Figliol prodigo

Luca Giordano - Pentimento di Re DavideOggi non è più raro imbattersi in un genitore che non ami suo figlio.Tra l’altro esistono conflitti tra genitori e figli e non sono pochi. Certe volte è difficile per un padre continuare a credere che la bontà e la comprensione possono realmente risolvere il problema del figlio. E, poi, anche se lo volesse, si troverebbe di fronte ai suoi limiti.
Si accorge che, dentro di sé, non esiste una riserva così grande di amore, capace di condurre il figlio a incontrarsi con se stesso.

Naturalmente non mancano le eccezioni di persone, anche inconsapevoli, di essere illuminate dalla mano di Dio. Esistono, in genere,ovunque barriere e limiti che vanno oltre ogni buona volontà. Il nostro amore non basta a risolvere i problemi umani che ci circondano e che fanno soffrire tanta gente. Noi stessi soffriamo,quando prendiamo coscienza della nostra incapacità di amare davvero gli altri. Anche perché l’amore umano è sempre condizionato da interessi terreni. C’è in noi un vuoto, una insufficienza più grande di noi, che non riusciamo ad eliminare. Non siamo capaci di amare e di volere il bene degli altri, come vorremmo. Ecco perché facciamo fatica a parlare e comprendere che Dio è un Padre buono e generoso che ama tutti gli esseri umani. Ma nonostante i nostri limiti, sappiamo per nostra esperienza personale che Egli ci ama, lo sappiamo col “cuore”, non con la mente, ognuno individualmente, in modo straordinario.

Fratelli e sorelle, è da questa scoperta, che possiamo avere già fatto o che stiamo iniziando a fare ora, dipende tutto il senso della nostra vita. Dio Padre ci ama e il suo più grande desiderio, sin dall’inizio dei tempi, è che noi conosciamo il suo amore, che noi ci lasciamo amare da lui. Ma qui viene spontaneo pensare:”Come è possibile? Non posso crederci! Sono pieno di difetti,di peccati,di egoismo…non sono certo un santo. Dio Padre non può amarmi!”.

Invece Dio vuole che noi sappiamo che lui ci ama ora, intanto che ascoltiamo questa meditazione, proprio come siamo. Anzi ci ha sempre amati, ci ha voluto e desiderato; lui ha progettato la nostra nascita, ci ha atteso,immaginando e formando il nostro volto, il nostro corpo, il nostro carattere: Egli ci è Padre, ci segue ogni giorno, è presente quando siamo feriti e delusi, soffre con noi. Ci è sempre stato vicino anche se noi non ce ne accorgevamo, anche quando facevamo cose contrarie alla sua volontà, anche quando ce ne siamo andati alla ricerca di tutto fuori che lui. Egli dice:“Ti ho sempre amato e per questo continuerò a mostrarti il mio amore incrollabile”(Ger.31,3).

A questo punto, fratelli e sorelle, ascoltiamo Gesù nostro Signore che ci rivela l’amore del padre. Gesù ha osservato le cose della nostra vita e se ne è servito, nella parabola del figliuol prodigo. Mentre ascoltiamo la lettura del testo, stiamo bene attenti per verificare se una cosa del genere è successa o sta accadendo anche nella vita che viviamo.

