Libro di Isaia: Capitolo 63, 1-19 e 64, 1-11

Abbiamo proceduto un po’ a tappe forzate giungendo al penultimo incontro di meditazione, di lettura e di preghiera del profeta Isaia. Abbiamo di fronte due capitoli, per comprendere i quali dobbiamo sempre richiamare alla memoria quanto abbiamo meditato in precedenza, in particolare la parte finale del cap.62. Sono due capitoli densi di difficoltà testuali che condizionano un po’ il significato. Ci limiteremo ad affrontare le più importanti senza insistere troppo. Il cap. 63 si apre, infatti, con il ritorno del Signore nella città santa dal paese dell’esilio. Edom è preso come cifra degli oppressori, perché gli edomiti erano alleati dei babilonesi nella presa e distruzione di Gerusalemme (sal.137).

Il Signore torna sì dall’esilio, ma come un re che abbia vinto una spedizione militare. Davanti a noi si svolge allora uno strano dialogo (vv.1-6). Una voce fuori campo, come quella di una sentinella che chieda il chi va là, parola d’ordine, impone al misterioso personaggio di svelare la sua identità. Questi non dice altro che “Io” (v.1), dando per scontato che ciò basti e aggiungendo non un nome proprio, ma che cosa sa fare e fa: parlare con giustizia e salvare con grandezza. Diventa allora chiaro per la sentinella che si tratta del Signore, l’unico che possa dire di sé cose simili con verità. Il dialogo slitta poi sul suo abito purpureo di sangue.

La risposta divina alla sentinella che gli chiede il motivo del colore, comporta un dettaglio importante: il verbo è al passato, il cosiddetto passato profetico, perciò davanti a noi sta non il resoconto di una battaglia combattuta con successo, bensì l’annuncio di un giudizio che verrà su tutti i popoli. E’ un giudizio estremo, compiuto in assoluta solitudine, come mostra l’immagine della vendemmia, tipica della letteratura profetica, assieme a quella della mietitura, per alludere al giudizio finale. E’ una lotta a corpo a corpo e all’ultimo sangue in cui

Nessuno di tra i popoli era con me

Come dice il v.3 nel testo ebraico ( “del mio popolo”, dice invece la nostra traduzione, seguendo una variante di Qumran). L’accenno ai popoli ha senso, perché il Signore ad essi ha fatto più volte ricorso per correggere Israele e questa lettura di invasioni e distruzioni è fondante dell’insegnamento di Isaia quanto alla teologia della storia.

Ma ora egli è solo, perché questo giudizio non è più storico, ma escatologico. In questo giudizio, tutte le potenze mondane, qui evocate da Edom, saranno sconfitte definitivamente. L’annuncio e la visione del superamento e dell’esito della storia innescano un lungo salmo (63,7- 64,11). E’ uno dei tanti salmi che si trovano fuori del Salterio e che ha tutte le caratteristiche della supplica collettiva, propria del tempo dell’esilio. Vediamo di riconoscere queste caratteristiche, individuando due sezioni principali:

  • 63,7-14 introduzione con memoria del passato,
  • 63,15-64,11 supplica con evocazione del presente e confessione di fede.

Sappiamo già come sia un tratto tipico delle suppliche che l’orante o gli oranti ricordino il passato felice, in cui si era sperimentata la vicinanza del Signore e il suo costante aiuto. Questa memoria è la premessa del futuro. Avendo chiaro il ricordo del bene ricevuto, nel momento della sofferenza si può invocare salvezza per il futuro. Neppure noi, del resto, nel tempo della sofferenza, sapremmo guardare avanti se non rammentassimo il bene già ricevuto e sperimentato da parte del Signore. Per questo si dice che chi non ha memoria non ha futuro.

Come è prevedibile, anche qui la memoria del popolo si concentra sui fatti dell’esodo insistendo sul coinvolgimento personale e diretto del Signore, che è così forte, da escludere la presenza di qualsivoglia intermediario (63,9). Ancora una volta abbiamo di fronte un problema di traduzione. Il v.9 nei LXX e nella nostra traduzione suona, con una lettura che ritroviamo per altro nell’uso liturgico ebraico della notte di pasqua:

non un inviato né un angelo,
ma egli stesso li ha salvati

l’ebraico invece suona:

in tutte le loro angosce
l’angoscia fu anche su di lui
e l’angelo del suo volto li salvò

lettura non meno interessante, per quanto difficile. Dio ha partecipato delle angosce del suo popolo sino a farsene carico e ad essere a sua volta angosciato. La menzione “dell’angelo del suo volto” è solo una perifrasi per evitare il nome divino, secondo un uso tardivo, già prossimo a quello del targum. Dio solo, infatti, è potuto intervenire con tanta forza, da appannare qualsivoglia presenza umana.

