Libro di Isaia: Capitolo 37, 1-38

Il passaggio tra l’opera del ProtoIsaia e del DeuteroIsaia è segnato da quattro capitoli (36-39) che molti guardano come un excursus storico. In realtà, benché essi sembrino spezzare il ritmo del libro o in ogni caso essere una specie di masso erratico tra una serie di oracoli, hanno la funzione di convalidare il messaggio del profeta: accade quanto aveva detto e che, magari, anche un uomo di buon senso poteva prevedere, ma Isaia ne dà una lettura teologica e dice come Dio veda i fatti e il loro significato.

Gli avvenimenti narrati in questi capitoli sono ripresentati anche in altri libri e il confronto delle diverse versioni è di particolare interesse per vedere l’evoluzione della storiografia e del pensiero teologico sulla storia nell’A.T. Oggi prendiamo in esame il cap.37 con la lettura diretta e il 38 con il canto del cosiddetto cantico di Ezechia. Nel corso di questo commento accenneremo però a diversi elementi dell’intero complesso 36-39, anche perché certi particolari sono veramente gustosi. Anzitutto, i fatti.

Nel corso dell’VIII sec.a.C. una nuova potenza si affaccia alla politica del V.O.A. Si tratta dell’Assiria che, trovata una propria unità all’interno si pone come potenza egemonica capace di conquistare e gestire tutta l’area. L’inizio di questa politica di espansione coincide all’incirca con la vocazione di Isaia che abbiamo letto al cap.6: siamo quindi nel 740. I profeti come Amos, Osea e Isaia stesso vedono in questa potenza, che a poco a poco inghiotte tutto, un forte richiamo divino. Abbiamo già chiamato tale modo di guardare agli avvenimenti una visione geopolitica. Per Isaia non serve cercare alleanze con le altre potenze come Egitto o Babilonia, ma piuttosto convertirsi a Dio e tornare alla fedeltà, per scampare all’invasione assira e alle sue conseguenze. Questo è il senso dei suoi continui richiami ai re con cui ha a che fare.

Nell’anno 701 Sennacherib, che nel 705 è salito al trono d’Assiria, è sotto le mura di Gerusalemme dopo una campagna militare tanto rapida quanto irrefrenabile, che ha spazzato via tutti i possibili ostacoli. Al momento della sua scesa diversi stati, già vassalli o tributari del suo predecessore, si erano ribellati al potere assiro: tra costoro proprio Ezechia. Ora questi capitoli presentano l’ultimo atto della vicenda, a partire dai primi approcci dell’invasore, che si premura di inviare un’ambasceria davvero interessante, descritta nei dettagli al cap.36, immediatamente prima di quanto abbiamo letto. Ufficialmente, infatti, è un’ambasceria, di fatto è un atto intimidatorio e un ultimatum. Gli ambasciatori assiri, infatti, parlano sotto le mura della città, facendosi sentire da tutta la popolazione che si è ammassata sugli spalti e pronunciando più minacce che altro.

I plenipotenziari inviati dal re li invitano, e questo è un dettaglio interessante, a parlare aramaico, non già in ebraico, in modo che la gente non capisca (36,11). L’aramaico, chiaro segno oramai dello strapotere assiro nella regione, è, infatti, diventato lingua della diplomazia e della classe dirigente internazionale, come adesso l’inglese, o il francese per alcuni secoli, sino a qualche decennio fa. Gli ambasciatori di Sennacherib rispondono, al contrario, che parlano in ebraico apposta (36,12), proprio perché la gente che è portata di voce capisca. L’intento è, con ogni evidenza, di sollecitare con le minacce, una rivolta interna contro il re di Gerusalemme. Essi ben sanno che Ezechia si è ribellato alleandosi con il faraone Tiraka (36,6 e 37,9), nel tentativo di trascinare nelle ribellione contro l’Assiria tutto il V.O.A. E per gli storici qui nascono i problemi.

