Libro di Isaia: Capitolo 11,10-16 al 12,1-6

I due testi in oggetto sono tardivi e nati in epoche diverse, ma in qualche modo legati tra loro, almeno dal punto di vista redazionale. Quasi certamente non appartengono al ProtoIsaia, anche se il primo di loro potrebbe essere attribuito, secondo qualche studioso, all’ultimo periodo dell’insegnamento del profeta (701 a.C.).

In Isaia 11.-10-16 si descrive dunque il ritorno dall’esilio; in Isaia 12, 1-6 ha la struttura di un salmo in cui si possono identificare due strofe: è un testo che forse ci suona familiare perché compare varie volte nella liturgia romana, in particolare è cantato la notte di Pasqua. La tradizione vi riconosce, infatti, dei riferimenti battesimali.

Vediamo ora i diversi frammenti uno per uno.

Isaia 11, 10.11 ci rimanda ad un futuro che pare lontano, a “quel giorno” del Signore che solo Egli conosce e in cui si manifesterà per un atto salvifico, che l’insegnamento profetico associa spesso al giudizio. Isaia in realtà vuole, da una parte, dare quest’indicazione annunciando il ritorno degli esiliati da babilonia, che sarà guidato, come da uno stendardo militare, dalla radice di Jesse, ossia dalla dinastia di David. Il fatto politico è visto però in una più ampia chiave messianica, perché la fine dell’esilio in sé non può esaurire tutta l’ampiezza della salvezza divina.

Come affermare che se l’Emmanuele storico, ossia il principe di cui abbiamo già letto e parlato, non compie in maniera finita queste promesse, neppure i condottieri che vengono dopo di lui saranno questo compimento.

Tutto è rimandato a più avanti, a “quel giorno”, e a modi ancora non conosciuti, tranne che nella continuità della stirpe davidica, come assicura che il profeta parla di “radice” e non di “germoglio”.

La radice, che porta il tronco e i rami, è la garanzia della continuità, ma di una continuità sotterranea, non evidente, come avveniva per le acque di Siloe.

E’ una realtà in cui credere e sperare, dato che non sta sotto gli occhi di tutti, ma che è in ogni modo più salda di quanto si possa pensare.

Questa radice/stendardo sarà alla testa di un pellegrinaggio dei popoli verso la città santa (11,10.12), analogo a quello che avevamo visto in Is.2,2-3.

Sarà questo l’inizio di un nuovo esodo del popolo di Dio, disseminato in mezzo ai suoi nemici storici, ai quattro venti.

Di certo sappiamo che molti giudei erano davvero riparati in Egitto dopo la conquista babilonese di Gerusalemme, talché, nel suo ultimo esito, avevano vissuto più una diaspora (dispersione) che non un esilio/deportazione.

Ma proprio questo essere sparsi ai quattro venti o ai “quattro angoli della terra” (v.12) segna per il DeuteroIsaia il compito missionario del popolo di Dio che, con il proprio ritorno, deve trascinare dietro a sé i suoi propri nemici. Anzi, il profeta auspica che si torni ad una monarchia unificata, come al tempo di David e Salomone.

Nella sua ultima parte il testo descrive questo ritorno come una marcia trionfale attraverso mari e fiumi resi asciutti dalla “mano” di Dio.

Il linguaggio risente fortemente del lessico dell’Esodo e presenta anche giochi di parole, specie quello tra il termine “canali” (ne halìm) e sandali” (ne’alìm) , che rendono il testo molto vivace ed evocativo di quel cammino.

D’altra parte il tema della strada e del secondo esodo, con miracoli più grandi del primo, tanto che si tratta di un pellegrinaggio appunto o di una marcia trionfale e non già della fuga di un gruppo di schiavi, è tipico del DeuteroIsaia.

I sette canali in cui è diviso l’Eufrate dicono una molteplicità indefinita, un miracolo fuori misura. Si va quindi oltre il fatto puro e semplice del ristabilimento della dinastia davidica (cosa che, per altro, storicamente non avvenne); piuttosto si legge l’esperienza della fine dell’esilio attualizzando l’antica tradizione dell’Esodo e rilanciandola verso un futuro messianico.

Vediamo quindi un esempio di come la Scrittura ri-legga sempre se stessa collocando ogni avvenimento tra memoria e speranza, senza svuotarlo della sua importanza diretta e immediata.

In cantico di Is.12 è la risposta alla visione gloriosa che precede e ricapitola molti dei temi, delle immagini e del lessico dei capitoli precedenti.

Notiamo per esempio la presenza del termine “collera” (12,1, due volte) che compare anche in Is.9,11.16.21; l’insistenza sul termine “salvezza” (12,2, due volte, e 3) che forma un gioco di parole con il nome stesso del profeta, che significa appunto “il Signore salva” (ye su’ah/ Ye sa’yah); e ancora il fatto che più volte ci siano espressioni di confidenza, fede, assenza di timore; infine l’immagine dell’acqua che ci riporta alle acque di Siloe di Is.8,6.

