Libro di Isaia: Capitolo 25, 1-12

Compiamo un lungo salto nella nostra lettura da Is.14 a Is.25. I capitoli da 14 a 24 bisognerà leggerli per nostro conto. Tuttavia è necessario ricordare che la meditazione che affrontiamo è una nuova sezione del libro di Isaia che parte dal cap.24 per giungere al 27.

E’ una sezione di genere un po’ particolare, oggi purtroppo di moda, benché ne sia equivocato il significato, ossia del genere apocalittico. Con questo termine, infatti, s’intende oggi per lo più una specie di terrorismo culturale o religioso. Al contrario, l’apocalittica biblica invece è ben altro e ha dato origine a correnti spirituali e scritti, nell’antichità, di grande interesse anche per noi cristiani, influenzando parte dello stesso N.T. e della nostra tradizione.

Come forse ho già avuto occasione di dire, “apocalissi” significa “rivelazione”. La letteratura apocalittica è un modo di comunicare che nasce in epoche difficili, segnate in particolare dalla persecuzione, perciò si scrive per immagini e in modi comprensibili solo dai perseguitati, in chiave consolatoria. In poche parole si rivela a chi deve essere confortato ciò che non si vuole o non si può far sapere ad avversari e persecutori. Paradossalmente, è una rivelazione criptica.

La struttura di un testo apocalittico comporta, in genere:

  • giudizio e sentenza
  • catastrofe e teofania
  • raccolta del resto degli scampati sulla propria terra
  • inaugurazione del regno definitivo con un banchetto
  • con inni che fanno da coro

anche se questi elementi non compaiono sempre tutti e in ordine conseguente.

Il genere apocalittico nasce e si sviluppa in epoca tardiva, allorché Israele si trova veramente esposto alla persecuzione. I capitoli di Isaia oggetto della meditazione risalgono forse al V° sec.a.C., anche se questa datazione è solo indicativa.

Pressoché impossibile individuare l’autore. Sono quindi come degli intrusi rispetto al complesso del libro, anche se vi possiamo riconoscere una concordanza tematica.

L’apocalittica, poiché interpretazione consolatoria di un presente difficile con l’annuncio della vittoria finale dei perseguitati, non si ferma al presente, ma si proietta e ci trasporta altre la storia, alla fine del tempo. Tale aspetto escatologico è molto marcato in Is.24-27.

All’interno di Isaia testi analoghi a questa sezione sono i capp. 34-35 e 65-66.

In Isaia 25 possiamo individuare:

  • vv.1-5 inno di vittoria
  • vv.6-8 banchetto e regalo
  • vv.9-12 vittoria su Moab, città nemica.

Il capitolo si apre dunque con l’inno di un re (vv.1-5) che ha riportato una vittoria a favore dei derelitti, vittoria che egli attribuisce al Signore. La città ora vinta era, infatti, ostile a Dio, prima che al re, il quale intona adesso una sorta di invitatorio a se stesso (v.1°), dopo il quale l’inno prosegue con due strofe:

  • vv. 1b-2: prima strofa: due motivazioni della lode introdotte da “ki”, secondo le caratteristiche formali tipiche degli inni.
  • vv. 3-5: seconda strofa: di natura consecutiva, introdotta da ‘al ken, innesca una seconda serie di motivazioni.

La formula “cose meravigliose” usata dal re riecheggia uno dei titoli del bambino promesso in Is.9,5. Il popolo forte invece che ora rende gloria (v.3) e la città ora ridotta a temere Dio sono il nemico vinto, che riconosce, suo malgrado la vittoria divina. A costoro, la cui forza si è rivelata debole, si contrappone il Signore come rifugio ( il testo usa un termine militare al v.4 che sarebbe meglio tradurre con “baluardo”) e riparo contro le intemperie.

I vv.1-5 sono costruiti dunque su di un contrasto: chi era forte in realtà lo appariva soltanto, come lo sono i fenomeni stagionali, che non durano più di tanto e che paiono esaurirsi da sé.

Chi, al contrario, ha operato “cose meravigliose” potrebbe avere dato anche solo segni come la nascita di un bambino, in apparenza assai deboli. La presenza e l’opera di Dio nella storia non sono sempre contrassegnate infatti da tratti marcati.

E’ opera profetica aiutare a riconoscerle, e soprattutto aiutare il popolo a convertirsi a questa debolezza dei segni, cui corrisponde un’invincibile potenza. Dal v.6 compare la tematica del banchetto divino. Esso è convocato sul monte del Signore, divenuto un luogo centrale per il mondo e per la storia. Notiamo anzitutto che sono invitati “tutti i popoli”: Colui che invita gode quindi di potere e prestigio universali e di proporzionate ricchezze.

Tutto è regolato sulla stessa misura: le risorse di chi indice il festino, il numero dei partecipanti, la grandezza del padrone di casa. Il poeta che ha descritto questa scena ha usato un numero relativamente scarso di termini, o, piuttosto, ha usato sempre gli stessi termini in un gioco di ripetizioni di parole e suoni (allitterazioni e rime).

