Libro di Isaia: Capitolo 32, 1-20 al 33, 1-24


Stiamo procedendo a tappe un po’ forzate in verità, verso la conclusione del ProtoIsaia. In questi capitoli finali (28-39), a parte qualche oracolo che appartiene al DeuteroIsaia, come c’è già capitato di incontrare, il Profeta ci pone di fronte alla salvezza di Gerusalemme in termini che a noi sembrano paradossali, ma che ben riflettono invece la sua visione teopolitica, che abbiamo già avuto modo di incontrare e meditare precedentemente.

E’ Dio e nessun altro il protagonista vero della storia: noi non siamo che comprimari, importanti quanto si vuole, ma non abbastanza da deviare il corso della storia rispetto a quanto egli ha progettato di compiere. Ciò che intende compiere, poi, è la salvezza di Gerusalemme e del proprio popolo, anche con armi imprevedibili, come l’invasione assira, descritta al cap.29, che ha la tremenda funzione di correggere e purificare il popolo per indurlo a tornare al suo Signore, affinché riconosca in lui il suo autentico alleato e sostegno.

In questa visuale, la politica da condurre e che Isaia ha in mente, è totalmente aliena da opportunismi o pragmatismi: a noi può sembrare francamente irrealistica e anche un po’ fondamentalista. Dobbiamo ricordare però che dal punto di vista del mondo antico cercare alleanze con altre potenze, anche se per difendersi e contrastare un nemico era allearsi con le loro divinità, e quindi sempre un rischio di idolatria. Mentre il recupero della totale fedeltà religiosa sarebbe stato l’autentico rimedio.

I capitoli che mediteremo (32-33) presentano un alternarsi di visioni di restaurazione della città santa e del regno, assieme a duri oracoli contro la corruzione sino alla distruzione di tutto, che non possono non suonare ai nostri occhi particolarmente attuali. Il capitolo 32 si apre con la visione di un regno sul quale domina un re capace di custodire la giustizia (vv.1-8). Il linguaggio del testo non rimanda al tempo ultimo, ma presenta la visione di questo regno come presente (“Ecco”, hen, v.1). Il suo re e i suoi governanti fondano la giustizia sul fatto di essere persone informate e assennate, capaci di assegnare il nome giusto alle persone e alle situazioni (pensiamo a quanti equivoci si creano in politica per informazione distorta, incapacità di leggere uomini e situazioni, perversione del linguaggio). Un immagine di governo quindi che ci riporta al modello di David e Salomone.

Per contro, a tale immagine segue una tirata contro le donne frivole, come già abbiamo visto al cap.3 (vv.18-26) o come si legge nel profeta Amos (4,1-3), certamente non indulgente con i ricchi e con le signore troppo attente alla moda e all’eleganza. Qui (vv.9-14) il motivo di rimprovero è l’eccessiva fiducia che sempre nutrono i ricchi nelle loro risorse e quindi nella possibilità di gestire il presente e il futuro. In realtà, persino un lasso di tempo come “un anno e un po’ di giorni” (v.10) è un’eternità incontrollabile per chiunque, dato che nessuno di noi, di fatto, è sicuro di una sola ora della propria vita.

Nessuna disponibilità di beni è una garanzia, come non lo sono le fortificazioni della capitale (v.14) e, ancora una volta, chi non sa individuare dove vada realmente posta la fiducia, si troverà davanti ad un duro rovesciamento di situazione. Tanto che le signore eleganti e sicure di sé saranno costrette ad un rito di lutto (denudarsi il petto e vestire una gonna di saio, v.11). Tuttavia neppure tale desolazione è permanente, nonostante che al v.14 si dica “per sempre”. La gran rovina si cambierà, a sua volta, in restaurazione del paesaggio naturale (v.15) e sociale (vv.16-17), restaurazione che sarà anch’essa “per sempre” (v.17).

In questo nuovo quadro della realtà del paese non compaiono più la dimensione del lusso, che confina con la dissolutezza ( la “città gaudente” del v.13) né quella della falsa sicurezza che proviene dall’abbondanza di risorse. Il volto della terra è ora un paesaggio tranquillo e operoso, un mondo pacificato, reso vivo dall’alito che si effonde dall’alto, ossia da un clima favorevole, che garantisce piogge regolari e quindi una vita prospera, ma che è, in prima istanza, dono di Dio, che regola i venti, le piogge, la rugiada.

