Libro di Isaia: Capitolo 56, 1-12 e 57, 1-21

Entriamo nell’ultima parte del Libro di Isaia avviandoci verso la fine del nostro percorso. Di fronte a noi è così anche una terza fase della storia d’Israele: quella in cui, tornati dall’esilio, si affronta il problema della ricostruzione e, soprattutto della relazione con gli stranieri che nel frattempo sono entrati nel paese mescolandosi con gli israeliti rimasti. Il problema è serio e, per certi versi, attuale anche per noi.

Come più volte abbiamo detto, è stata deportata la classe dirigente ed è rimasto nel paese il cosiddetto “popolo della terra” (‘am ha’are s): contadini, pastori, piccoli artigiani, povera gente lontana dai luoghi dell’elaborazione della cultura. Le testimonianze archeologiche ci dicono che è gente abituata al sincretismo religioso, a far coesistere quindi la fede originaria con culti della fertilità e mitologie locali. In più sono arrivati altri ponendo di necessità il problema dell’integrazione dello straniero da una parte e della “Santità” / “purità” del popolo dall’altra, al ritorno della classe sacerdotale esiliata, sotto il profilo del culto e dell’etica, identificati più semplicemente in purità etnica.

Anche se, di fatto, esistono alcuni problemi sulla posizione cronologica del TritoIsaia, possiamo tenere presenti in controluce i libri del Levitico, dei profeti Aggeo e Zaccaria, delle Cronache, di Ezra e Nehemia (che paiono particolarmente duri sul tema dei matrimoni misti), non tanto per la collocazione storica, che avrebbe bisogno di essere discussa più nel dettaglio, quanto per avere il quadro essenziale dei problemi entro il quale ci muoviamo.

Se volessimo rappresentare graficamente la struttura dell’opera di questo maestro, potremmo pensare ad una sorta di piramide strutturata nel modo che segue:

isaia - struttura dell'opera

Le diverse sezioni della raccolta dunque sono speculari l’una all’altra rispetto al vertice rappresentato dal cap. 61. Tale schema andrà tenuto presente sino al completamento della nostra lettura riflessiva di Isaia.

Il cap.56 pone subito il problema centrale: quello dell’integrazione degli stranieri. Costoro sono identificati dal termine singolare ben nekar (v.3°), indicante il nome ebreo che abita accanto a o è di passaggio in Israele; non appartiene al popolo dell’alleanza, ma può accedere al tempio. Secondo il dettato della Torah (Dt.23,2-9) stranieri ed eunuchi, su cui ci sarà un pronunciamento al v.3b, erano da considerarsi impuri, benché con alcuni distinguo che consentivano di stabilire come dei gradi di estraneità.

Accanto a costoro c’è il problema degli eunuchi ( al singolare, saris) da intendersi come persone prive di una discendenza, anche se sposate (l’espressione “albero secco”), condizione questa contraria a quella creaturale originaria e al primo precetto in assoluto della stessa Torah, giacché l’uomo è fatto per crescere e fruttificare e questa cosa gli è chiesta prima delle altre. Tuttavia, come si è detto, costoro sono ora integrabili se, vivendo secondo diritto e giustizia accedono alla giustizia divina, che equivale alla sua salvezza (v.1).

Il complesso dei vv. 1-7 ci mette allora di fronte ad una gran verità: ciò che uno crede fedelmente è più importante di quanto può naturalmente produrre: l’importante, come già per Abramo, non è generare, ma credere che Dio ci prenderà sempre di sorpresa, qualora ognuno di noi custodisca se stesso nella fedeltà alle promesse e all’alleanza. Parimenti, l’importante non è l’etnia di nascita a determinare un’appartenenza al popolo di Dio, ma, ancora, la fede e le fedeltà all’alleanza. Il duplice oracolo è importante oggi in cui l’integrazione di stranieri e diversi è sempre più attuale: dice che la porta non è chiusa per nessuno, che ci sono però delle regole da osservare, perché la lealtà verso Dio e verso il popolo d’accoglienza domina su tutto.

Merita una particolare attenzione il v.5°, in cui proprio agi eunuchi sono promessi “una mano e un nome”, yad wa shem. Questa coppia di termini è familiare a molti di noi perché dà il nome al Memoriale che gli israeliani hanno dedicato alle vittime della shoa. Si tratta, come ben noto, di morti incolpevoli, di intere comunità la cui vita è stata cancellata per sempre, perché tra costoro c’erano un milione e mezzo di bambini sotto gli undici anni: comunità e persone quindi forzatamente eunuchi, delle quali non si dà un lavoro che le ricordi in qualche luogo e che garantisca il possesso della terra in cui risiedevano (la mano) né una discendenza (il nome). Questa coppia di parole, divenuta da gioiosa promessa a tragica memoria, ci riporta alle promesse fatte ad Abramo: una terra che assicurasse ai figli un posto dove stare e una discendenza che garantisse il possesso del suolo, e il cui compimento è segnato ancora oggi dal dolore e dal sangue.

Per cogliere il secondo elemento distintivo del cap.56 che diventa determinante per la comprensione dell’opera del TritoIsaia, dobbiamo cercare di rammentare come si chiudesse Is.55. C’era là un ordine di partenza per il ritorno in patria dall’esilio. Non è allora difficile cogliere una continuità tra quella conclusione e quest’avvio. L’attenzione di chi ha scompaginato il Testo è, dal punto di vista simbolico, sul cammino, mentre Gerusalemme occupa il centro dello spazio poetico di questi capp.56-66. La differenza sta nel fatto che prende crescente rilevanza la decisione umana verso la fedeltà e l’adesione a Dio.

