Libro di Isaia: Capitolo 27, 1-13

Meditiamo l’ultimo breve capitolo dell’apocalisse di Isaia, in cui ritroviamo temi e motivi già incontrati in precedenza: alcuni di essi sono, per così dire, rovesciati, rispetto a quando li avevamo visti, altri invece sono ribaditi per quello che sono. Vediamo di identificare un minimo di struttura del capitolo:

  • 27,1 primo oracolo sulla salvezza escatologica: la lotta del Signore contro Leviathan;
  • 27,2-5 secondo oracolo: la canzone della vigna;
  • 27,6-9 terzo oracolo: la salvezza/rinnovamento di Giacobbe con
  • 27,10-11 la propria motivazione: presentazione della città nemica distrutta;
  • 27,12 quarto oracolo: giudizio finale;
  • 27,13 quinto oracolo: riunione degli esiliati a Gerusalemme.

Abbiamo dunque sotto gli occhi alcuni oracoli molto brevi. Sono notevolmente legati tra loro dalla ricorrente formula temporale “in quel giorno” (vv.1.2.6, come congettura, v.12 e 13). Essi dunque, tutti assieme, grazie a questa formula e in forza dei temi e delle immagini che , come vedremo, li concatenano ulteriormente l’uno all’altro, formando una sorta di sommario conclusivo di questa apocalisse ben unitario, nonostante le contrarie apparenze, nonché ben legato al resto dell’apocalisse stessa. Passiamo ora a qualche dettaglio.

Che cosa sappiamo del Leviathan, che compare al v.1? Si tratta di un personaggio che compare poche altre volte nell’A.T.: lo troviamo infatti nominato due volte in questo versetto, poi ai salmi 74,14 e 104,26, infine in Gb.3,8 e 40,25. Ci è presentato come un dragone o come un mostro nel quale sono riunite le caratteristiche del caos. Il Signore lotta contro di lui tanto nel quadro di un’interpretazione mitologica della creazione quanto nell’Esodo: il salmo 74 vede infatti il passaggio del Mar delle Canne e il mare stesso come un mostro sconfitto e dato in pasto “al popolo, alle bestie selvatiche”, è per questo che secondo la tradizione midrashica nel regno escatologico il Leviathan sarà la portata principale del banchetto dei giusti (!), per sancire così la definitiva vittoria sul male.

Stando a Gb.3,8 Leviatan è responsabile delle eclissi: è il mostro che inghiotte infatti pur solo temporaneamente, il sole, nel solito contrasto tra bene e male, visto nella lotta tra luce e tenebre; Gb.40,25 ne dà invece un’immagine più rapportabile alla realtà quotidiana: il nome è infatti attribuito al coccodrillo. Dunque è pericoloso; non solo per la dura corazza che lo rende invulnerabile, ma soprattutto perché insidioso al modo del coccodrillo che si nasconde nelle acque limacciose e attacca di sorpresa.

Un quadro diverso viene invece dal salmo 104, dove Leviathan è del tutto inoffensivo: anzi è un giocattolo o un compagno di giochi che il Signore ha posto nel mare “per divertirsi con lui”. In ogni caso si tratta di una forza terribile e incontrollabile per l’uomo, tenuta perfettamente sotto controllo da Dio sino ad essere inoffensivo. La citazione del Leviathan , che altrove ricorda le lotte con le acque primordiali e con quelle del Mar delle Canne, in questi versetti, permette di tener legato il nostro capitolo ai versetti che immediatamente precedono (Is.26,20-21) e dove, come abbiamo visto, si parlava della notte dell’uscita dall’Egitto, anche se l’oracolo può essere considerato autonomo.

Varrà la pena rammentare che Isaia non ha certo pensato a Leviathan per caso: un testo Ugarit, città-stato della Siria di grande impatto politico e culturale, descrive infatti questa specie di mostro ,marino in modo molto vicino a quello di Isaia che, come abbiamo già detto, era uomo di vasta cultura che più volte dimostra di avere familiarità con la cultura e le fonti letterarie del suo tempo.

Il canto delle vigna che segue immediatamente (27,2-5), non può non rimandarci a Is.5,1-6, che abbiamo meditato precedentemente. A essere del tutto onesti è difficile giustificare la collocazione di questo canto proprio qui, a meno non si pensi all’intonazione tutta escatologica del capitolo e qui ribadita all’inizio del canto. La vigna del resto è spesso associata al tema del giudizio.

Da sé, potrebbe trattarsi di un canto di lavoro, nel senso che evoca alcune delle consuete operazioni (v.3) del vignaiolo e che sono l’esatto opposto di quanto avevamo visto al cap.5 Qui, come là, c’è un solista (il profeta?) che si identifica con il Signore, disposto a capovolgere la situazione, e a giocare sul linguaggio. Tanto che il canto di lavoro diventa un canto d’amore che si risolve in una promessa molto solenne (v.5). Conviene notare un particolare: Is.5 nasceva da un senso di speranza frustrata, di delusione e ira, non detta, ma non per questo meno reale.

Qui troviamo un’affermazione esplicita della fine dell’ira divina (v.4). Si tratta di un’affermazione importante che dobbiamo custodire con cura. Nell’A.T e, più tardi nel N.T., si afferma con forza che l’ira del Signore ha un termine di tempo che certo egli solo conosce, comunque non è eterna. Al contrario si afferma più spesso e con maggiore forza che “eterna è la sua misericordia”.