E’ anzi probabile che il testo si riferisca alla processione dell’acqua che proprio dalla fonte di Siloe si faceva sino all’atrio del tempio durante la festa delle capanne.

Ma il testo insiste ancora sulla gioia (v.3.6) e sulle prodezze divine (v.4).

Potremmo individuare due strofe con le seguenti caratteristiche:

vv.1-3 Invitatorio: e quel giorno tu dirai:

proclamazione della salvezza divina,
probabilmente canta un solista/profeta che ripete tre volte il termine “salvezza”.

vv.4-6 Invitatorio: e quel giorno voi direte:

proclamazione del Nome divino: il Santo,
il solista/profeta si rivolge a tutta la comunità con sette imperativi (rendete grazie, gridate, fate conoscere, ricordate, cantate, si renda noto, rallegrati, gioisci) oltre l’invitatorio iniziale.

La struttura è equilibrata e simmetrica, perciò è più facile pensare a questi versetti come a due strofe di uno stesso carme che non come due carmi giustapposti.

Resta per alcuni il problema del passaggio dei pronomi dal “tu” al “voi”, ma potremmo dire che si tratta di un falso problema: accade spesso infatti nella poesia ebraica che si intersechino i piani del singolare e del plurale. Uno canta in nome di tutti e si sente un “noi; o, al contrario, un’intera assemblea prega come un sol uomo sentendosi un “io”. Nel nostro caso, Sion, cui si rivolge chi canta, è intesa come assemblea nelle due dimensioni del singolare e del plurale, senza rompere l’unità della composizione.

Notiamo infine l’insistenza su “quel giorno”, la data remota che permette di stabilire un legame tra questo piccolo capitolo e la fine del ca. 11 che abbiamo analizzato sopra. Anche se questi versetti sono stati pensati e scritti in epoche diverse, appaiono adesso come un’unità redazionale: all’annuncio della salvezza di Is.11,10-16 risponde questo inno che riconosce il Dio della salvezza e gli rende grazie in una celebrazione liturgica quale potrebbe essere la processione delle acque.

Merita un po’ della nostra attenzione il v.2b:

Perché mia forza e mio canto YHWH (= Adonaj):
egli è stato la mia salvezza.

A parte il gioco di parole tra la parola “salvezza” e il nome del profeta, di cui abbiamo già parlato, vale la pena ricordare che questo versetto è messo in bocca a Mosè (altro salvato e salvatore dalle acque!) in Es.15,2, dopo la traversata del Mare dei Giunchi.

Da questa ripetizione a distanza possiamo trarre almeno tre conseguenze.

La prima è che per gli antichi la poesia era in gran parte formulare, ossia prevedeva che l’ispirazione del singolo poeta attingesse a repertori di versetti fissi, magari riferiti ad esperienze simili, ma che uno poteva imparare a memoria e utilizzare al momento, per ovviare ad un’incertezza metrica o stilistica.

La seconda è che in ogni caso esisteva un continuo esercizio di memoria verso il passato proprio e del popolo e quindi una continua rilettura dei testi più antichi alla luce degli avvenimenti in corso o previsti.

La terza, che ci riguarda più direttamente, è che questa ripetizione a distanza rafforza la lettura pasquale e battesimale di questo testo di Isaia. La notte di pasqua infatti noi cantiamo sia Es.15 sia questo Is.12. Forse non abbiamo mai fatto caso che erano legati da questa ripetizione. Ora che lo sappiamo, proviamo a pensarli l’uno sullo sfondo dell’altro.

Possiamo ancora aggiungere che, se Is.11 ci ha presentato il ritorno dall’esilio come nuovo esodo e Is.12 acclama a tale liberazione con le parole del canto del Mare, davvero l’esperienza dell’uscita dall’Egitto appare ed è una sorta di codice genetico dell’A.T. E’ pertanto una chiave di lettura privilegiata delle Scritture che occorre tenere costantemente presente, perché è come in controluce a tutte le pagine della Bibbia.

I profeti poi tendono a presentare la salvezza divina come sempre nell’atto di superare se stessa, anche se il popolo avverte dell’opera di Dio soprattutto l’aspetto della correzione.

Quando però la correzione finisce, allora si scopre che Dio ha compiuto qualcosa di più grande rispetto a quanto era noto dal passato e alle stesse aspettative del presente. Diventa così una

necessità raccordare sempre quello che le passate generazioni hanno vissuto e di cui c’è memoria (l’esodo) con l’accadimento presente (la fine dell’esilio e della diaspora) e, costatando il superamento, tenersi aperti alla speranza per una salvezza di grandezza indefinita (i sette canali di Is.11,15) cui rispondere con una lode senza fine ( i sette imperativi di Is.12,4-6).

Dio è, infatti, forza e canto del suo popolo ovvero è, ad un tempo, la salvezza di Sion e la sola risposta di lode che Sion gli può innalzare, adeguata a tale salvezza, con la proclamazione del suo Nome.

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