Libro di Isaia: Capitolo 66, 1-24

trovato il peccato e la profanazione di Gerusalemme, al centro dell’ultimo troviamo la ricostruzione, la fecondità e la purificazione. E’ come se tutto il messaggio dei tre Profeti che chiamiamo genericamente Isaia fosse contenuto entro una grande inclusione e ne ricavassimo perciò l’ammaestramento che Gerusalemme, pur in una maniera diversa secondo l’ottica di ciascuno, sia il punto focale del loro interesse. Con ogni evidenza la rivelazione biblica ha lasciato il segno: il mondo ha nella Città Santa il suo punto di unificazione, di partenza e di arrivo.

Tuttavia il discorso non è solo geografico. Con l’insegnamento di Isaia veniamo, infatti, a trovarci di fronte ad un’ampia visione della storia che ha come confine l’eternità. Siamo allora chiamati a scoprire e riconoscere il ruolo che Gerusalemme ricopre entro questa stessa storia.

In Is.66 possiamo individuare tre momenti principali:

  • vv.1-6 oracolo sul Tempio;
  • vv.7-14 giudizio e consolazione di Gerusalemme;
  • vv.15-24 pellegrinaggio e giudizio finale;

che vedremo ora uno per uno.

L’oracolo d’apertura è, apparentemente, contraddittorio. In realtà traduce davanti ai nostri occhi le tensioni tipiche del ritorno dall’esilio, allorché alcuni vedevano necessaria la ricostruzione della Città santa e del Tempio, specie in chiave simbolica per l’unità nazionale. I più, al contrario, erano presi dalle proprie private vicende; talché i Profeti dell’epoca si diffondono in recriminazioni ed esortazioni affinché ci si convinca della necessità di non pensare a se stessi, bensì alla Casa del Signore.

Il TritoIsaia recupera qui il cosiddetto oracolo di Natan (2Sam.7,5-7), con il quale il Profeta aveva risposto al progetto del re David di costruire una “casa” al Signore, così come recupera, in parte, la preghiera di Salomone al momento della dedicazione del Tempio (1Re 8,27): nessuna realtà umana può certamente essere adeguata alla maestà del Signore, e tuttavia ciò non esime il popolo dal costruire il Santuario, da una parte, mentre riconosce, dall’altra, che questo non basta.

Il TritoIsaia dà una lettura e una soluzione molto matura al problema: non ci si può rassicurare con la ritualità, ma neppure considerarla superflua (semmai è “gratuita”). Dio è certamente trascendente, ma è anche immanente alla storia, per la sua attenzione ai poveri e agli afflitti, ai contriti nello spirito (v.2), e a coloro che tremano per la parola di Dio (v.2; la formula è ripresa anche al v.5), formula questa che è tipica dell’epoca postesilica e indica la comunità d’Israele come ci è descritta anche da Esd. 9,4 e 10,3.

La nota polemica sul Tempio è confermata dal v.3 a proposito dei sacrifici. Dovremmo qui rettificare la traduzione. Troviamo, infatti, quattro coppie giustapposte, non in chiave temporale, come farebbe pensare la traduzione CEI grazie al “poi” che lega la coppia al suo interno nonostante il contrasto, ma piuttosto come paragoni, quasi fossero proverbi:

C’è chi immola un toro, ed è come uccidesse un uomo.
C’è chi sacrifica una pecora, ed è come strozzasse un cane.
C’è chi porta un’offerta (minha), ed è come sangue di porco.
C’è chi incensa invocando ed è come benedicesse un idolo.

Il testo mette a confronto quattro azioni del culto legittimo e quattro del culto pagano: sacrifici umani, abbattimento di un cane, manducazione del maiale, saluto agli idoli. Chi osserva il culto legittimo può purtroppo osservarlo come eseguisse un culto pagano, se davvero tutto si riduce al solo culto. Ciò di cui il Signore è alla ricerca, nel suo popolo, è una continuità di credenti, raccolta attorno alla sua Parola, che sia fatta e presti attenzione ai poveri e agli indifesi.

Infine non perdiamo di vista la parola “offerta” (minha), perché la ritroveremo, e allora il discorso si arricchirà di significati. Dunque il Tempio, casa del Signore e casa della preghiera dei popoli, non solo in senso proprio, ma anche in senso mistico. A questo punto il discorso si sposta su Gerusalemme (66,7-14) vista nella sua dimensione materna. In questa sezione troviamo dure parole di giudizio e parole di consolazione: queste sono dominanti (vv.11 e 13 ben quattro volte compare la radice nhm).

Gerusalemme è una madre che genera e nutre (vv.7-9; 10-13): la città si ripopola senza dover neppure aspettare il tempo che a ciò sarebbe fisiologico, e anticipa così la sua vocazione futura ed eterna. E’ una madre che partorisce senza dolore, sollecita del suo bambino; lo allatta, lo porta sull’anca e lo tiene sulle ginocchia accarezzandolo. Si parla certamente qui della città storica, che diventa punto cui guardano e vanno tutti coloro che la amano e hanno partecipato al suo lutto (v.10). Ma non solo.

Si tratta di tutto l’Israele fedele che ha patito l’esilio e ora torna. Soprattutto è il Signore stesso (v.13):

Come un bambino consolato dalla madre,
così io vi consolerò
e in Gerusalemme sarete consolati.

