Libro di Isaia: Capitolo 58, 1-14 e 59, 1-21

Incontriamo, con la lettura di Is. 58,1 fino a 59,21, alcuni elementi tipici del TritoIsaia di grande importanza, che segnano un legame di forte continuità con il suo predecessore, ma che avranno grande fortuna tanto nel N.T. quanto nell’evoluzione della spiritualità. A poco a poco, quelli che sono stati eventi salvifici fondanti dell’esperienza di fede d’Israele diventano elementi costitutivi della sua identità o veri e propri schemi esistenziali. Con la meditazione incontriamo soprattutto il paradigma del cosiddetto esodo-sul-posto. Come già il DeuteroIsaia, anche il TritoIsaia ci presenta la tematica di un nuovo esodo; egli si rivolge però contemporaneamente sia agli esiliati che devono tornare da Babilonia sia a quelli che sono già nel loro paese, perché ha a cuore la sorte di Gerusalemme e di coloro che la abitano. Può valere per costoro il discorso di un esodo e in che senso?

Per il TritoIsaia l’esodo diventa una struttura esistenziale: per chi è già nella terra d’Israele il punto di partenza coincide, di fatto, con quello d’arrivo, dunque il suo viaggio è piuttosto un progressivo uscire da se stessi, un cambiamento della propria relazione con uomini, cose e ambiente, per entrare nel volere di Dio, in un’esistenza che si libera da se stessa e si apre all’amore dell’altro.

L’esperienza spirituale giudeocristiana, la vita anzi e il mistero di stesso di Gesù Cristo, è scandita da questi tre momenti: uscire (dall’Egitto, dal peccato, dal servaggio, dalla malattia, da se stessi), passare (per il deserto, per la conversione, per la guarigione, per la riconciliazione), entrare ( nella patria, ossia nel volere e nella comunione del Padre). Talché se il DeuteroIsaia ci presentava il ritorno storico da babilonia, il TritoIsaia ci presenta il continuo ritorno teologale ed etico che il popolo di Dio è chiamato a compiere, quale sia il luogo geografico in cui si trova a vivere.

Di questo esodo-sul-posto troviamo un buon esempio in 58, 1-7, l’oracolo sul vero digiuno. Sappiamo che i giorni di digiuno all’epoca dell’esilio riguardavano, tutti, anniversari relativi all’assedio / caduta di Gerusalemme e alla distruzione del Santuario. Alla fine dell’esilio possono avere ancora un senso e quale? Potrebbe non essere più il tempo (“giorno” è una delle parole marcate di questi versetti) del digiuno. Il vero problema però, secondo il Profeta, è quello del conflitto di due volontà, o, come dice il T.M., di due “desideri” o “progetti” (hepes) : gli uomini “mi ricercano, desiderano conoscere le mie vie, desiderano la vicinanza di Dio”, ma nel giorno di digiuno curano i propri desideri : in altri termini il popolo presenta aspirazioni religiose che ne tacitano la coscienza rispetto al desiderio che Dio nutre, ciò che egli veramente sceglie, come può essere quell’esodo che fa prendere le distanze dall’ingiustizia. Esso è sottolineato qui dai verbi rompere le catene, sciogliere i legami, rimandare liberi, spezzare tutti i gioghi, condividere il pane e il tetto, dare il proprio vestito,

senza sottrarti a quelli della tua carne (v.7)

perché il prossimo non è altro da noi ma carne della nostra carne, al quale dare se stessi, secondo una più corretta traduzione del v.10:

se darai all’affamato la tua anima.

Si può e si deve sempre compiere quest’esodo da se stessi arrivando ad un’esistenza trasfigurata, illuminata della stessa luce divina (v.8). Dio allora risponderà all’uomo. Il profeta anzi gli attribuisce la stessa parola che ricorre nei racconti di vocazione dei grandi personaggi biblici: “Eccomi” (v.9), nella quale si realizza l’incontro tra l’uomo che esce da sé e l’Eterno che va sempre verso di lui, sulla strada dell’alleanza e della giustizia.

A conferma del tema dell’Esodo, che nel DeuteroIsaia comportava una trasformazione del paesaggio, qui l’uomo stesso diventa un paesaggio nuovo (v.11): giardino e sorgente di vita. Ulteriore conferma del cammino di esodo-sul-posto si ha nei vv.13-14: il sabato infatti altro non è che il giorno in cui l’uomo esce da se stesso rinunciando ai propri desideri. In contrapposizione ai giorni di digiuno, il sabato è ‘oneg, giorno di “delizia” al modo stesso del Signore.

Anche in questo dobbiamo riconoscere un elemento decisivo per la costruzione dell’identità ebraica. Benché di istituzione più antica infatti, il sabato aveva assunto tutta la sua importanza durante l’esilio, con la frequentazione della sinagoga e la periodica lettura della Torah. Esso segna un tempo gratuito dedicato interamente a Dio. L’insieme del cap.58 ci presenta così il dittico dei due comandamenti principali: gratuità per il Signore e giustizia verso il prossimo, sui quali si stipula l’unica ed eterna alleanza.

L’attacco del cap.59 ci riporta, ancora una volta ad un oracolo del DeuteroIsaia (50,2): la salvezza promessa tarda, perché le realizzazioni del ritorno dall’esilio sono modeste. Molti degli esiliati hanno preferito restare dove erano, in una situazione consolidata, anziché affrontare le incertezze che un esodo comporta; chi si trova a Gerusalemme, dal canto suo, vive in una città piccola, indifesa, nella quale rifioriscono l’idolatria e il sincretismo. La delusione è grande; Dio pare lontano. Il profeta deve affermare che cosa impedisca la manifestazione della salvezza promessa.

