Libro di Isaia: Capitolo 4, 2-6 a 5, 1-7

Dopo le invettive di Isaia 1-2, Isaia 3,1-4,1 il profeta ci presenta un quadro tragico, che parrebbe la loro realizzazione. In realtà problemi cronologici diversi rendono difficile collegare in presa diretta questi testi dal punto di vista storico. Dal punto di vista dei contenuti, invece, potremmo dire che questo capitolo è davvero speculare ai precedenti, come ci fosse una relazione di causa ed effetto.

A Gerusalemme regna l’anarchia. Essa è la conseguenza delle scelte che i suoi abitanti hanno fatto. Siamo in periodo di guerra. La città è assediata (siamo perciò o nel 735 o nel 701 a.c.). ognuno pensa a salvare il salvabile, ma nessuno vuole accollarsi la responsabilità di un momento difficile. Governo e comando cadono perciò in mano al primo che capita.

Il tutto è narrato con il ritmo poetico dell’elegia funebre (qina) e con ironia tagliente (spesso, infatti, Isaia mescola il ritmo poetico del lutto alla canzonatura), in particolare allorché evoca le dame di Gerusalemme, la loro passione per la moda e i loro atteggiamenti provocatori.

La raccomandazione di leggere questo breve capitolo è, con ogni evenienza, superflua.

Non dobbiamo meravigliarci che il testo si presenti come un collage di spezzoni di epoche diverse, quasi fosse necessario che una raccolta dovesse per forza essere ordinata secondo criteri cronologici. I collegamenti sono dati da temi, immagini, simboli, parole e suoni ricorrenti.

Dobbiamo abituarci a leggere il testo seguendo i suoi criteri, non i nostri, se vogliamo fondare su di esso una preghiera “onesta”. I capitoli 1-5 hanno come sfondo il processo che Dio intenta contro il suo popolo e contro la città santa in particolare: è questo il tema che lega l’intera sezione, pur se essa comprende testi dalla diversa datazione.

Con quest’esegesi concludiamo la prima sezione di Isaia (capp.1-5).

In essa troviamo esemplificati i due temi portanti della predicazione del profeta: il giudizio e il resto, in altre parole chi del popolo resta dopo la correzione che sopraggiunge al giudizio divino. Anzi, questi pochi versetti sono proprio incentrati su questi temi, che ora vedremo da vicino.

Isaia 4,2 c’introduce subito nel clima del giudizio con la formula in quel giorno.

Quando il giudizio divino sarà pronunciato e manifesto, sarà anche l’inizio della salvezza. Il paese intero, contaminato, rinascerà fino a dare un germoglio e un frutto straordinari. Ugualmente e parallelamente alla ri-creazione del paese vi sarà quella del popolo: pochi (un resto, appunto), ma che vivranno in una regione fertile e riparata.

In questi versetti notiamo ribaltarsi il giudizio in una situazione di prosperità: l’ultima parola del Signore, infatti, quando giudica, non è distruzione, bensì la salvezza.

Restano pochi uomini (v.3), ma sono in ogni caso il segno di una continuità. Le donne hanno commesso delitti (v.4), ma questa sarà l’occasione per una generale purificazione. I capi sono stati infedeli, ma dietro l’immagine agricola del germoglio, si cela la promessa di un re giusto capace di governare in conformità all’alleanza, con un richiamo a David e alla sua dinastia. Infine, alla rovina di Gerusalemme, corrisponderà lo splendore di Sion.

Il testo risale con ogni probabilità al periodo successivo all’esilio: lo fa pensare qualche particolare linguistico. Tra l’altro mescola anche due tematiche: quella della discendenza davidica appunto (il germoglio) e quella dell’esperienza dell’esodo (la nube). L’aspetto più interessante però è che si trova in relazione con l’immaginario del cap.5, nel quale dominano un simbolo agricolo (la vigna) e il tema dell’amore sponsale, qui adombrato al v.6: la “tenda” infatti, che proteggerà ogni cosa, nel tempo della restaurazione, è una hupa ossia il baldacchino che si alza sulla testa degli sposi alla celebrazione delle nozze.

Dio, salvando il suo popolo, non solo lo porrà in un mondo del tutto rinnovato, ma nel quale si vive il clima della festa di nozze.

Gli stessi elementi li troviamo appena dopo in 5,1-7.

Secondo alcuni studiosi si tratta di una parabola, termine che si può accettare, a patto di non dargli un senso troppo ristretto e tecnico.

Una voce, quella del profeta, canta con il grado di amico del protagonista (v.1). Inizia come fosse in un luogo affollato e dovesse richiamare l’attenzione di gente distratta, che ha perso di vista la gravità della situazione e da che cosa sia causata. Intona dunque un canto di lavoro, nel quale descrive l’impegno di un vignaiolo attorno alla propria vigna; in realtà si tratta di un canto su di un amore disilluso; solo nel finale si svela che è il canto del fallimento dell’amore divino.

Nel testo s’intersecano diversi livelli di linguaggio.

Il verbo che vi compare più spesso è “fare”, che ricorre in tutto sette volte ( due volte al v.2; quattro al v.4 e una al v.5).