Alla fine del cap.37 che abbiamo letto, infatti, Sennacherib si ritira all’improvviso (37,36-38). E’ abbastanza chiaro che questa è la lettura dei fatti in chiave teologica che il profeta dà della situazione: un intervento divino ha provocato la ritirata degli invasori. Alcuni storici pensano invece sia stata l’avvenuta coalizione di potenze grandi e piccole a provocare il repentino dietro front degli assiri. Inoltre si chiedono se in questi capitoli si parlino di un’invasione o due, grazie al doppio racconto di Is.36,1-22 e 37,9-20. Ma , con ogni probabilità si tratta di un’invasione sola e di un racconto in tre episodi che intendono confermare le promesse dinastiche.

L’invasione e la disfatta di Sennacherib: Is.36-37

Una grave malattia di Ezechia: Is.38

Il racconto di un’ambasceria babilonese: Is.39

Non possiamo certo discutere la questione nei dettagli, tuttavia vediamo con quale vivacità il testo ci presenta questi avvenimenti e come, anche in antico, narrazione dei fatti e ideologia fossero finemente intrecciati. Da questa campagna di Sennacherib abbiamo lo stesso una testimonianza anche dai suoi archivi:

Tutti i re Amorrei vennero a baciarmi i piedi, recando magnifici regali e ricchi tributi ) segue l’elenco dei tributari. Solo Ezechia il giudeo non si assoggettò al mio giogo. Allora io assediai le sue fortezze, quarantasei piazzeforti e innumerevoli paesi dei dintorni: feci rampe d’accesso, usai arieti con fanti, gallerie, minatori…Ezechia lo richiusi in Gerusalemme come un uccello in gabbia…Ezechia, sorpreso dal terribile splendore della mia potenza, vedendo che disertavano le truppe speciali e quelle scelte che aveva riportato con sé per rinforzare la sua resistenza a Gerusalemme, mi inviò più tardi a Ninive trenta talenti d’oro (segue il dettagliato elenco di quanto dato in tributo). (ANET 287B-288A).

Da dove si vede come, propaganda per propaganda, Sennacherib non parli della sua disfatta. Tenendo conto di questo quadro, vediamo il cap.37 che abbiamo letto. La reazione di Ezechia all’ambasceria assira è lutto (stracciarsi le vesti) e penitenza (vestire il saio), come se il re, al tempio, si preparasse ad una preghiera di supplica per il popolo e per sé (vv.1-2). Invia a sua volta un’ambasceria al profeta evocando l’immagine del travaglio del parto per riconoscere che la storia è giunta ad una sua maturazione fisiologica: l’invasione ha quindi una sua logica, per quanto dura (v.3), logica non solo storica, militare, ma anche diplomatica.

E’ infatti alle porte il fallimento annunciato, non si può quindi che sperare che Dio abbia a sua volta ascoltato l’ambasceria assira e badi a salvaguardare il proprio onore (v.4). Isaia risponde facendo presente un problema molto concreto di comunicazione: Sennacherib è al campo militare e dal centro e dalla periferia dell’impero gli arrivano le diverse notizie, evidentemente non in tempo reale come adesso. Arrivano bensì dilazionate sì da indurre, eventualmente, al panico e alla necessità di precipitare le decisioni (v.7). Ai vv.8-13 troviamo una seconda versione, meno dettagliata e senza il coinvolgimento del popolo, del racconto dell’ambasceria del cap.36. Essa è autenticata invece dalla presenza di una lettera (37,14). Ezechia innalza allora una breve supplica al tempio (vv.16-20), secondo lo schema consueto delle suppliche:

  • v.16 invocazione con i titoli cultuali cosmici e storici di Dio
  • v.17-19 corpo della supplica
  • v.20 invocazione conclusiva

In particolare l’invocazione conclusiva rilancia la salvezza di Gerusalemme come segno della salvezza universale cui tutti i popoli sono chiamati ad assistere. La risposta di Isaia (vv.21-35) è articolata in due momenti:

  • vv.21-29 oracolo contro gli assiri sullo stile degli oracoli contro le nazioni.
  • vv.30-35 oracolo salvifico per il re e il popolo.

