Libro di Isaia: Capitolo 2, 1-22

All’interno del libro di Isaia possiamo riconoscere alcune piccole collezioni di oracoli identificabili per linguaggio, tematiche, simboli, ritmi, che talora si riferiscono a momenti specifici della storia d’Israele.

Queste microcollezioni sono accostate l’una all’altra in maniera organica, anche se i singoli oracoli che le compongono sono di epoche diverse e io non sempre sono in grado di cogliere i criteri che hanno guidato questo lavoro redazionale.

Con questa riflessione affrontiamo la prima di queste piccole collezioni, che comprende i capp. da 2-5. Iniziamo col capitolo d’apertura.

In questo Isaia 2 che vi consiglio di leggere, possiamo individuare tre momenti:

  • vv. 1-5 visione di Sion come centro del regno escatologico;
  • vv. 6-21 teofania e giudizio di Dio;
  • v. 22 cerniera con i capitoli che seguono.

Che cosa li accomuna?

Vediamoli per il momento uno per uno.

I vv.1-5, che ritroviamo anche in Michea 4,1-3, costituiscono un poema magnifico e commovente. Esso ha paralleli all’interno del DeuteroIsaia e del TritoIsaia, che sono però più dilatati e meno vigorosi.

Immaginiamo allora di trovarci in pianura e di potere vedere carovane che convergono su Gerusalemme, che è collocata in collina. Si tratta in realtà di un’altura modesta, circa l’altezza delle colline iniziali dell’Appennino Tosco-Emiliano. Il senso di distanza prospettica che il profeta ha, guardando dal basso all’alto, si trasforma in una dimensione del tempo: quel tempo lontano e conclusivo delle tribolate vicende della storia che tutti aspettiamo in cui vi sarà solo pace. Una pace irreversibile, perché le armi diventeranno strumenti agricoli (v.4). Del resto anche nel nostro immaginario una meta lontana nello spazio diventa un termine lontano di tempo.

Centro del mondo verso cui convergono le nazioni, perché “casa del Dio di Giacobbe” (v.3) che vi dispensa la giustizia e afferma quindi la sua assoluta regalità, Sion è qui il contrario di Babel (torre di Babele. Là vi era una montagna artificiale in cui gli uomini non furono più in grado di capirsi, qui una piccola altura naturale che si consolida e si eleva al di sopra di tutte le catene che la circondano e da cui esce la parola decisiva della Torah del Signore (v.3), l’unica parola attorno alla quale gli uomini possono unirsi e pacificarsi.

L’oracolo, infatti, non riguarda solo gli ebrei.

Essi hanno invece il compito di aprire il grande pellegrinaggio di tutti verso la città santa. L’immagine è di vere e proprie fiumane di persone, le più diverse, il cui cammino è sollecitato da un invitatorio (l’imperativo “venite”, v.3), ripreso al v.5 per gli ebrei che però sono i primi a partire.

Isaia ripete spesso, infatti, la vocazione universalistica del popolo, eletto proprio per attirare dietro a sé tutte le nazioni verso la Torah e la salvezza.

Una piccola nota sulla traduzione del v.5 che in ebraico suona:

Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.

La “casa” è un “casato”, non solo un piccolo clan, ma un popolo, solidale nel tempo e nello spazio, investito da un compito universale.

Dalla decisione con cui sale verso Sion dipendono molte cose, perché questo pellegrinaggio è un vero e proprio esodo che il popolo di Dio deve compiere: comporta purificazione, accettazione della signoria di Dio, rifiuto dell’idolatria. Santificando se stesso, sarà in grado di comunicare la propria elezione a tutti gli altri popoli.

Il secondo momento (vv.6-21) si può datare all’inizio del ministero di Isaia, 740-736 a.c.

Tale oracolo presenta un intervento del Signore.

Apparentemente non ha niente a che vedere con quanto detto prima, ma anch’esso è rivolto alla “casa di Giacobbe” (v.6).

La presenza di questi termini ai vv.5-6 costituisce un primo legame redazionale tra testi che paiono così dissimili. Tutto il passo gioca poi su simboli a forte contrasto: l’opposizione “pieno/vuoto” e l’opposizione “alto/basso”.

