Libro di Isaia: Capitolo 40, 1-31

Il testo che meditiamo non è più l’Isaia storico, che abbiamo letto fino ad oggi, con una certa discontinuità. Si tratta di un Anonimo che gli studiosi chiamano DeuteroIsaia e che riprende temi e motivi dell’insegnamento del Profeta, ma segna soprattutto una seconda fase della storia, in continuità con Isaia. Isaia, infatti, ci aveva lasciati sulla soglia dell’esilio e della dispersione del popolo, questi sulla soglia del ritorno. La sua predicazione si colloca, infatti, tra il 550 e il 539 a.C., anni in cui cresce e si afferma sulla scena politica del V.O.A. la potenza persiana, grazie a Ciro il Grande che, dopo una serie di campagne militari tese a consolidare il proprio potere all’interno, ne intraprende una vittoriosa contro Babilonia (539). Israele vede così la fine dell’esilio e della diaspora in cui si trovava dal 587.

Gli anni vissuti tra il 587 e il 538 sono stati vissuti dal popolo come una morte, tanto che Babilonia diverrà nell’immaginario e nel linguaggio d’Israele il simbolo del potere demoniaco del male, come è attestato nelle Scritture sino all’Apocalisse. Ora invece siamo di fronte alla resurrezione assolutamente insperata, al ritorno che il DeuteroIsaia vede attuato dal Dio di Israele attraverso un re pagano, Ciro appunto, servo del Signore senza saperlo. Il ritorno altro non è che un secondo esodo, notevolmente più grande e straordinario del primo, che ha per meta Gerusalemme e per esito la ricostruzione del tempio, visti come il centro di un regno di Dio senza confini, universale, cui tutti i popoli accederanno.

Nell’insegnamento del Deutero Isaia possiamo distinguere così, anche se non in maniera troppo netta, due fasi:

  1. 40-48 prima fase: contro quattro deviazioni del
    popolo:

    • scoraggiamento,
    • sfrontatezza,
    • il fatto di vedere un liberatore pagano come scandaloso,
    • la tentazione dell’idolatria babilonese con la conseguente
      polemica contro gli idoli.
  2. 49-55 seconda fase: il cambiamento e le sue
    caratteristiche:

    • sarà spettacolare,
    • vedrà la restaurazione di Sion,
    • vedrà la conversione delle nazioni.

I vv.1-11 del nostro capitolo ci presentano vocazione (vv.3-8) e missione (vv.1-2; 9-11) dell’anonimo Profeta. Il tutto è presentato in un dialogo tra una voce fuori campo e la voce del profeta stesso. La voce fuori campo è nel tempio e dal tempio grida, come già era avvenuto per la vocazione di Isaia (6,3). Dopo avere lasciato la città e il santuario per accompagnare Israele in esilio, secondo la descrizione di Ez. 10, Dio sta per tornare a Gerusalemme alla testa del suo popolo; è perciò necessario preparare una strada nel deserto, perché sta per iniziare il nuovo esodo, grazie al quale ogni carne vedrà la gloria di Dio (v.5). Il tema del nuovo esodo, centrale per il DeuteroIsaia, è così incastonato tra gli altri elementi che gli stanno in cuore: la gloria di Dio che si riafferma e la sua epifania universale.

Se andassimo a rileggere Is.6 potremmo notare una continuità tematica tra la vocazione del Primo Profeta e quella del Secondo che possiamo davvero considerare un allievo, almeno in senso lato. Del resto, come il ProtoIsaia aveva obiettato circa la sua indegnità, anche il DeuteroIsaia obietta sulla propria:

6. Una voce dice: Grida. Dico: che cosa griderò? Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua lealtà come un fiore di campo.

7. Secca l’erba, appassisce il fiore quando il vento del Signore soffia su di loro. E’ vero: il popolo è come l’erba.

8. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio si compie sempre.

La risposta della voce che proviene dal tempio è chiara: il popolo è fragile sino all’indegnità, il profeta stesso è inadeguato, ma è la parola di Dio che (yaqUm) “si alza”, “sta salda”, “si compie”. Ritroveremo una forte affermazione dell’efficacia della parola di Dio, con cui si aprono questi capitoli del DeuteroIsaia, alla fine del suo insegnamento (55,10-11).

La voce però non parla solo al Profeta: ai vv.1-2 e 9-11 si rivolge alle sentinelle della città, perché annuncino la buona notizia che è al centro della missione di lui e riguarda gli esiliati e la stessa città. Si tratta di un vero e proprio evangelo: un lieto annuncio di pasqua che al v.9 è dato da una donna (m ebasseret Son), così come la sorella di Mosè aveva cantato il passaggio del mare. In questo clima di nuovo esodo, nuova pasqua, nuova alleanza dobbiamo inquadrare tutto l’insegnamento del DeuteroIsaia. Merita però vedere da vicino che cosa annunci l’Aralda di Sion.

L’annuncio è ritmato da un triplice hinné “ecco” (vv.9d-10):

Ecco il vostro Dio.
Ecco: il Signore Dio viene con Potenza…
Ecco: viene con lui il suo salario..

Questa ripetizione è la presenza simultanea di quanto è annunciato, come si indicasse con la mano: Colui che viene è il pastore del suo popolo, il, pastore buono che ha già avuto come salario le sue pecore che, pertanto, non potranno più essergli sottratte. L’immagine del pastore può essere letta a più livelli all’interno dell’A.T.: da Giacobbe a David. Ogni pastore è in ogni modo cifra della sollecitudine divina.