LETTURA: Luca 15,11- 32. Questa parabola narrata da Gesù è una storia un po’ strana, ma molto commovente, perché racconta la vicenda di un perdono e di un amore molto grandi. Non solo, a questo punto, la nostra intelligenza si smarrisce e non riesce a capire le cose. Solo il cuore è capace di percepirle, anche se molto vagamente. Letteralmente parlando, questa parabola non può essere definita che come un miracolo. Questo racconto, nel campo morale è il massimo argomento di speranza per ogni figlio dell’uomo. Nessuno al mondo ha raggiunto tanta potenza di commozione, in un racconto così breve, così vero, così privo di qualsiasi artificio letterario. La sua semplicità è un capolavoro eppure la sua efficacia è maggiore di quella di altre narrazioni giustamente celebrate per sapienza di costruzione e limpidezza della parola. Da qualsiasi angolatura si osservi la parabola, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti ai suoi figli e i due figli davanti a lui. Non solo, il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione, le due vicende, quella del figlio minore e quella del figlio maggiore, si scontrano con l’originalità della sua paternità. E fuori metafora affermiamo che il punto in cui la parabola insiste è il modo con cui Dio Padre si pone di fronte ai suoi figli, i peccatori e i giusti, e i figli di fronte a lui.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione ai due figli. Quello maggiore era una vera perla: giovane serio e posato, non badava che alla fattoria, era il braccio destro del padre nel dirigere i lavori dei campi, non si prendeva uno svago con i pochi e assennati amici che aveva. Il figlio minore era tutt’altro: pieno di fumi nel cervello, si sentiva soffocare in quella vita così puntuale e metodica scandita dalle stagioni; i lavori dei campi lo annoiavano, il gregge e l’armento lo infastidivano col loro tanfo, la fattoria gli sembrava un carcere dove i carcerieri erano i garzoni sempre pronti a fare la spia d’ogni sua azione al padre. Dai molti pseudo amici che aveva nei dintorni sentiva raccontare cose mirabili di grandi città lontane, dove si tenevano banchetti, danze, musiche, feste sbalorditive, dove si incontravano donne profumate disponibili, invece delle puzzolenti pecoraie e dei lerci bifolchi di suo padre. In quei posti era la vera vita. E quando dopo una oziosa giornata, come tante altre, ripensava a quei luoghi, sdraiato sul prato della fattoria rassegnandosi a sentire cantare i grilli, rifletteva con melanconia che la sua vita stava irrimediabilmente scivolando via senza divertimento.

Ecco che allora un certo giorno prende la sua risoluzione, probabilmente suggerita da un pseudo amico, si presenta dal padre e gli chiede la parte del patrimonio che gli spetta di diritto. Sappiate che secondo la legge ebraica (Deut.21,27), un figlio poteva chiedere, anche prima della morte del padre, la sua parte di eredità. A quella richiesta, il padre dovette guardare lungamente negli occhi il giovane, ma non proferì parola, come il giovane non ardì aggiungere parola a quella richiesta; l’uno si allontanò dall’altro in silenzio. In questo scambievole silenzio si svolse la tragedia: dolore per il padre, inizio della vera vita per il figlio.

Riflettiamo un istante e fermiamoci dall’analizzare la parabola. Mi pare che fin qui fra le righe del racconto traspare già una importante considerazione, e cioè che l’uomo si sottrae a Dio Padre perché convinto che egli sia un padrone interessato solo a se stesso, ostile all’uomo e alla sua libertà: dunque una presenza ingombrante, proprio come il padre della parabola. Ecco il peccato, non si tratta del fatto di avere chiesto la sua parte di eredità, per poi dissiparla (senz’altro grave comunque), ma del fatto che la casa paterna rappresenta una prigione, e la presenza del padre mortificante e l’allontanamento la libertà di fare quello che vuole. Andiamo avanti.

Il testo della parabola ci dice che il giovane si dette a vivere sia sfrenatamente o dissolutamente, sia anche prodigamente o da scialacquatore; le due maniere, del resto, sono necessariamente congiunte tra loro. Comunque i giorni passano presto e bene, in quella vita; ma giunsero anche le conseguenze. Dopo un certo tempo, insieme col tempo, era passato anche il gruzzolo, unica fonte dei piaceri, giacché per quanto ricolma fosse stata da principio la borsa, non era poi senza fondo. Ma la febbre del piacere l’aveva pervaso ed accecato a tal punto, da non lasciargli vedere che la borsa andava sempre più scemando. Un giorno, poi, rimase vuota. La vita beata era finita; ne cominciava un’altra ben diversa. Il gaudente di ieri era assalito da due parti, all’interno e all’esterno; non solo la borsanera vuota, ma nel paese è giunta la carestia, ed è superfluo dire che gli pseudo amici sfruttatori ed adulatori del tempo delle vacche grasse sono scomparsi badando ai casi propri.