Il Testo ci presenta un passaggio dalla città storica a quella metastorica a Dio, che si fa madre per consolare. Se in Is.63,16 e 64,7 ci eravamo trovati davanti al volto paterno del Signore, qui troviamo quello materno (49,15), connotato dalla fedeltà e dalla sollecitudine. La simbologia è trasparente: il popolo d’Israele trova tutto in Dio e, in particolare, passa a noi tale ampiezza e profondità di rivelazione che troverà tutta la sua consistenza nel mistero del Cristo, allorché, paradossalmente, Colui che si fa normalmente Padre e Madre del suo popolo, si farà anche Bambino, Figlio e Primogenito di un popolo di fratelli.

L’ultima parte del capitolo (vv.15-24) è connotata dall’elemento “fuoco” (vv.15-16.24). Siamo di fronte ad un giudizio, un giudizio grande e tremendo, che non si esaurisce in se stesso, giacché prelude alla purificazione della Città, restituendola alla sua santità e al raduno in essa di Israele e delle nazioni. A quel punto, in essa non ci saranno che giusti, pagani compresi, che osservano il capo di mese e il sabato.

Davvero il TritoIsaia finisce come era cominciato: basta collegare Is.56,7 a Is.66,23. Ugualmente però l’intero libro pare dominato dallo stesso assillo: Is.66,24 realizza il sogno di Is.1,21-26: a Gerusalemme non ci sono che buoni. Tutti i perversi sono stati eliminati e chi vuole vederli bruciare, nel fuoco purificatore, non ha che da uscire dalla città stessa. Vediamo ora in dettaglio. Dobbiamo prima risolvere il problema di tre pronomi. Ai vv.18.19.21 troviamo sempre detto “essi” (hem).

L’esegesi tradizionale riferisce tutte e tre le volte il pronome agli Israeliti, ma potrebbe essere che almeno in un caso, esso si riferisca ai pagani. Secondo alcuni esegeti si tratta di “essi” del v.19: sarebbero pagani convertiti che diventano missionari presso i lontani (v.19). Inoltre costoro hanno un compito verso Israele stesso (v.21), che è un compito sacerdotale: quello di ric0ndurre gli Israeliti come offerta (minha, di nuovo, cioè il sacrificio della sera, secondo la terminologia tipica del Tempio, v.20). Chi, tra i pagani è scampato al fuoco purificatore, ha il compito di ricondurre non solo altri pagani, ma lo stesso Israele.

Se questa lettura è corretta, allora l’apertura universalistica di questo finale è massima. Passeremmo infatti dal pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme (v.18b), cioè dai pagani che hanno visto la luce della salvezza e sui quali il Signore ha posto un “segno” (‘ot, v.19) al fatto che costoro diventino missionari presso le stesse nazioni da cui provengono. Il Testo ce ne dà un elenco.

Sono: la Spagna, ovvero quelli che erano i confini del mondo (Tarsis) e la Grecia (Jaban), designate come “isole lontane”; l’Africa, individuata da Libia e Lidia (Put, Lud); l’Asia con Frigia e Cilicia (Mesek e Tubal). Sono i confini del mondo conosciuto, quelli che altrove nell’A.T. sono “i quattro angoli della terra”.

Il mondo intero è evangelizzato e questa opera non tocca a Israele, che l’ha già vissuta con l’esilio e il ritorno, stando al DeuteroIsaia, ma ai pagani che hanno compreso il mistero di Israele, popolo testimone della fedeltà del Signore. Da questo scaturisce la missionarietà, che tocca ad altri: da “gentili” a “gentili”. Anche questi missionari sono degli scampati: hanno visto il giudizio che Dio ha pronunziato su Israele e ne sono stati essi stessi giudicati. A costoro spetta, presso i lontani da cui provengono, annunciare e narrare quanto hanno visto e udito.

L’esito di questo spandersi della salvezza per cerchi concentrici che si allargano, è un generale raduno escatologico (vv.20-21). Il ritorno è di tutti, ma i pagani esercitano un servizio con e per Israele: con lui sono sacerdoti, a suo favore lo riconducono come offerta (v.20).

Si delinea qui e in questo modo il compito dei cristiani. Essi sono al servizio di Israele, al quale il Messia spetta di diritto: devono pertanto rimuovere tutti gli ostacoli che ne impediscono l’avvento definitivo e il riconoscimento e, se provengono dalla gentilità, devono ad essa annunciare quanto da Israele hanno ricevuto. Se dovessimo davvero riscoprire la nostra vocazione missionaria, dovremmo partire da qui.

I versetti 22-24 infine, riepilogano tutta l’escatologia del TritoIsaia: ci presentano un giudizio ultimo che rende nuovi i cieli e la terra, secondo una promessa che abbiamo già sentito (65,17). Il Tempio c’è ancora e c’è persino il calendario. Anzi la stessa Città è ben identificata nei suoi punti principali: il Colle del tempio e la Valle della Geenna, subito sotto di esso. Uscendo dal Santuario, coloro che si sono purificati e sono rimasti fedeli vedono il fuoco che consuma coloro che , al contrario, non hanno accetttato le correzioni divine.

Gerusalemme, che nell’A.T. compare sempre come l’universo di mezzo tra cielo e terra, o meglio come loro punto di incontro, diventa qui il luogo emblematico dello scontro che percorre la storia. Fedeltà e infedeltà, monte del tempio e Geenna sono i due poli tra i quali si gioca tutto.

E tuttavia la tradizione ebraica non chiude il libro di Isaia con questa immagine fondamentalmente tragica. Nella lettura tradizionale, infatti, dopo il v.24, si rilegge il v.23, perché su tutto domini la speranza che “ogni carne” verrà al Santuario per prostrarsi al Signore.

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