L’amore, infatti (e non solo quello del contadino per la propria vigna!) non è un sentimento, ma una serie di decisioni che diventano azioni orientate a dare vita e a rendere fecondi. A tale e tanta attività il padrone credeva che la vigna corrispondesse “facendo”, a sua volta, frutto, in altre parole partecipando della sua stessa operosità. Al massimo sarebbe potuto rimanere deluso per una produzione scarsa e non all’altezza delle cure ricevute.

La vigna invece non ha dato poca uva, ma addirittura un frutto sgradevole ( be’u Sim, che letteralmente andrebbe forse tradotto “erbe puzzolenti”). Tradita l’attesa del vignaiolo, ci accorgiamo allora che essa è in realtà quella di un amante.

“L’amico” o il “diletto” del v.1, infatti, ha lo stesso appellativo del fidanzato del cantico dei cantici: dod, termine non proprio chiarissimo ma che, se è letto senza vocali, altro non è che David (dwd).

Il profeta cantore richiama agli orecchi di un uditorio sulle prime distratto una storia lunga e ben nota: quella dell’Alleanza, come luogo dell’amore di Dio per gli israeliti, e della dinastia davidica.

Gli stessi elementi cioè che abbiamo incontrato nel cap.4

Notiamo infine che anche questo canto d’amore, come quello del capitolo precedente, è sul ritmo dell’elegia funebre. L’amore è morto; o piuttosto non è stato compreso né raccolto; è rimasto senza risposta. Il complesso gioco di incastri conduce a dover costatare il fallimento di Dio, Il quale però non chiedeva di essere riamato, bensì che si rispondesse alle sue cure con opere di giustizia (v.7), secondo quanto stipulato nell’alleanza del Sinai. Stando ad essa, infatti, l’appartenenza a Dio deve essere vissuta e agita nella solidarietà e nella giustizia verso gli altri.

Gli ascoltatori reagiscono con un silenzio imbarazzato: si nota nel testo, infatti, un senso di sospensione dopo l’interrogativo del v.4. Ad esso fa subito seguito però un verdetto: tutto sarà divelto e distrutto, invaso da rovi e pruni (per queste piante compare una coppia di termini che è solo di Isaia) e il cielo si chiuderà perché la desolazione sia irreversibile.

Leggendo il resto del capitolo ci si accorgerà che questo quadro a tinte fosche introduce e motiva sei maledizioni. Con esse si punta il dito contro sei peccati politici, ossia contro quelle trasgressioni della giustizia che segnano il fallimento delle cure divine verso il popolo.

Le elenco in modo da avere un quadro più esauriente possibile:

  • contro i latifondisti 5,8
  • contro i gaudenti 5,11-17
  • contro gli increduli 5,18-19
  • contro gli ingiusti 5,20
  • contro i sapienti / uomini di corte 5,21
  • contro i giudici iniqui 5,22-24

Il fatto che le trasgressioni siano sei può voler dire, purtroppo, che c’è ancora spazio per altre iniquità, e certamente il testo è straordinariamente attuale, vista l’attenzione che oggi si dà ai peccati sociali.

L’importante è rammentare ancora una volta che la mancanza di giustizia è vista da Dio come un tradimento nei suoi confronti.

La considerazione forse più importante per fondare la nostra preghiera allora è siamo troppo malati di psicologismo. L’amore è oggi inteso dai più come qualcosa che “si sente”, non come un progetto in cui, certamente, entrano sentimento e attrazione, ma che sa permanere anche quando il sentimento passa o cambia. In altre parole la parola “amore” ha come termine correlativo la parola “fedeltà”, così come accade nel modo di agire di Dio.

Se rileggiamo con attenzione i vv.2 e 5, vediamo che vi sono elencate con cura tutte le operazioni compiute dal vignaiolo secondo il ritmo delle stagioni. I sassi, per esempio, emergono dal terreno dopo la stagione delle piogge e solo allora possono essere tolti, accumulati e al caso riutilizzati per edificare un muretto a secco, a coronamento del quale si ponevano pruni e rovi (la “siepe” del v.5) per impedire alle bestie di entrare nella vigna e devastarla.

L’amore esige di essere coltivato con cure assidue e appropriate, spesso faticose; vive, alla lunga, più di decisioni e di fatica che non di percezioni.

Si capisce così come Dio veda l’amore nuziale offerto al suo popolo attraverso l’alleanza come frustrato e tradito in maniera che pare irrimediabile. Perché il risultato del suo lavoro non è stato poca uva.

Se la vigna avesse dato poca uva il vignaiolo avrebbe potuto aspettare e insistere nelle proprie cure, e ancora zappare e concimare come propone il servo di una parabola al proprio padrone a proposito di un fico (Lc.13,6-9).

Non è stato neppure nessuna uva, esito che avrebbe potuto, ancora, indurre alla pazienza e alla sollecitudine. La vigna, al contrario, ha semplicemente prodotto un’erbaccia puzzolente.

Il popolo non ha, dopo di una tale requisitoria, possibilità d’autogiustificarsi: l’ingiustizia è sotto gli occhi di tutti, e così l’idolatria e la contaminazione di Gerusalemme e del paese.

Il canto della vigna conclude con accenti accorati le requisitorie dei precedenti capitoli e apre la possibilità di imporre un nome preciso ai peccati con le maledizioni che seguono. L’amore non è quindi una semplice esperienza, in parte durevole, ma un coinvolgimento totale e fedele, quando c’é.

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