Ancora una volta, Gerusalemme ha un ruolo centrale: l’offesa recata alla città è, in realtà, rivolta al Santo d’Israele, il quale si farà beffe di Sennacherib attraverso di lei. Con un espediente stilistico molto efficace Isaia impersona l’invasore che racconta le proprie imprese (vv.24-25), ma il suo tracotante discorso è interrotto bruscamente. Dio afferma con forza di essere l’unico dominatore della storia, tanto da poter ridurre ogni umana potenza alla stregua di un animale domato (v.29b). L’anello al naso e il morso in bocca ridicolizzano lo strapotere dell’invasore, grazie anche ad un gioco di parole intraducibili ( i termini “naso” o “narici” in ebraico significano anche “collera”, normale attributo di un re vincitore, così come “bocca” può essere sinonimo di “linguaggio”, “condotta” politica).

Ad Ezechia invece sono promesse pace e continuità dinastica, in un oracolo tripartito. La prima sezione è individuata dal segno del raccolto che tornerà ad essere normale secondo le date prevedibili: nell’anno dell’invasione infatti si consumano i cereali che si hanno, ma non si può seminare; il secondo anno, ancora ci si nutre di avanzi, ma si può seminare regolarmente; così che il terzo anno si potrà tornare ai normali ritmi produttivi e di vita (v.30). Nella seconda si annuncia la rivitalizzazione della dinastia e di Gerusalemme (vv.31-32). Nella terza infine si dice che l’assalto di Sennacherib non ci sarà: è ben vero che Ezechia continuò ad essere tributario degli assiri, in ogni caso l’invasore fu costretto al ritiro, come è narrato dai vv.36-38.

Che cosa è successo di fatto?

Forse una violenta epidemia, aggravata dalle notizie circa le intenzioni del faraone Tiraka di muovere contro gli assiri. Isaia liquida la questione con poche e incisive battute, che rendono la scena straordinariamente plastica. Con un certo anacronismo, perché Sennacherib morì una ventina d’anni più tardi, il profeta ne anticipa persino la morte, violenta e altrettanto repentina, avvenuta a seguito di una congiura e all’interno del tempio del suo dio. L’intento di questa conclusione è chiaro. La possiamo considerare come un sigillo alle continue e reiterate affermazioni circa la signoria del Dio d’Israele. I fatti sono raccontati senza essere scissi dalla interpretazione che il profeta ne dà. Resta aperto un problema. Anzi, il problema principale.

Come ho detto più volte, secondo Isaia, la salvezza non sta nell’alchimia delle alleanze politiche e nel dosaggio delle diplomazie, ma unicamente nel ritorno alla purezza della fede e della fedeltà al Signore. Se però andiamo a leggere i testi paralleli a questi capitoli, segnalati in precedenza, vedremo che Ezechia si era ben adoperato per una autentica riforma religiosa, e dunque per un ritorno alla fede e alla fedeltà su cui il profeta insisteva. Uno dei suoi successori, Giosia, aveva continuato su questa strada con anche maggior determinazione. Come spiegare dunque il dramma storico che ha in questo assedio una delle sue tappe, ma arriverà poi alla definitiva rovina del regno di Giuda e dell’esilio?

Si tratta di un problema inquietante ed attualissimo che ci tocca da vicino ogni volta che siamo toccati dalla sventura a misura di collettività. Perché quand’anche leggessimo la sventura in chiave di correzione divina, è pur vero che nelle tragedie di grandi proporzioni non muoiono solo i malvagi o comunque i colpevoli, se ci sono. Il problema della sofferenza innocente resta aperto, quando si tratta (mi si perdoni la brutta espressione) di grandi numeri. Essa sfugge a qualunque logica di conversione, quand’anche si individuino eventuali colpevoli. E’, semmai, per noi e per tutti, un richiamo alla responsabilità reciproca che ci lega, come persone e come credenti.

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