Stando a questo dettaglio possiamo senz’altro supporre che il nostro profeta non sia lontano dall’ambiente sacerdotale, come mentalità, data l’insistenza sulla “santità”, in altre parole sulla coerenza di vita che si manifesta in quella “purità” che permette di entrare nel santuario. Il santuario poi è visto da due versanti: è certamente un luogo in cui l’Eterno si riconosce (notiamo l’insistenza sui pronomi possessivi di 1^ sing. Sia quando si parla in termini teologici come giustizia, alleanza e sabato, sia quando si parla della città e del santuario: vv.1-4 vs. 5-7), ma è soprattutto una casa di preghiera universale (v.7).

La stessa tematica ampia torna verso la fine del cap.57 con il consolatorio e complesso oracolo sulla pace (vv.15-19). Nonostante infatti le forse insormontabili difficoltà testuali è un oracolo di gran presa anche emotiva. L’Eterno infatti si presenta come l’Alto (ram) e l’Elevato (wenissa)) , noi diremmo “trascendente”, e tuttavia è vicinissimo agli ultimi della storia, verso i quali si abbassa, come un medico si china su di un infermo (v.18). Perciò è come fosse “immanente” alle vicende umane: questo tema della “discesa” divina avrà una gran fortuna nella tradizione giudaica ed è il presupposto per il dogma cristiano dell’Incarnazione.

Vediamo in particolare il v.19, che è decisivo. Dice il Testo:

Io creo un germoglio di labbra:
Pace, pace al lontano e al vicino,
dice YHWH,
e lo guarirò.

Dopo dure parole di correzione e ancora più dure vicende, il Signore trasforma l’usuale saluto ebraico (shalom, “pace”) in qualcosa di nuovo: infatti è reduplicato ed è rivolto prima al lontano (chi non è ancora tornato dall’esilio? Chi non si è convertito?) e poi al vicino, contrariamente all’uso normale, dato che questo saluto ci si scambia usualmente quando ci s’incontra, e perciò tra vicini. Esso invece “fiorisce” sulle labbra e non è ben chiaro di chi: a mio modo di vedere di Dio stesso o, al massimo, solo in seconda battuta del popolo tornato dall’esilio che si rivolge ai fratelli ancora lontani dalla patria o, forse, agli stranieri da integrare.

Se è Dio a salutare, come penso, suffragato in questo dall’interpretazione tradizionale ebraica, la sua scelta di rivolgersi prima a chi sia lontano ricompare, a ben guardare, di nuovo nel N.T. (Mc.2,17: “Gesù sentì le loro parole e rispose: Le persone sane non hanno bisogno del medico; ne hanno bisogno, invece, i malati. Io non sono venuto a chiamare quelli che per voi sono i giusti, ma quelli che per voi sono i peccatori”) per questo sono i malati / lontani ad aver bisogno di cure, conforto e consolazione prima di coloro che sono prossimi / in buona salute.

E’ una scelta che corrisponde, dialogicamente, allora a quella iniziale del cap. 56: là si valorizzano la fede e la fedeltà umane, qui la grazia e la misericordia divine. I nostri due capitoli si potrebbero intendere perciò come il mistero del dialogo divino.umano che percorre la storia tra alterne vicende. Alterne vicende perché tra questi due momenti aspri e duri: uno di rimprovero verso i capi del popolo (56,9 – 57,2) e uno di dura requisitoria contro l’idolatria (57, 3-13). Quest’ultima solleva non pochi problemi.

A chi è rivolta? Forse a coloro che erano rimasti nel paese? O, piuttosto, alla nazione rimpatriata o a Gerusalemme, poiché è alla 2^ persona singolare femminile? Il testo non consente una risposta univoca. Possiamo perciò concentrarci sul tema dell’idolatria, anziché sull’identità del destinatario. Al v.5, in particolare possiamo riconoscere un’allusione a riti orgiastici e a sacrifici umani, a cui corrisponderà, come contrappasso (v.6) la completa sterilità di chi li pratica. In contrapposizione all’eunuco fedele che apriva il cap.56 ci imbattiamo ora in qualcuno che da sé strenne fecondo ma, contaminandosi con l’idolatria, non può più dare frutto.

Ugualmente al v.8 si parla di una “mano” (yad), che nulla ha a che fare con quanto detto sopra circa questo termine e la sua portata simbolica. E’ piuttosto un eufemismo per non nominare troppo realisticamente un amuleto che ha a che fare con i soliti riti della fertilità. A questo punto e a titolo di conclusione, forse si impone una riflessione che ognuno di noi potrà fare in proprio a partire dal termine “amore / amori” che compare spesso nei nostri discorsi, anche a sfondo teologico, ma è logoro oramai come e più che un vestito vecchio. Questo termine, generico in italiano, si presta a infiniti equivoci e anche in italiano può esistere un amore che, di fatto, è idolatria.

E’ ben vero che in ebraico esiste un campo semantico, per il tema, abbastanza vasto, e che i contesti e l’uso aiutano a chiarire il significato, ma altrettanto è vero in italiano, purché si presti la debita attenzione. Non conviene dilungarsi. Il problema è, piuttosto e come sempre, quello di scoprire ( o riscoprire, se necessario) il senso delle parole, dando ad esse il loro reale spessore.

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