L’eccessiva fiducia nei beni è, infatti, agli occhi di Isaia, una forma di idolatria, non meno delle alleanze politiche con le potenze straniere, idolatria dalla quale si sarà corretti con un rovescio politico, mentre la ricostruzione avrà come primo effetto quello di una vita sobria in cui non esisteranno sfruttamento né delle risorse né delle persone.

Il profeta non perde dunque l’occasione di presentare quale sia il modello di vita che egli considera conforme ad uno stile di fedeltà a Dio. Il suo discorso politico è molto concreto, perché la fedeltà a Dio è quotidiana, anzi, feriale. Comporta un governo oculato e giusto, qual è evocato all’inizio del capitolo, e poi una vita rispettosa degli uomini e delle cose, in obbedienza ai ritmi che Dio stesso dà alla creazione e in obbedienza all’alleanza con lui. In questo senso abbiamo davanti un discorso estremamente attuale, che non ha nulla di moralistico.

Dal punto di vista di Isaia si tratta solo di riconoscere all’interno della storia chi sia Colui che davvero ha in mano le sorti di tutto, ma nella dimensione del presente, di quel “ecco”, con cui si apre il nostro capitolo.

Il cap.33 ci rimanda da questa dimensione di quotidianità ad un orizzonte più vasto, che confina da vicino con quello del tempo del giudizio ultimo, anche se il testo si mantiene entro i limiti storici abbastanza identificabili. L’invasore/devastatore, infatti, che il Signore stesso ha permesso per correggere il suo popolo è a sua volta devastato, quando il suo compito sia compiuto (33,1). Nessun potere è eterno: vediamo bene anche noi ( e i salmi tornano spesso su quest’idea) come chi in certi momenti pareva invincibile e irrefrenabile, è durato, di fatto, quanto un breve momento.

Il testo ci pone così davanti ad un riconoscimento in forma di supplica (v.2) di questa realtà: il popolo ha visto l’accorrere del nemico ed il suo accalcarsi per fare bottino, ma lo ha anche visto disperdere. Ciò è accaduto di mattino, assimilando il momento della sconfitta alla tenebra e quello della salvezza al sorgere della luce. Si passa così ad una sorta di confessione della potenza divina (v.5) che può ristabilire a Gerusalemme la giustizia e, nella città un tempo piena di indovini, la sapienza. Tuttavia è ancora vivo il ricordo del tempo della distretta (vv.7-9), quando il re Ezechia aveva inviato i suoi plenipotenziari per chiedere la pace ed evitare la disfatta. Costoro erano tornati descrivendo la desolazione del paese: le vie di comunicazione interrotte (v.7) e tutta la zona desertificata dal passaggio degli invasori.

Il nemico, al contrario, ha imposto delle condizioni inaccettabili e il re di Gerusalemme ha rotto definitivamente alleanza e trattative, sino alla rovina definitiva. E’ questo il momento in cui Dio emette il suo giudizio (vv.10-16), ed è un giudizio che pare coinvolgere tutti: gli abitanti di Sion (v.14), ma anche i vicini (forse il regno d’Israele) e i lontani, ovvero gli stranieri. Il giudizio è emesso in maniera violenta e diffusiva come un incendio che si propaga da Sion, come dal centro, verso i confini estremi. E’ proprio il giudizio ad introdurre nel clima della quotidianità che abbiamo visto sopra il senso delle cose e dei tempi ultimi.

Esso si articola su alcuni criteri che fanno parte della cosiddetta “liturgia della porta” (v.15): ritratta delle condizioni che un pellegrino leggeva sugli stipiti del santuario o che gli erano recitate dai sacerdoti allorché saliva al tempio, condizioni che era tenuto ad osservare per essere ammesso al tempio stesso e al culto. Elenchi analoghi a quello del v.15 compaiono in altri testi profetici, nei salmi 15 e 24, ma sono presenti soprattutto nella letteratura egiziana

Si noti però che non si tratta di precetti formali, bensì di regole di morale sociale che, in questa redazione di Isaia, coinvolgono l’uomo tutto intero corporalmente. I piedi, nel suo procedere nella vita; la bocca, con il suo parlare; le mani, non sporcate da doni di corruzione (noi diremmo “tangenti”); le orecchie, non contaminate ascoltando proposte omicide; gli occhi, alieni dal guardare il male.

