Libro di Isaia: Capitolo 52,13-15 – 53,1-12

Come è facile immaginare, molti hanno commentato questo Testo che sta al culmine del messaggio del DeuteroIsaia o, come qualcuno sostiene, dell’intero messaggio profetico dell’A.T. Su di esso sono state dette e scritte cose di grande precisione e bellezza, tanto che pare superfluo e impossibile anche soltanto tentare una sintesi.

Mi limiterò quindi ad alcuni elementi, senza preoccuparmi di arrivare a tutto. Di partenza, teniamo presente che:

  • Ciò che ha sempre intrigato gli interpreti è l’identificazione del misterioso personaggio di cui si parla;
  • Il mondo ebraico legge in chiave messianica questi versetti, e lo faceva già al tempo di Gesù (non è vero, infatti, che gli Ebrei dell’epoca aspettassero solo un messia politico e vincente), talché il poema innerva di sé il N.T., a partire dai racconti della pasqua del Signore;
  • Una lettura corretta del poema esige che lo si inserisca nel più ampio ambiente del capp. 51-52, con l’antefatto del dialogo tra l’Eterno e Gerusalemme e con il reciproco invito a risvegliarsi dal sonno; al tempo stesso bisogna tener presente il cap-54 che segue, in cui Gerusalemme, ricostruita e feconda, continua ad essere protagonista nella sua relazione con il Signore;
  • Infine, si tratta di un testo difficile, con non pochi problemi di traduzione.

Per quanto riguarda la struttura di superficie del testo possiamo identificare tre grandi momenti:

  • 52, 13-15 primo oracolo di YHWH sulla liberazione del Servo in termini di innalzamento di fronte alle genti;
  • 53, 1-10 lamentazione collettiva sul destino del Servo prima della sua esaltazione;
  • 53, 11-12 secondo oracolo di YHWH sulla liberazione del Servo intermini di innalzamento di fronte alle genti.

Il canto inizia (52,13) con una solenne presentazione del Servo sostenuta da una serie di quattro verbi:

Ecco, prospererà il mio Servo
Sarà innalzato, sarà elevato, sarà esaltato molto

In forte contrasto con il passato del Servo stesso, evocato da 52,14-15, in cui le sue sofferenze sono presentate in maniera indiretta, attraverso l’effetto che esse producono su chi lo ha visto. Chi lo ha visto erano i rabìm “moltitudini”, termine che ricorre cinque volte negli oracoli d’apertura e di chiusura (52,14.15; 53, 11,12, versetto in cui compare due volte) spesso in parallelo con i potenti e i re della terra, ad indicare la folla delle nazioni che vede il grande prodigio della liberazione del Servo.

Il termine rabìm è un’onda lunga che arriva fino alla Passione secondo Matteo (26, 20-75; 27, 1-66; 28, 1-20) e al canone Romano, dove “per voi e per molti (pro vobis et pro multis”)” è da intendersi “per voi e per le folle delle nazioni”, quindi “per tutti”, in senso universale.

Sarebbe opportuno conservare il dettato del Testo Masoretico nella traduzione del v.15:

così aspergerà (yazéh) nazioni numerose (rabìm)

perché la presenza del verbo “aspergere” ricollega similmente il nostro personaggio a Mosè (Es.24,8), per antonomasia “servo” del Signore, uomo di contrasti e con un compito sacerdotale.

Ora la visione del Servo ingenera in tutti un attonito silenzio. Chi “vede” e “contempla” (v.15b) e “contemplare” non è un semplice “vedere”, bensì un “guardare” deliberato, che gli Evangelisti chiameranno “spettacolo”, proprio per marcarne l’evidenza, nel racconto del Golgota, è come indotto a riflettere di fronte ad uno scandalo che, paradossalmente, convince ma pesa sugli spettatori.

Tale sbigottito silenzio percorre in sottofondo tutto il resto del poema. All’inizio della lamentazione collettiva (53,1) compare una domanda retorica che annuncia solennemente l’intervento divino. Torna, infatti, il tema del “braccio del Signore”.

Il popolo ha provato nel passato l’oppressione in Egitto, senza che essa avesse alcuna motivazione logica; poi c’è stata, più di recente, una prima fase dell’esilio in Assiria, a causa dell’ira del Signore che voleva correggere il suo popolo dall’idolatria; infine c’è stato l’esilio di Babilonia, anch’esso immotivato, perché sopraggiunto dopo una riforma religiosa.

La correzione è stata dunque, nel suo complesso, fuori misura e tale da giustificare la domanda che introduce, da una parte, il lungo lamento sul Servo, dall’altra l’annuncio della liberazione del popolo.

Dobbiamo però vedere chi sia a pronunciare il lamento. A questo scopo sarebbe necessario rettificare la traduzione del v.1, da leggere in continuità con quanto precede (52,15b-53,1):

…i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato,
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe mai creduto a quanto ci è stato annunciato
A chi si sarebbe rivelato il braccio del Signore?

Traducendo correttamente, appare che sono le nazioni a dichiarare il loro stupore per l’innalzamento del Servo, per passare poi a rievocarne il dolore. Questo orienta l’identificazione del nostro personaggio in senso collettivo: la meraviglia delle folle di popoli nasce, infatti, dall’innalzamento d’Israele, dopo la rovina subita.

Del nostro personaggio, infatti, si dà una biografia più che scarna: nascita e crescita (v.2), sofferenza (v.3.7), condanna ed esecuzione della stessa (v.8), mancata sepoltura (v.9), glorificazione (vv.10-11).

Da sé non si offrono motivi per un’identificazione, se non collettiva e di contesto. Poiché però non si dà giustificazione storica dell’abbassamento estremo (vedi quanto si è detto sopra circa l’esilio babilonese), che pare il tratto marcato della storia del Servo, è pur necessario motivarlo.