In questa desolante situazione e in un paese straniero il giovane non ha molto da sofisticare;o morire di fame, o mettersi a lavorare dove capita, anche nel lavoro più umiliante e schifoso. Trova lavoro come guardiano dei porci. Ma se con ciò ha evitato la morte, non ha evitato la fame che gli rode continuamente le viscere. Per lui non c’era nemmeno una carruba. In queste spaventose condizioni passa parecchio tempo. Durante le soste canicolari, quando i porci famelici ed estenuati si sdraiano all’ombra di un albero, anche l’emaciato porcaio si sdraia a fianco loro fra la polvere e il letame; ma il pensiero gli vola ostinatamente alle lontane serate estive, quando sdraiato sul prato della fattoria paterna sentiva cantare i grilli vagando con la mente dietro sogni vacui narratigli dagli amici. Quei rosei sogni si sono adesso pienamente avverati; egli li sente attorno a sé nei porci che grugniscono, addosso a sé nei luridi e fetenti stracci di cui è coperto, dentro di sé nella fame che gli torce le budella.

Con la partenza da casa era iniziata la degradazione: una vita disordinata, poi la fame, poi l’attuale servizio presso il padrone pagano, infine l’umiliazione di pascolare i porci. Qui, fratelli e sorelle, inizia il cammino di ritorno, malgrado le idee non siano ancora chiare, ciò nonostante ha inizio un mutamento interiore. Il giovane comprende che la casa del padre non era una prigione, ma un luogo di libertà e dignità. Il figlio ha così compiuto un passo importante, e tuttavia non è ancora la completa conversione. E’ solo la premessa necessaria. Lui è persuaso di dover convincere il padre a riaccoglierlo: per questo formula la domanda del perdono e si dichiara disposto a lavorare come un servo.

Come possiamo osservare, sono senza dubbio parole e sentimenti che testimoniano la sua sincerità, ma che, al tempo stesso, mostrano ancora la sua incomprensione del padre. Ecco, la seconda riflessione è proprio questa: il figlio non conosce il padre, né quando si è allontanato da lui né quando ha deciso di ritornare. Già, perché lui è convinto di aver perso l’amore del padre e di doverselo meritare di nuovo. Non sa che il padre non ha mai cessato di amarlo. Dirà:”Padre, peccai contro il cielo e innanzi a te! Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio! Fammi come uno dei tuoi servi!”.

Sorretto da questa speranza e raccolte le ultime energie, il giovane si mette in viaggio verso la casa paterna. Durante il cammino, più volte sopraffatto dal ricordo della sua partenza dispera di esservi accolto almeno come un cane randagio. Ma non c’è altro per lui: il mondo intero adesso si racchiude in quella fattoria. Ed egli trascinandosi per la strada come meglio può, finalmente vi giunge. E’ un chiaro pomeriggio. Suo padre sta nei campi a sorvegliare; ma il suo occhio solerte, che scorre da aratro ad aratro e da garzone a garzone, non ha più la limpidezza di una volta; è velato, mostra le stigmate di una pena antica ma non invecchiata, e di tanto in tanto si fissa là verso l’estremo orizzonte restando immobile a riguardare chissà quali fantasmi. Mentre però egli stava ancora distante, suo padre lo riconobbe e ne fu intenerito; corse da lui, lo abbracciò e lo baciò.

