Libro di Isaia: Capitolo 54,1-17 e 55, 1-13

Affrontiamo insieme i due capitoli conclusivi del DeuteroIsaia per due motivi. Anzitutto in essi ritroviamo compendiati temi, simboli ed elementi costitutivi dell’insegnamento del Profeta.

Is.54-55 diventano così una ricapitolazione di quanto abbiamo meditato. Sarà perciò un utile esercizio, dopo averli visti insieme adesso, affiancare a tale lettura quella dei capp. 40-53 ognuno per suo conto, per recuperare una visione generale.

Dobbiamo, infatti, sempre ricordare che si può entrare nel mistero delle Scritture solo leggendo e rileggendo, ciclicamente, senza temere la ripetitività, di cui la nostra cultura del “continuamente nuovo” e del “troppo lento” sembra invece avere paura.

In secondo luogo i temi e i simboli a cui abbiamo accennato li avevamo trovati con una sfaccettatura propria del ProtoIsaia (1-39) e li ritroveremo ancora nel TritoIsaia (56-66). I nostri due capitoli ci servono perciò anche da ponte per rilanciare la lettura verso la parte conclusiva di Isaia.

Is.54 è incentrato sulla visione di Gerusalemme. Il testo è costruito su una serie di imperativi, seguiti dalla motivazione. Chi pronuncia gli imperativi dandone ragione è una voce fuori campo che non si fatica a individuare come quella divina (v.11). In questo modo, la voce racconta indirettamente la storia dei rapporti tra Gerusalemme e l’Eterno. Di questa storia s’individuano tre momenti:

  • vv.1-4 la donna sterile diventa feconda
  • vv.5-12 la sposa ripudiata viene richiamata
  • vv.13-17 la madre

Secondo lo studioso C.Westermann, il linguaggio dei vv.1-3 rimanda al Libro delle Lamentazioni. Se accettiamo quest’osservazione, possiamo leggere Is.54 in presa diretta con il cap. 53 e collegare la storia del Servo a quella della città. All’abiezione salvifica del primo, che muore senza discendenza e senza sepoltura, corrisponderebbero la correzione e la restaurazione della seconda. Il che, come avevo accennato, orienterebbe l’identificazione del Servo.

Il v.1 (nel testo Masoretico, ovviamente) è dominato da simboli sonori: in 1° risuona, infatti, con insistenza il suono (a), tipico del lamento, in cui cominciano a risuonare grida di gioia; 1b, invece, dominano i suoni (b) ed (m) che evocano il soffio dello stupore. Con quest’apertura ci viene suggerito un cambiamento di situazione radicale per Gerusalemme, con l’attonita reazione di chi vi assiste.

Fino al v.12 viene ripresa l’immagine nuziale che ha una lunga storia nella tradizione profetica. Si parla dapprima di una donna senza sposo e senza figli: è la situazione del popolo e della città (i due personaggi, infatti, si sovrappongono) prima dell’alleanza, allorché Israele era come una donna sola, nubile o vedova poco cambia, senza la protezione del marito e senza la garanzia dei figli. Con l’alleanza Israele è diventata sposa e madre, poi è stata ripudiata per la sua infedeltà ed ora è richiamata alla vita in comune con lo sposo.

Mentre la metafora matrimoniale nell’insegnamento profetico generalmente insiste sui temi del tradimento, e perciò dell’allontanamento, della distanza e della correzione, il DeuteroIsaia insiste sulla reintegrazione nella grazia e nell’amore divino. L’abbandono è, infatti “per un momento piccolo” (v.7), ai quali segue una promessa salvifica che non conosce termini di tempo come è detto:

come i giorni di Noè, così per me (v.9)

Alle tre fasi della storia corrispondono due immagini. Gerusalemme è una tenda beduina (v.2), che richiama alla tradizione dei patriarchi e dove veramente la situazione sociale della donna senza uomo e senza figli è molto difficile. La tenda si dilata senza confini, bisogna aggiungere teli e paletti.