Il v.4 ci dice che il Servo si è “caricato” del peccato dei rabìm con un verbo (nasà’) che significa ugualmente “prendere su di sé” e “togliere via”, in altre parole “espiare” nei due versanti che questo termine comporta e che abbiamo appena detto.

Ed ecco una seconda onda lunga del canto che arriva sino a Gv.1,29 (“Il giorno dopo, Giovanni vede Gesù venire verso da lui, e dice: “Ecco l’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo”) e, ancora una volta, alla liturgia romana (Agnus Dei qui tollis peccata mundi), mediata dal termine aramaico taliya che significa sia “servo” che “agnello”.

L’aspetto però più importante è che il Servo abbia accettato scientemente questo abbassamento, con un’obbedienza libera e volontaria (v.7). La motivazione è dunque un sacrificio umano vicario, unico nell’A.T.

Tuttavia a ben guardare, nell’A.T. esiste solo un altro caso di sacrificio umano, quello di Isacco (non portato a termine per ordine di Dio), che indica con una certa chiarezza come il sacrificio di vittime animali altro non sia che il segno (noi diremmo il “sacramento”) dell’offerta di noi stessi al Signore nell’obbedienza e nell’amore.

Ma al tempo del DeuteroIsaia, con la distruzione del Tempio, la realtà del sacrificio rituale era divenuta impossibile ed è stato in questo drammatico contesto che Israele ha appreso come la sofferenza avesse valore sacrificale per l’espiazione dei peccati.

La dimensione collettiva del sacrificio però, in cui è difficile far convergere tutte le singole volontà, ci introduce al mistero di Israele, popolo innocente (o, quanto meno, non più colpevole di altri) eppure sottoposto a persecuzione in quanto popolo. Chi conosce la storia di Israele sa quanto essa sia inquietante per la coscienza.

Il v.8 aggiunge ancora un elemento importante: Il Servo

Fu colpito per l’iniquità del mio popolo

Dunque esiste una distinzione tra l’innocente e gli iniqui, che però appartengono al suo stesso popolo. Il Testo presenta qui ciò che qualche commentatore ha chiamato un “salto” messianico: il Servo deve, infatti, prima di tutto, portare i peccati del suo popolo, peccati dai quali è immune. Parte da qui la terza onda lunga che investe il N.T. e porterà a leggere in chiave cristologia il dettato del DeuteroIsaia.

Il culmine della sofferenza del Servo è comunque al v.9. L’uomo antico in generale, e gli Ebrei in particolare ancora oggi, attribuivano grande importanza a che si desse ai defunti degna sepoltura.

Dal mito di Antigone alla storia di Tobia, è risaputo che ad un uomo si può negare tutto: una patria, la vita, una discendenza, l’onore, ma non di essere sepolto. Al Servo proprio questo è negato. Il Testo ci parla di una fossa comune, quella dei giustiziati, di solito delinquenti comuni, qui destinata ad un innocente: dunque di una sepoltura non riconoscibile, perciò non fatta segno di cordoglio e pietà.

Chi racconta la storia del Servo mette ad essa un terribile suggello con questa sepoltura anonima (se non fosse intervenuto Giuseppe d’Arimatea) e quindi, in buona sostanza, negata, accompagnata però da un’ultima proclamazione d’innocenza, dalla quale il Servo stesso si è astenuto. Per inciso, la sepoltura negata non può non richiamarci quanto occorso agli Ebrei d’Europa nel corso, in particolare, del secondo conflitto mondiale, aiutandoci a capire l’inconsolabilità del loro dolore.

Non è detta tuttavia l’ultima parola per chi pure è (v.3):

uso al soffrire, rotto al dolore.

Alla disgrazia totale corrisponde una totale glorificazione. Lo scandalo di coloro che assistono alla sofferenza trova una risposta. E’ una risposta che annulla il giudizio apparente: il Servo è glorificato (v.11):

il mio Servo giusto

ossia “innocente”, che ora può avere parte con i rabìm e ripartire il bottino con i potenti (v.129 quasi fosse non uno sconfitto, ma un vincitore. La nostra riflessione può dunque incanalarsi almeno in due direzioni.

La prima, nel rispetto del senso storico del testo, riguarda la storia di Israele, senza escludere la responsabilità recente dei cristiani, né la grande richiesta di perdono di recente pronunziata da Giovanni Paolo II (12 marzo 2000).

La seconda, tenendo conto della rilettura che di questo capitolo dà il N.T., rimanda in particolare ad At. 8,32ss. Filippo incontra un funzionario di Candace, regina d’Etiopia, amministratore di tutti i suoi tesori. Quell’uomo stava leggendo un brano del profeta Isaia. Gli disse se comprendeva ciò che stava leggendo. Il funzionario gli rispose che se nessuno glielo spiegava egli non era in grado di capire. Il brano della Bibbia che stava leggendo era questo:

Come una pecora fu condotto al macello,
e come un agnello che tace dinanzi a chi lo tosa,
così egli non aprì bocca.
E’ stato umiliato ma ottenne giustizia.
Non potrà avere discendenti,
perché con violenza gli è stata tolta la vita.

A questo punto il funzionario gli chiese di chi stesse parlando il profeta. Allora Filippo prese la parola e cominciando da questo brano della Bibbia gli parlò di Gesù. Vedete, è sul mistero di Israele, partecipato a noi-rabìm dal Cristo, che si gioca tutta l’evangelizzazione. Non basterà parlare genericamente di sofferenza redentrice. Sarà bensì necessario inserirla nel suo giusto contesto veterotestamentario ed ebraico, per darle uno spessore autenticamente cristiano.

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