Un bacio? Chissà quanti su quel collo pidocchioso e su quel volto dalla barba inzaccherata. Ed è qui che il figlio fa una scoperta sconvolgente. Certo suo padre lo ha riconosciuto pur ridotto in questo stato; ma appunto perché lo ha riconosciuto, come mai lo bacia e lo abbraccia? Come mai non chiama i suoi servi per farlo cacciare via? Non è lui il figlio che ha rinnegato suo padre? Gli disse allora il figlio:”Padre, peccai contro il cielo e innanzi a te! Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio!”. E’ il discorsetto già preparato a memoria, che qui però è accorciato mancando dell’implorazione finale:“Fammi come uno dei tuoi servi!”.

Come mai? Forse il figlio non ha il coraggio necessario per implorare il posto di servo? Oppure questo gli viene impedito dagli abbracci e dai baci interminabili dell’effusione di bontà paterna? Ma l’implorazione non serve più. Sono parole vane, il padre non le avverte nemmeno, è troppo felice. Il padre non lo lascia neppure parlare: il suo amore precede il pentimento e la conversione! Il padre è molto diverso da come il figlio lo immaginava. Il vecchio padre, tutto concitato, rivolgendosi ai servi ordina la veste più bella, l’anello al dito, i calzari ai piedi sono segni dell’essere figlio, e il padre glieli offre prontamente. Ma non per dirgli che è di nuovo suo figlio, bensì che lo è sempre stato.

Fratelli e sorelle, questo quadro ci suggerisce una terza considerazione meditativa, e cioè che è il peccatore pentito che deve ritrovare la consapevolezza di essere figlio. Per Dio non ha mai cessato di esserlo. Ma ritorniamo alla parabola.

Il racconto poteva finire qui. Tuttavia la narrazione continua introducendo la figura del figlio maggiore: un figlio fedele, rimasto sempre in casa. In tal modo Gesù ha abilmente messo in scena i “mormoratori”. Infatti il figlio maggiore anziché godere della gioia del padre, questi ne prova irritazione: esattamente come gli scribi e i farisei che mormoravano contro Gesù. Costoro “i giusti”, sempre fedeli e sempre a servizio, sono sì dei credenti, ma non conoscono Dio. All’incontro non fu presente il figlio maggiore; quella perla di giovane, come al solito, stava al lavoro, e in quel pomeriggio si era recato nei campi più lontani dal casale per certe faccende a cui doveva badare.

Ritornò quindi assai tardi, quando il banchetto era inoltrato e quando le copiose libagioni avevano rafforzato le ugole al canto e i piedi alla danza. A sentire tutto quel frastuono, il giovane posato cadde dalle nuvole. Allora, chiamato uno dei garzoni, domandò che cosa fosse ciò. E quello gli disse:”E’ arrivato tuo fratello, e tuo padre fece ammazzare il vitello ingrassato perché lo riebbe sano e salvo”. Ma naturalmente il servo non si fermò qui, e cominciò ad informare l’interrogante su tutto il resto, descrivendo cioè come il fratello fosse giunto in uno stato tale che l’ultimo cane rognoso della fattoria a lui sembrava il sommo sacerdote di Gerusalemme.

Il figlio maggiore ne rimase sconvolto. Dunque, per quel giovinastro che era il danno e la vergogna della famiglia, il padre faceva tanta baldoria? Ma era impazzito anche il padre? Se però il vecchio era rimbecillito, il suo unico degno figlio, che era sempre stato con la testa a posto, non aveva nessuna intenzione di imitarlo. Si adirò e non voleva entrare. Ma suo padre, uscito fuori, si raccomandava a lui. Quello però rispondendo, disse al padre:”Ecco! Da tanto tempo ti faccio da servo, e giammai trasgredii un tuo comando, e a me giammai desti un capretto affinché con gli amici facessi festa! Quando invece venne cotesto tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, ammazzasti per lui il vitello ingrassato!”.

Il padre allora gli disse: “Figlio! Tu sempre stai con me, e tutte le cose mie sono tue. Ma far festa e rallegrarsi bisognava, perché cotesto tuo fratello era morto e rivisse, ed era perduto e fu ritrovato!”.