A questa buona notizia fa seguito una prima polemica. E’ la polemica contro gli idoli (vv.12-26). Essa è strutturata come una sorta di processo, irto di domande retoriche da cui si vuole far emergere che il Dio di Israele è incomparabile. Se una liberazione c’è, non è perché divinità di altre nazioni abbiano sconfitto gli dei di Babilonia, ma perché il Dio d’Israele, attraverso il pagano Ciro, reso inconsapevolmente suo servo, ha sconfitto gli dei inesistenti della grande nemica. Dio intenta un processo contraddittorio in più tempi.

In un primo tempo il testo ci offre delle argomentazioni, per così dire, positive, come la creazione e il controllo che il Signore esercita su di lei (vv.12-14). Questo argomento è seguito dall’evocazione di ciò che abita la terra, nazioni, isole, animali, e dal controllo esercitato su di lui (vv.15-17). Il secondo è invece un momento di aspra polemica contro le immagini (v.18ss). Infine si torna al tema della creazione e dell’universo (vv.21-26). Colui che è stato come un solitario artefice dell’universo, misurando tutto a palme e manciate (v.12), cui nessuno ha detto (né lo poteva) che cosa dovesse fare, e di fronte al quale i poteri della terra sono entità trascurabili non ha termini di confronto.

Tanto meno possono essere messi al suo livello dei prodotti di buon artigianato. Il testo tende ad esaltare la disparità del paragone tra il Signore e gli idoli, con una polemica feroce. Si crede a quel che si vede e Israele ha visto vincere Babilonia che ha, a sua volta, divinità visibilissime, in apparenza, non solo attraverso i fatti, ma anche perché se ne vedono statue in processione.

E’ facile associare sconfitta-esilio-invisibilità di Dio con la sua sconfitta-sua incapacità di soccorrere il popolo. La polemica del profeta invita invece ad alzare gli occhi oltre la storia (v.26), a credere che l’invisibile è comunque incomparabile. Proprio perché invisibile infatti, Dio è non contenuto da forme decise dall’uomo, perciò è libero e onnipotente nei suoi progetti e nelle sue azioni.

La polemica è ritmata da una specie di ritornello: a chi paragonerete Dio (v.18) e, a chi mi potete comparare (v.25) in cui il testo mostra un avvicinamento progressivo con il passaggio dall’uso della terza persona all’uso della prima. Il fatto che questo ritornello sia alla forma interrogativa, da una parte alleggerisce le autopresentazioni divine che già conosciamo (“Io sono il Signore”, per esempio) dall’altra conferisce al testo una forte tensione drammatica. Nessuno infatti può fare confronti.

Ma nessuno ha, al tempo stesso il coraggio di rispondere. Dio vince il suo processo perché alle sue domande può rispondere solo un imbarazzato silenzio. Silenzio, per altro, gravido di sorprese, perché a questa prima polemica ne segue una seconda. Essa riguarda il popolo. Il quale pare del tutto dimentico del passato salvifico che gli è stato trasmesso dalla narrazione dei padri (v.28).

Il popolo è stanco di aspettare e sperare perché convinto che il Signore si sia stancato di lui e non speri più nulla da lui (v.27). Questo duplice oblio induce a guardare alla storia come ad un luogo senza speranze, in cui possono sopravvivere forse le nostalgie di un passato felice, ma non una speranza sulla quale innervare il futuro.

La risposta rimanda ancora una volta ai confini della creazione per affermare che se il popolo si stanca, instancabile è il Signore. L’immagine dell’aquila con cui si chiude il capitolo, rimanda infatti alla liberazione dall’Egitto, allorché Dio ricondusse il suo popolo su ali d’aquila (Dt.32,11), ma, soprattutto contrasta con l’immagine del popolo-erba che avevamo visto al v.7. In questo nuovo esodo, Dio si farà carico dei deboli, ma costoro diverranno come aquile a loro volta, ritrovando la speranza della ricostruzione.

Questo capitolo ci pone indubbiamente molti problemi, e specialmente in questo secolo che qualcuno ha chiamato “breve”, perché lo ha visto finire anticipatamente con la fine dei conflitti europei nel 1989; ma che gli ultimi avvenimenti nei Balcani e poi nel terzo millennio in MedioOriente, Afghanistan, Iraq, hanno smentito subito come tale.

Il 20° secolo e l’inizio del 21° è piuttosto il secolo della violenza, specialmente nei confronti di Israele, che ha sperimentato un esilio/strage da cui non c’è ritorno. Non è solo questione di numeri, ma anche di qualità dello sterminio.

Per altro questa possibilità di mettere un popolo nella condizione di non-ritorno ha fatto scuola ai carnefici di oggi che applicano oramai metodi consolidati, semmai perfezionandoli.

In altre parole: si può ancora annunciare il lieto annunzio a Sion e in che termini? Noi cattolici latini siamo soliti leggere questo capitolo di Isaia all’inizio dell’Avvento, ma per lo più, in una chiave cristologia semplificata e senza conoscere tutte le implicazioni storiche che esso comporta. Senza tenere conto, soprattutto, della tragicità dell’esilio di Babilonia che, per altro, ha avuto una fine e una fine lieta, nonostante le difficoltà del ritorno. Tuttavia il testo ci interpella invece sul senso della incomparabilità di Dio e sulla speranza, Ci interpella sul senso stesso dell’evangelo come “lieto annunzio” della novità che il Signore immette nella storia, senza cancellare il fatto che questa novità avviene a caro prezzo.

Non a caso il centro di gravità del testo è il v.8, nell’affermazione e nella confessione cioè di una parola divina che sta/si compie sempre. E’ solo rifacendosi ad essa in termini di memoria e di profezia, intesa come lettura della storia dalla parte di Dio, che potremo sempre riconoscere colei che annunzia una buona notizia per Sion. La nostra speranza, in questo senso, confina con la nostra pazienza e con la nostra perseveranza nei confronti dell’Unico Invisibile.

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