonché la sua identità di unico salvatore (v.12). Israele riceve allora una nuova chiamata, in corrispondenza con il riscatto che lo pone nella condizione primitiva, a testimoniare il suo Signore dal passato salvifico inverato dall’attuale liberazione (v.10).

Quest’insistenza, che troveremo ripresa nei vv.14-21, e con la quale l’Eterno si pone in primo piano come protagonista assoluto, ha rafforzato l’elemento portante della liturgia ebraica: la convinzione cioè che Dio ha agito da solo salvando Israele in prima persona, senza ricorrere a mediatori. Frutto evidente della paura dell’idolatria sia all’origine sia nelle conseguenze, tale ripetuta affermazione dell’unicità di Dio va letta, indirettamente, come confessione di fede. Giungiamo così al cuore del capitolo (vv.14-21). Possiamo individuare due primi oracoli introdotti dalla formula “così dice il Signore” (kh ‘mr YHWH) rispettivamente ai vv.14-15 e 16-17.

Entrambi hanno il carattere dell’anamnesi: il primo evoca il presente, con la sconfitta di Babilonia, il secondo invece ci riporta al passato remoto dell’uscita dall’Egitto. Entrambi vogliono preparare il futuro delineato nei vv.18-21.

Notiamo in particolare il v.15, che conclude il primo oracolo con una serie di quattro titoli, sul modello del v.3:

Il Signore (YHWH), il vostro Santo
Creatore d’Israele, il vostro Re

Come sopra troviamo il Nome Divino chiosato da tre titoli che lo chiariscono nella sua dimensione storica: è il creatore d’Israele, colui quindi che ha formato il popolo, e il re, colui che ne prende il governo e la guida. Ogni re ha un suo programma di governo. Qui lo troviamo ai vv.18-21 che, come ho anticipato, ci pongono di fronte soprattutto alla teologia della storia del DeuteroIsaia. Si tratta di un programma un po’ animalo. Sapendo infatti che Israele vive della memoria delle opere di Dio, attraverso le quali scopre la sua identità provvidente, è singolare che il Re cominci il suo discorso con l’imperativo di non ricordare.

Realisticamente però la memoria può essere un’arma a doppio taglio. Può infatti servire da nostalgico rifugio, favorendo l’immobilismo e conducendo alla sterilità. O, al contrario, essere il luogo della progettazione del futuro. Il profeta pone una sorta di dualismo tra passato e futuro. Il presente resta un nondetto, perché è nel presente che le altre dimensioni del tempo si incontrano o si scontrano secondo come è vissuto e dei problemi che esso presenta.

Le cose prime e antiche sono il seme della cosa nuova, non già luogo in cui sottrarsi a lei. Nonostante la continuità tra passato e futuro, il passato esige dunque di essere superato per una speranza pura, affinché non accada che ciò che è noto altro non sia che una facile via di fuga di fronte alle rischiose sfide, per usare un termine alla moda, della speranza.

Nella vita tutto deve contribuire a mantenere aperto l’orizzonte: occorre quindi il giusto discernimento anche nella memoria affinché essa non finisca miseramente nel ripiegamento. In questo senso la speranza deve far impallidire la memoria da cui pure nasce. Talché la storia non è un cibo che sempre si ripete senza esigere superamenti, secondo l’immagine che se ne aveva nel V.O.A., ma sgorga dalla continua tensione tra memoria e attesa di un futuro che è, ad un tempo, certo nel suo farsi, incerto quanto al modo di farsi. Il Re promette una novità assoluta, infatti, ma non ex nihilo.

Un germoglio spunta da un tronco reciso (v.19b), secondo un’immagine che avevamo già visto (Is.11,1). Dunque è una novità ex vetere, per quanto improbabile possa sembrare la sua origine, perché un tronco reciso pare promettere poco. Ma la novità sta proprio nel fatto che possieda insospettate energie e possa fruttificare al di là delle aspettative. Così un passato glorioso, ma senza possibilità di ripetersi, può condurre a non vedere la novità che ha sì un inizio modesto, ma anche energia di sviluppo impreviste e imprevedibili. In questo senso il solo rammentare il glorioso passato sarebbe un accecamento né più né meno di quello che ha impedito a suo tempo al popolo di testimoniare.

Il nuovo che Dio sta preparando è il ritorno, il cui modello è quello antico dell’esodo, ma l’attuale realizzazione è infinitamente più grande. Comporta, come abbiamo visto ai capp.35 e 41, una trasfigurazione del paesaggio, animali compresi, che saranno capaci di lode. Ma comporta, soprattutto, quattro titoli (vv.20-21) per il popolo, due espressi con un sostantivo e due con una forma verbale:

Il mio popolo, il mio eletto
Il popolo che io plasmai per me, ( essi che)
narreranno la mia lode

Dove a colpirci è certamente l’insistenza sui pronomi di prima persona mio, io, per me, mia. Questa sezione di Testo si chiude, in certo modo, come era cominciata: in apertura (v.14) c’erano infatti tre denominazioni divine:

Il Signore (YHWH),
Vostro vendicatore, Santo d’Israele

Quattro le avevamo trovate al v.15, quattro se ne trovano in chiusura, con un rovesciamento di prospettiva mediante l’uso dei pronomi da “voi/vostro” a “io/mio” che comunque ribadiscono la reciproca appartenenza che il Signore solo istituisce e di cui si rende garante. L’insistenza sul pronome di prima persona prepara il passaggio all’ultima sezione del capitolo (vv.22-28): una requisitoria che mette in luce i peccati del popolo, individuato da un “tu”.

Normalmente queste requisitorie sono contro il culto, visto come un alibi rispetto ad un autentico servizio del Signore vissuto nella giustizia. Al contrario qui è denunciata la mancanza del culto, con la quale Israele si è come autodenunciato. Ha voluto assumere il posto di Dio, anziché riconoscere la propria condizione di vassallo e servo.

La denuncia divina esige un’autentica conversione non sul culto formale, ma sul culto come segno della propria dipendenza dal Signore e della propria appartenenza a Lui. Resta il problema del v.25. a cui diversi interpreti attribuiscono un senso ironico. In tal caso il popolo aggiungerebbe peccato a peccato, volendo autogiustificarsi. Possiamo senz’altro vedere questi versetti come un invito a confermare la nuova salvezza con una conversione che riconosca l’Eterno come unico Signore della storia e del suo popolo.

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