Il figlio maggiore non riesce a vedere la questione con gli occhi del padre. Rifiuta di partecipare alla festa per il fratello perduto e ritrovato, ritenendola un’ingiustizia, addirittura un torto fatto alla sua obbedienza e al suo lavoro, come se al padre queste cose non interessassero. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore, che egli non riconosce come fratello e chiama sempre “tuo figlio”, suscita in lui l’amara sensazione che la sua fatica sia tutto sprecata. In definitiva egli pensa: Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusti?. E’ a questo punto che si coglie quanto sia diverso l’atteggiamento del padre da quello del figlio maggiore. Questi si risente nei confronti del padre e non vuole entrare in casa; invece, il padre non si adira con lui, ma esce, gli va incontro, lo prega e lo chiama figlio mio. Il padre ama entrambi i figli. Ascolta le ragioni del figlio maggiore e le confuta: è un dialogo su cui Gesù indugia, ricordandoci che talvolta la conversione del giusto è più difficile di quella del peccatore.

Il padre cerca di far comprendere a questo suo figlio fedele, da sempre in casa e tuttavia così lontano da lui, tre cose: che non gli è stato tolto nulla di ciò che gli spetta; che ha potuto sempre godere della tranquilla sicurezza di stare col padre; e che il figlio ritornato non è un estraneo, ma un fratello. Lo stesso amore che ha spinto il padre a correre incontro al figlio minore, lo ha spinto poi a uscire e a pregare il figlio maggiore di non insistere nelle proprie rimostranze e di far festa insieme. Il padre vuole riunire i due fratelli, unendoli a sé e fra loro. Anzi, vuole che entrambi scoprano la sua paternità e la loro fraternità.

Tuttavia la situazione dei due figli è molto differente. Il minore è uscito di casa, mentre il maggiore è sempre rimasto. Nondimeno, ambedue sbagliano nel rapportarsi al padre come a un padrone: “Trattami come uno dei tuoi servi”, dice il minore; “Ecco, sono tanti anni che ti servo”, recrimina il maggiore.

L’insegnamento morale di questa seconda parte del racconto è tutto qui: come il padre è sempre il padre, così il fratello sia sempre il fratello. Fratelli e sorelle, nella prima parte la parabola ci ha insegnato la misericordia per il peccatore pentito, elargitagli da Dio che è il Padre; nella seconda parte poi ci insegna la necessità della misericordia per il peccatore pentito elargitagli anche dall’uomo che è suo fratello, e precisamente come conseguenza del perdono del Padre e in riconnessione con quel perdono amorevole.

Come possiamo osservare, questa seconda parte della parabola è dunque veramente la cupola di tutto l’edificio e il suo coronamento supremo. Forse certe esperienze della vita possono avere ostacolato il nostro rapporto con Dio e ci impediscono di accogliere il suo amore con entusiasmo. Ecco perché dobbiamo liberare i nostri cuori dalle ferite del passato, lasciando che l’amore di Dio compensi il divario sperimentato tra l’amore di cui avevamo bisogno e ciò che in realtà ottenevamo, dal momento che tutto era condizionato.

Dio Padre sana le ferite del passato; il suo amore riempie la nostra vita se noi ci lasciamo amare.

L’amore di Dio è meraviglioso! Ora che lo sappiamo ricorriamo a lui, chiediamo il suo aiuto ed egli ci aiuterà a superare ogni difficoltà. Perciò, prima di far funzionare l’intelligenza, facciamo lavorare il cuore.

Gesù ci ha raccontato la parabola proprio per dimostrarci in modo concreto come è grande l’amore e il perdono di Dio verso di noi. Quando Gesù parla del padre, egli pensa a Dio Padre. Nell’intimità della nostra casa rileggiamo il testo e quando si parla del padre, pensiamo a Dio, e quando si parla dei figli pensiamo a noi stessi.
Che faremo, concretamente, per mettere in pratica la parola che abbiamo udito e meditato?

Amen,alleluia, amen.