Virtualmente, infatti, una tenda beduina si può ampliare a volontà, non fosse che più è ampia più è fragile, perché più esposta al vento. Per questo segue forse la seconda immagine: Gerusalemme è una città solidissima e costruita con materiali preziosi.

Nel testo compare una serie di giochi di parole: tra il verbo “costruire” (banah / libnot) e il sostantivo “figli” (banìm) , e ancora tra “pietre” (‘abanìm) e “figli” (banìm).

I figli rappresentano così il vero materiale con cui la città è edificata. Ricostruire del resto non basterebbe se non fossero garantiti una continuità nel tempo e un destino che, in qualche modo, rappresentino la perpetuità dell’alleanza.

La città deve avere uno scopo quale il discepolato di ciascuno dei suoi abitanti dallo Sposo / Costruttore / Creatore e come la convivenza nella giustizia, senza la minaccia né di guerre civili né d’attacchi dall’esterno. Dio ha dunque pieno controllo su di essa come sulla creazione dopo il diluvio; ed è questo che tocca in sorte a coloro che credono e obbediscono ( i servi) custodendo l’alleanza di cui il Signore si rende unico garante (v.17c).

All’inizio del cap. 55 risentiamo la voce dell’araldo. In qualche modo, il DeuteroIsaia si chiude così come era iniziato. L’araldo, anonimo fino al v.3, si comporta come un banditore ambulante: offre delle merci di prima necessità ma di buon livello con abbondanza. Si comporta, in certo modo, come la signora Sapienza che incontreremo leggendo e meditando il Libro dei Proverbi (già pronto).

Il suo linguaggio risente però in particolare del libro del Deuteronomio (v.3), che associa, come sappiamo (8,3) parola divina, ascolto, cibo e vita. Se teniamo conto che specialmente nell’opera deuteronomista “ascoltare” significa di fatto “obbedire”, “aderire fattivamente a ciò che si è ascoltato” il passaggio è:

ascolto della parola

obbedienza

adesione al suo volere

cibo

vita

Come già abbiamo visto nel corso dell’opera del DeuteroIsaia il discepolato è un modello di vita primario, forse privilegiato rispetto ad altri. E’ nell’ascolto/discepolato il luogo in cui prende consistenza per il popolo l’alleanza eterna, quella leale benevolenza che Dio ha giurato a David (v.5).

Il riferimento alla dinastia davidica ci coglie qui forse di sorpresa. Sappiamo che Yehoyakìn era stato liberato (2 Re 25,27-30) e che forse un suo discendente tornò in patria creando magari anche qualche difficoltà. Ugualmente sappiamo che la monarchia non è più rinata al ritorno dall’esilio.

Di fatto però il profeta non afferma che regnerà nuovamente un discendente di David: dice, al contrario, che le stesse leali benevolenze usate al primo re d’Israele e a lui promesse per sempre sono ora assicurate a tutto il popolo. Tutto il popolo ne diventa depositario ed è investito del compito della testimonianza, al punto da raccogliere attorno a sé le nazioni. A questa sorta di investitura regale comune segue un doppio epilogo:

  • vv. 6-11 veridicità dell’insegnamento del Profeta
  • vv.12-13 ordine di partenza e nuovo esodo

Quando il Profeta parla, però, il popolo è ancora in esilio. Sorge dunque legittimo il dubbio sulla veridicità di quanto egli è andato dicendo. Il popolo è anzi demoralizzato: non crede alla possibilità della partenza, perché non crede di “meritarla”: in buona sostanza non crede che la misericordia del Signore superi la propria capacità di pentimento e conversione. Sotto 55,6-9 serpeggia questo forte sentimento di sfiducia.

La risposta del Profeta è altrettanto forte: certamente è necessaria una buona partenza, fatta di ricerca di Dio, in altre parole lettura della realtà, preghiera e conversione (vv.6-7). Ma questa partenza ha senso soltanto se si entra nella logica divina che è quella di credere ad un perdono senza misura, ad una possibilità di ritorno allorché tutte le vie parevano precluse, e di conversione quando parevano venire meno le forze.