Un altro problema è posto dal v.11, dove la nostra versione legge “Mosè suo servo ( ‘abdo)”, mentre l’ebraico ha moSe’ammo: ‘ammo vuol dire “suo popolo”, dunque moSe in questo caso non può essere un nome di persona, ma il semplice participio attivo del verbo maSa “trarre”. Perciò potremmo tradurre, avendo Dio come soggetto:

e ricordò i giorni di un tempo
traendo il suo popolo.

Come il popolo nella sventura ricorda la salvezza sperimentata dai padri, anche il Signore ha ricordato a suo tempo, nell’esodo, le sue stesse opere del passato. Tanto nitida era la memoria che egli custodiva di quanto aveva compiuto per i loro padri, che ne è stato indotto a salvare ancora in modo del tutto nuovo, secondo il TritoIsaia: infondendo il suo Santo Spirito (v.11). E’ questo “Santo Spirito”, altra perifrasi per evitare il nome divino, il vero protagonista della salvezza in atto rivelata nella storia..

Tuttavia, per quanto perifrasi lo “Spirito Santo” affiancato al “braccio glorioso”, segno di potenza e chiaro rimando all’opera deuteronomista, è un modo per dire “Dio”. Quindi Mosè in questo salmo è una memoria appena accennata (v.12), mentre si pone l’accento e si insiste che lo spirito divino, cioè Dio, è davvero il grande protagonista.

Dopo questa prima rivelazione ce n’è un’altra che ci aspetta nella seconda parte del salmo (63,15-64,11). E’ questa la supplica in senso stretto. Nel duro presente, in cui si sperimenta l’assenza di Dio, se ne chiede il ritorno, ma, soprattutto lo si confessa e lo si invoca come Padre (v.16). Anche in questo momento impallidiscono i “padri” della storia di Israele; paiono divenuti lontani e dimentichi della nazione, che pure in loro si è sempre riconosciuta e da loro ha tratto vanto.

Ora essa ric0nosce che solo Dio è il Padre, il go’el, il vendicatore ( “redentore”, v.16) del sangue, istituto giuridico di cui abbiamo già parlato e che, occorre ripeterlo, non è un istituto selvaggio, ma la mitigazione della libera vendetta. Israele ha dunque sempre saputo chi fosse il consanguineo che poteva e doveva riscattarlo. Ha sempre avuto la coscienza che Dio è Padre, e adesso (64,7) ci troviamo di fronte ad una formula che sappiamo a memoria, ‘abinu, “Padre nostro”. Essa compare in un contesto liturgico, perché si tratta di una supplica a sfondo nazionale e diventerà centrale nella liturgia ebraica.

Come già la menzione dello spirito nella prima parte del salmo ricorreva tre volte (63,10.11.14), così nella seconda tre volte ricorre il Padre (63,16, due volte e 64,7 una volta), con un interessante parallelismo interno al salmo stesso, confermato da una dichiarazione indiretta di paternità da parte di Dio in 63,8.

Tre elementi guidano dunque la nostra lettura e tutti puntano all’unicità di Dio: unico giudice, unico salvatore del suo popolo, unico padre. L’apertura del cap.63, potrebbe forse essere meglio connessa al finale del cap.62 in cui già si delinea il ritorno del Signore come salvatore e sposo della figlia di Sion prima e come giudice delle nazioni che l’hanno oppressa poi. Ma il forte senso d’unicità che pervade i due capitoli che abbiamo meditato permette in ogni caso di tenerli uniti.

Infine vale la pena notare che l’inizio della supplica (63,19b) con i versetti che seguono immediatamente, è uno dei testi chiave della liturgia latina del Tempo d’Avvento. L’invocazione d’apertura di una grande teofania è impaziente e concitata. Quasi che le sofferenze del popolo fossero giunte ad un punto tale che Israele è stufo dei suoi stessi peccati. E’ anzi disposto ad una nuova creazione e la chiede.

L’affermazione della paternità divina in 64,7 allude, infatti, al racconto della creazione dell’uomo di Gen.2-3, mentre con l’immagine del fango, insiste, per contrasto, anche sul tema dell’umana debolezza. E’ dunque un testo veramente adatto per questo tempo d’attesa del giudizio e della rivelazione del volto divino, della salvezza e dell’epifania di Dio nella carne, passando per la confessione dell’unicità del Signore e per il riconoscimento del nostro peccato.

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