La certezza di fede che la misericordia di Dio supera la sua ira, per quanto legittima e dichiarata, è fondamentale per costruire un vero rapporto con Lui e con i propri fratelli. Dio non è l’amante che, una volta tradito e deluso, abbandona per sempre. Anzi l’ira è temporanea; è un modo per aspettare il popolo amato e indurlo a tornare al suo Signore.

Il terzo oracolo (vv.6-9) con le sue motivazioni (vv.10-11) riprende l’immagine di fecondità vegetale che abbiamo già intravisto per la vigna: Giacobbe “metterà radici e Israele fiorirà, germoglierà, riempirà il mondo di frutti” (v.6). Il tutto accade nei “giorni futuri”, secondo una congettura abbastanza probabile, data l’incomprensibilità del testo.

Dopo il tempo della correzione, ovvero dell’esilio e della dispersione, evocati nei vv.7-8, c’è quindi il tempo della ripresa e del radicamento. “Correzione” e “purificazione” significano “giudizio”, come lascia intendere l’immagine dell’uragano al v.8. Ma a tale purificazione, Giacobbe/Israele corrisponde con il rifiuto della idolatria (v.9). I vv.10-11 ce ne presentano una sorta di motivazione (in ebraico compare la congiunzione causale ki all’inizio del v.10 e a metà del v.11, qui tradotto con “certo”): la città nemica viene a trovarsi nella stessa desolazione preannunziata al popolo/vigna per la propria idolatria.

Questo motivo della città nemica distrutta compare almeno altre tre volte in questa apocalisse di Isaia (24,10-12; 25,2.12; 26,5-6. 12-13). Il clima generale dei vv.10-11 è veramente quello di un desolato silenzio, accentuato dalla mancanza di intelligenza (v.11), tale da precludere il perdono perché comunque non sarebbe né accolto né compreso.

Le metafore agricole però continuano, dando unità al nostro capitolo al di là di tutto. Il tempo del giudizio definitivo, di cui parlano i vv.12-13, rimanda nel tempo della mietitura e della trebbiatura del grano. Il tema era già presente col vento d’uragano del v.8, perché l’operazione del ventilare il grano corrisponde a un giudizio.

Dopo la trebbiatura, sollevare il grano mentre spira il vento, affinché avvenga una spontanea separazione da grano e pula, è infatti un’operazione che evoca il giudizio ultimo (l’immagine è frequente nel N.T. dalla predicazione di Giovanni il Battista): è infatti al tempo della raccolta che si può discriminare e decidere.

Nel nostro caso però il giudizio ha soprattutto una valenza positiva: non è tanto per distinguere il buono dal cattivo, quanto per raccogliere tutto il buono insieme, uno a uno, chicco a chicco. Tale battitura avverrà sia tra gli esiliati (ovvero che sono presso “il corso dell’Eufrate”, ossia a Babilonia, perché ivi condotti dai conquistatori), sia tra i dispersi (ovvero tra coloro che volontariamente hanno raggiunto il “torrente d’Egitto”, ossia il Nilo come termine che significa l’Egitto in generale). Dio cercherà ognuno, chicco per chicco, più come uno spigolatore che non come uno che batte il grano.

Il testo ci offre dunque la dimensione spaziale di questa raccolta che comprende tutti coloro, ognuno nel luogo in cui ora si trova, che la distruzione del regno di Giuda e di Gerusalemme ha costretti a lasciare il paese. Ce ne offre quindi la dimensione temporale. Sarà il giorno del “grande corno”, ovvero il giorno in cui si indice un grande pellegrinaggio.

Quando suonerà questo sofar, non solo tutti saranno puramente e semplicemente raccolti , ma avranno davanti a sé un itinerario preciso che culmina in Gerusalemme, sul monte Sion, al tempio, per prostrarsi al Signore. Lo scopo del ritorno dall’esilio allora è non certamente, in prima battuta politico, bensì liturgico. Non c’è altro luogo infatti, secondo Isaia, se non il tempio per prostrarsi al Signore in una dimensione di comunità salvata e riunita.

Tuttavia la tematica della raccolta di Israele dall’esilio e dalla dispersione è tema ricorrente in testi recenti, apparentati alla tradizione deuteronomista, tanto da far pendere la bilancia verso una datazione recente della apocalisse in generale e di questi versetti in particolare.

Bene o male siamo quindi di fronte ad un testo anacronistico rispetto al posto in cui è collocato. A queste cose dovremmo oramai essere abituati. Importante è invece cogliere l’assoluto cambiamento di prospettiva a cui ci pone di fronte il canto della vigna (27,2-5) già citato, rispetto al suo omologo del capitolo 5. Parliamo di un cambiamento di prospettiva perché la salvezza è comunque sempre offerta e può comunque essere accolta, talché il vignaiolo che dapprima si lagnava della vigna che aveva tradito le sue cure minacciando il suo completo abbandono, è ora disposto ad investirvi ancora tempo ( “notte e giorno”, “ogni istante”, v.3) forza e lavoro. Dio è, come dicono i rabbini, capace di convertirsi, perché non vuole né può tirarsi indietro rispetto alle promesse che ha fatto al suo popolo.

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