Tale insistenza può essere un modo per ripetere l’abbondanza che la festa comporta. I cibi sono sempre “grassi”, in contrasto con la modestia delle diete del tempo ( e con le nostre paure di oggi), e i vini “da taglio”, cioè ricchi al punto da richiedere una certa abbondanza d’acqua (gli antichi non usavano bere vino puro, né conoscevano processi di invecchiamento e vinificazione come i nostri).

A coronamento del festino Dio concede ancora due cose. La prima è quello della sua presenza visibile, una teofania secondo lo schema apocalittico indicato, anche se non accompagnata dai fenomeni tipici delle teofanie (tuono,terrore, tempesta e simili).

Al momento infatti i popoli sono velati e incapaci di vedere, come ciechi. Al banchetto invece il Signore scopre i loro occhi affinché lo vedano.

Questo primo dono ne anticipa, in un certo qual modo, un secondo, che compare al v.8. E’ questa la promessa più grande dell’A.T.: quella della sconfitta della morte fino alla sua totale scomparsa. Si tratta della vittoria che, in fondo tutti sogniamo, perché in ogni sofferenza sconfitta e sventura, altro non si vede che la presenza della morte che incombe sull’esistenza. Lo stesso re vincitore dei vv.1-5 ha certamente visto in controluce la sconfitta e la sua morte nonché la fine per la sua dinastia e per il suo popolo. Sconfitta della morte e scomparsa dei segni del lutto per introdurre alla quiete e alla gioia senza fine sono l’esito promesso della tribolata storia umana.

Rammentiamo che al banchetto sono invitati tutti i popoli e le nazioni (vv. 6-7). Ai vv.9-12 torna il tema della vittoria contro il nemico. Esso riceve un nome simbolico, un nome che vale per tutti i nemici e che qui è quello del nemico tradizionale dei Giudei nei testi postesilici: Moab.

La sconfitta del nemico è anzitutto salvezza del popolo da celebrare. All’ultimo stico del v.9 troviamo infatti un invitatorio, seguito dalla motivazione della lode all’inizio del v.10.

E’ la celebrazione, in questo caso, a dare il senso ultimo della vittoria, vissuta prima nella speranza insistente e ora finalmente realizzata. Al tempo stesso è necessario notare come questo annuncio di vittoria sia rilanciato verso “quel giorno”, formula, come già sappiamo, tipica degli eventi escatologici.

Vale la pena infine prestare attenzione a come sia evocata questa battaglia decisiva e finale tra Dio e il nemico tradizionale d’Israele. E’ una sorta di corpo a corpo, in cui Dio pone la sua mano in segno di vittorioso possesso sul proprio monte, mentre calpesta con i piedi il suolo di Moab. I nemici, al contrario, atterrati, annaspano come nuotatori in difficoltà. Il combattimento è, per così dire, mano-contro-mani: solo la presenza del Signore è dominante, quasi schiacciante rispetto a quella dell’avversario.

Il riferimento al monte divino consente di capire la connessione letteraria e redazionale tra il tema del banchetto sopraccitato e quello della vittoria: entrambi sono ambientati nello stesso luogo, a Gerusalemme, sul Sion, dove tutto deve compiersi: la guerra ultima, la vittoria, la celebrazione, il festino sovrabbondante, la rivelazione di Dio e la scomparsa della morte.

Questo breve capitolo presenta dunque parecchie tematiche interessanti e, per di più, in una forma poetica di grande fascino. Dovrebbe aiutarci a ricordare, quanto meno, che la Scrittura non è un libro religioso, come potrebbe essere il catechismo o un trattato di teologia o la biografia di un santo. E’ bensì l’appassionata opera letteraria di un popolo alla ricerca di Dio, che scopre operante nella propria storia o assente da essa, secondo i casi.

Questo popolo, che si muove continuamente tra sconfitte e speranze, tragedie e consolazioni, narra, pagina dopo pagina,un tortuoso itinerario nel quale non faticheremmo a riconoscere anche il nostro, se solo fossimo più attenti al fatto che la nostra vita nel tempo, come persone e come istituzioni, non esaurisce tutto. Anche per noi è necessario aspettare “quel giorno” in cui il compimento della vittoria sulla morte, unico vero nemico, già avvenuto nella pasqua di Cristo, sarà reso manifesto agli occhi nostri e di tutte le nazioni.

L’apocalittica anticipa tale esito “in quel giorno”, non per contentarsi, ma perché davvero Israele è proteso a capire il senso delle cose. Come scriveva un teologo, la storia ci appare, mentre vi siamo immersi, una serie di vicoli ciechi in cui siamo ci andati a cacciare senza capire come; è solo a distanza che forse la sappiamo vedere al modo di Dio, in altre parole nel suo insieme, scoprendovi una direzione e un verso.

L’esperienza d’Israele, già da queste pagine, ci assicura che si può essere profeticamente lungimiranti e vivere guardando oltre quello che si vede.

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