Per altro anche quando erano presenti precetti formali ( e questo era vero all’epoca di Gesù per esempio, allorché c’erano regole che riguardavano, per chi si recava al tempio, l’abito, le calzature, il fatto di non portare denari, né bastone ecc.) essi erano considerati comunque simbolici di una forte decisione interiore del pellegrino, che intendeva esprimere con il bagno rituale, l’abito, e simili cose, la volontà di una profonda conversione.

Dovremmo tenere presente questa liturgia della porta sempre nel contesto del pellegrinaggio. Non si tratta, infatti, di un semplice viaggio (anche se può essere oggi un viaggio gradevole), ma di un forte gesto simbolico, un vero e proprio esodo-da-sé per volgersi a Dio con un itinerario di conversione. Come si può notare il Signore è comunque sempre il protagonista, in ogni e singolo momento della storia, e il movimento della conversione umana, come pure la forza di essa, consiste nel riconoscerlo.

Il capitolo si chiude con una commovente visione decisamente proiettata nel futuro della restaurazione di Gerusalemme. Si tratta di una sezione un po’ tribolata, come potete vedere dalla numerazione dei versetti, oggetto di parecchie congetture da parte degli studiosi e, a volte, di differenze di traduzione abbastanza vistose. Ritorna comunque l’immagine del re (v.17) con la quale si era aperto il cap.32, creando così una connessione tra queste serie di oracoli, che sembrano organizzati in maniera concentrica, mentre spariscono gli esattori della potenza occupante, quelli che parlavano e imponevano una lingua diversa, strana, impronunciabile. Con bell’espediente retorico, la loro scomparsa è denunciata da un interrogativo senza risposta (v.18), che lascia in chi ascolta il testo il senso di sospensione che lascia lo stupore: tutto si è dileguato senza che si sappia il come.

Al contrario Sion è restaurata non già come luogo della potenza politica e militare, bensì come la “città delle nostre solennità” (v.20), ovvero come luogo in cui il tempo è scandito dalla celebrazione, il cui calendario è liturgico, come in una nuova creazione armonica in cui il popolo è chiamato soprattutto ad essere sacerdote del Dio vivente. Questa Gerusalemme, costruita, di fatto, su di un arido sperone di roccia, ha soppiantato le città dei fiumi e dei canali, come Babilonia o Tebe, divenendo una tenda piantata in un’oasi di acque abbondanti e tranquille, una sorta di paradiso terrestre (ricordiamo che il primo giardino il gan b’eden di Genesi 2,8ss era circondato da quattro bracci di fiume).

Al centro di questa visione sta la sua doppia motivazione introdotta da due “perché” (vv.21.22, ki), che ci dà il significato di tutto questo alternarsi tra rovina e ricostruzione, o, per meglio dire, di quale sia il tempo della correzione e quello della rinascita. Come abbiamo già visto, è volontà del profeta porre sulla bocca del popolo una confessione forte di fede nel Dio d’Israele, Signore della storia e del tempo. Egli è identificato dal Nome rivelato nel Roveto, accompagnato da quattro titoli (v.22) che riassumono la totalità dei poteri. La serie dei quattro titoli del v.22 trova il suo sigillo in “salvatore nostro”, che riecheggia in ebraico, il nome del profeta.

Ha perciò valore conclusivo, ma anche legittimante della visione geopolitica di Isaia. Di fatto, però “salvatore” è un titolo che travalica i semplici poteri amministrativi e difensivi esercitati da generali, giudici, amministratori e dallo stesso re: nessuno di costoro, infatti, per quanto efficiente, onesto e quant’altro, può assicurare “salvezza”. E’ solo il Signore che può darla, al di là delle dinastie promesse e legittime. Certamente potrà sembrare a noi una visione politica integralista, ma non dobbiamo valutare il pensiero antico con le categorie moderne. Dobbiamo invece cogliere l’elemento essenziale della rivelazione del profeta, che è quello della centralità del Signore e della fedeltà alla sua alleanza con lui, il che significa lotta all’idolatria e giustizia nei rapporti all’interno del popolo. Solo questo può costruire un mondo pacifico, operoso, sereno.

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