L’Eterno non pensa come gli uomini: i suoi piani sono diversi dai nostri e le sue vie sono ugualmente differenti. La sua misericordia, che apre la via del ritorno a lui e del ritorno in patria, è incommensurabile rispetto all’umana comprensione. E’ un orizzonte più vasto.

E’ vero che si è stati deportati per il peccato e che Babilonia è stato il luogo della purificazione; ma tutto questo è a misura. Non così la misericordia di Dio. Il contesto è abbastanza preciso: le vie di Dio non sono diverse dalle nostre in maniera generica, quasi che il v.8 servisse a giustificare qualunque accadimento che cambi rispetto alle nostre aspettative, nel bene e nel male.

Il contesto, appunto, è quello della fine di una correzione che il popolo pensava senza fine, mentre infinita è solo la benevolenza divina. Dunque la parola del profeta è veridica tanto quanto è efficace quella di Dio. Il paragone con il fenomeno della pioggia è molto importante: né la pioggia sa di fecondare né la terra sa di essere fecondata; tutto avviene all’interno dell’economia della creazione che solo Dio conosce nei suoi ritmi e nei suoi equilibri.

Ecco dunque l’ordine di partenza e l’evocazione del viaggio di ritorno (vv.12-13). Tornano i temi e le immagini del nuovo Esodo, già visti nel corso del libro: la gioia della partenza, l’essere condotti, la trasfigurazione del paesaggio che canta le lodi del Signore. Si parla in particolare di un cambiamento della flora: il deserto diventa un giardino, perché scompaiono le piante selvatiche moleste. Il perdono sovrabbondante di Dio (v.8) si riverbera anche sull’ambiente.

Al di là di qualsivoglia tentativo di sintesi dei motivi che percorrono il DeuteroIsaia concludiamo la nostra meditazione fermandoci su di un dettaglio. Il ritorno dall’esilio comporta una nuova alleanza: l’insegnamento dei Profeti che si sono trovati di fronte a quest’esperienza è concorde. Il nostro ne parla due volte soltanto e propriamente nei capitoli che abbiamo appena letto.

Ne parla in termini peculiari, come abbiamo in parte già visto, non già perché manchi il riferimento all’Esodo, piuttosto manca il Sinai. I modelli che il Profeta ha presenti sono infatti l’alleanza con Noè (54,9) e l’alleanza con David (55,3).

Quali allora le caratteristiche di questo nuovo patto? Anzitutto la pace (54,10): il peccato del popolo non sarà più corretto / punito dalla guerra che Dio intraprende contro i suoi avvalendosi dei potenti e dei prepotenti della terra, i quali, a loro volta, s’illudono di combattere per sé, mentre, al contrario combattono solo perché si riaffermi la lealtà divina.

Dio aveva appeso il suo arco di guerra in cielo dopo il diluvio promettendo pace agli uomini (gen.9,8-17). Il riferimento a Noè, allora, diventa leggibile. Inoltre sarà un’alleanza eterna e incondizionata (55,3), nel senso che la sua permanenza non dipenderà dalla fedeltà umana. Egli se ne addosserà la responsabilità, in modo unilaterale. In questo sarà diversa dall’alleanza bilaterale stipulata con Mosè.

Questa nuova alleanza conterà unicamente sulla lealtà del Signore. E da ultimo (gli elementi appena elencati sono i presupposti per questa ultima caratteristica), sarà universale, travalicando i confini d’Israele, assecondando le caratteristiche del Messia davidico (55,4).

Paradossalmente, con il mancato restauro della monarchia, si afferma un regno di David che da tutto Israele si allarga a tutte le nazioni.

Dal punto di vista genetico, allora, il modello di alleanza che viene proposto dal N.T. ha la sua radice qui piuttosto che altrove e, nello stesso tempo, qui possiamo cominciarne a vederne i tratti distintivi.

Sarà il TritoIsaia a indicare quale sia il messaggio che Israele deve portare alle nazioni con la sua testimonianza.

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