Egli non esita ad indicare nei peccati del popolo la causa che lo “separa” (v.2) dal Signore; ugualmente sono i peccati a far nascondere il suo volto. Non è dunque Dio a nascondersi per essere cercato, come spesso legge in altri testi, bensì il peccato umano che separa da lui e impedisce di rispondergli con il pronto “eccomi” che abbiamo sentito risuonare in precedenza dalla voce divina (58,9).

Il profeta vuole dunque far risaltare la responsabilità umana nella relazione con Dio. Il peccato ne impedisce la visione nel senso di accesso al Tempio, secondo una prospettiva che è particolarmente cara al TritoIsaia, e nel senso di accoglierne la lice ed essere di essa trasparenza e testimonianza. Luce che vuole rimandare a chissà quale mistica esperienza della presenza divina, bensì individuare un modo di vivere, una prassi ordinaria e quotidiana. Al centro dell’invettiva profetica sta infatti di nuovo il tema della giustizia, in tutte le sue sfaccettature: dal rispetto della vita alla sincerità nel parlare.

L’elenco dei peccati comprende i vv. 3-4 e 6b-7 e sfocia in uno sviamento generale, come se l’esito del male altro non fosse che anarchia (v.8). La lista presenta tratti comuni ad altri elenchi che compaiono in alcuni salmi. Desta particolare interesse invece una sorta di valutazione della situazione, che leggiamo ai vv.5-6°, e che riguarda le conseguenze del peccato. Incontriamo due immagini. La prima è, per così dire, biologica, mentre la seconda è tratta dal mondo del lavoro. Il male commesso è fecondo, dice la prima: produce uova velenose; il male è produttivo, afferma la seconda: è come un artigiano che faccia ragnatele anziché un tessuto buono per coprirsi. Il male è dunque inutile, fragile, ma è soprattutto e purtroppo un veleno mortale che colpisce colui che lo compie e si diffonde. In controluce c’è un universo di serpenti che evoca il serpente primigenio.

Il popolo prende la parola, di fronte alla requisitoria profetica al v.9; è da notare infatti il passaggio al pronome “noi”. Nella propria confessione torna l’immagine della,luce, come era prevedibile, all’incontrario. La giustizia divina è la vera fonte di luce, senza di essa non si può che essere nelle tenebre, diventando ciechi e inciampando in pieno mezzogiorno (v.10). L’esatto opposto di quanto abbiamo meditato in 58,10.

Il popolo di disumanizza (v.11, dove appare bizzarro l’accostamento di orsi e colombe), ma riconosce il proprio peccato (vv.12ss) di fronte al quale una conversione individuale non basta. Il “corno” (sopar, impropriamente tradotto con “tromba” nel testo CEI) che abbiamo ascoltato all’inizio del cap.58 chiama a raccolta per qualcosa di più vasto, come nel giorno dell’espiazione o nell’anno giubilare. Si invoca, in altri termini, una grande partenza da sé che conduca ad un diverso modo di vivere.

Il testo si conclude con un oracolo salvifico (15b-21) che annuncia l’intervento divino risolutivo: esso comporta un giudizio, ma è orientato alla salvezza. Come primo atto, il Signore, dall’alto dei cieli, costata che non c’è più un uomo vero sulla terra (v.16), proprio perché non c’è giustizia o qualcuno che difenda la causa di Dio; interviene allora come un eroe abbigliato e armato secondo il proprio rango. Questi abiti avranno un grande successo letterario. Nel corpus Paolino ricorreranno due volte in chiave non più teologale, bensì di virtù di cui il cristiano deve rivestirsi. Tuttavia il Vendicatore (go’el) viene

Per Sion
E per quelli che si convertono dal peccato in Giacobbe (v.20).

Si sono delineate da qui due scuole interpretative nel giudaismo: la conversione è un presupposto per tale venuta o è piuttosto un effetto della redenzione, perché il Messia (Gesù) viene indipendentemente da tutto nel tempo fissato? Il testo del TritoIsaia non offre elementi decisivi per decidere, sempre che non teniamo conto della versione dei LXX che recita:

Verrà per Sion il Redentore
E convertirà il,peccato da Giacobbe

Facendo pendere decisamente la bilancia a favore della seconda interpretazione e valorizzando così l’opera della grazia. Perché la stessa conversione è opera del Messia.

Infine il v.21 ci presenta un universo rinnovato: rimosso il peccato, veniamo a trovarci in un’alleanza convalidata da due elementi: Spirito e Parole. Lo Spirito divino è la garanzia; le parole rendono attuale l’alleanza per ogni generazione. Spirito e Parola, doni dati in origine al profeta, diventano dono universale non tanto per estensione spaziale quanto perché si aprono sul futuro che va oltre il profeta e investe tutto il popolo.

Alla fine di questi due capitoli densissimi dovremmo dedicare un po’ di tempo anche alla preziosità letteraria del testo. Ricordiamo per esempio la straordinaria immagine delle uova velenose. Purtroppo dimentichiamo spesso, alla ricerca come siamo di risposte e messaggi, quanto grande sia la bellezza delle Scritture e come essa stessa faccia parte del gioco salvifico divino. Non solo verità, dunque, non solo giustizia, non solo comandamenti, né solo grazia: custodiamo che tutto questo ci è offerto nella bellezza e in essa vuole essere letto e interpretato.

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