La prima opposizione si avvale in un certo modo della poetica dell’inespresso: ossia si parla solo di quanto sovrabbonda e quindi del “pieno” (vv.6.7.8). Di fatto, abbondano però solo cose dalla falsa consistenza, “vuote” o “vacuità”, senza valore, che dicono tutto il “vuoto” del popolo, che si ritiene ricco e perciò al sicuro, mentre manca l’essenziale. Tematica e immagini sono molto incisive e attuali: all’abbondanza di ricchezze corrisponde l’abbondanza di pratiche magiche e di idolatria e, per contro, la totale assenza del Dio vivente nel cuore del popolo.

La seconda opposizione si diffonde più a lungo nel testo ed è più esplicita: il contrasto è tra l’umiliazione umana (vv.9.10.11.17.19.21) ambientata in luoghi angusti, bassi, nascosti (grotte, crepacci, polvere), e l’altezza di Dio (vv.10.19.21).

Ambedue i campi simbolici significano l’assoluta trascendenza divina: la vacuità umiliata dell’uomo e la grandezza sublime di Dio sono a fronte in una sorta di giudizio dal quale l’uomo non può che uscire perdente e del quale deve in ogni modo accettare la correzione e il richiamo.

In quel giorno, che richiama la fine dei giorni con cui si apriva la visione iniziale, la signoria divina sarà assoluta. Purtroppo la traduzione non consente di cogliere tutta la ricchezza di ritmi e suoni della poesia di Isaia, come pure di cogliere le assonanze e i termini ricorrenti che, appunto, legano un momento all’altro.

Appena appena si può accennare agli elementi che anche in italiano si possono vedere. La costruzione del testo è articolata e raffinatissima e ha un obiettivo: mostrare come l’uomo si riempia di cose e conoscenze esoteriche per innalzarsi su se stesso, sulle situazioni e su Dio stesso, e ottenga invece l’effetto contrario.

Il testo accenna all’inizio agli elementi con cui l’uomo si dà potere:

  • v. 6 esoterismo sotto pretesto di dominare il presente e il futuro;
  • v. 7 potere economico;
  • v. 7 potere militare;
  • v. 8 divinità fatte su misura.

L’idolatria con le sue facce diverse, inquadra tutto.

Tutto è in ogni caso fallace, perché la signoria di Dio dirà l’ultima parola su tutto, come viene affermato ai vv.11 e 17. Sugli stessi elementi che sfolgoravano nel primo movimento del testo: l’argento e l’oro degli idoli, o: che sono idoli (v.20).

Questo capitolo ci presenta perciò le tematiche che stanno in cuore al profeta e alla sua scuola: Gerusalemme, come luogo di salvezza universale; Dio sovrano assoluto; la necessità di rigettare gli idoli per tornare a lui e alla sua Torah.

Al di là di questo non esistono progetti di potenza, economica o politica o come sia, che possano permanere.

Vediamo ora l’ultimo versetto (22) che fa da cerniera con il capitolo successivo. Esso da un parte suggella definitivamente la fallacia dell’uomo e delle sue risorse, chiudendo il sistema di contrasti che abbiamo appena vista, dall’altra li riapre sotto un’altra angolatura:

cap. 2,22 smettete di confidare nell’uomo che ha appena un soffio nelle narici. Giacché (Ki): a che vale?

Cap.3,1 Giacché (ki): ecco, il Signore Ha-Shem seba’ot. Allontana da Gerusalemme e da Giud, bastone e sostegno, ogni sostegno di pane, ogni sostegno d’acqua.

C’è ancora un contrasto che pervade l’intero capitolo ed è quello tra la luce e la tenebra.

Luce di Gerusalemme verso cui i popoli camminano; luce del Signore verso il quale ed entro la quale procede questo pellegrinaggio; luce della grandezza di Dio e del suo giudizio, nei confronti della quale l’uomo non riesce a far altro che a nascondersi: in grotte, crepacci, sottoterra, quasi si potesse sfuggire allo splendore divino.

Il profeta ci pone di fronte ad un caso davvero serio: si può evadere dalla presenza del Signore in qualche modo? Si può evadere dalla responsabilità concreta dell’andare verso di lui, sapendo che gli altri popoli, come dirà Zaccaria, aspettano di attaccarsi al nostro mantello per salire al monte del Signore?

Il testo, sotto questo profilo, è missionario.

Perché missione non significa necessariamente partire verso paesi lontani. Essa è prima di tutto coraggio di lasciarsi illuminare dallo splendore divino per essere giudicati e riconoscere la propria idolatria.

E poi partire verso il Dio del Roveto, del Sinai, di Gesù Cristo, altrimenti non vale partire verso altri luoghi.

Libro di Isaia – Indice: