Vangelo di Luca – Cap. 15,1-10 al 15,11-32

Gesù il buon pastore

La pecora e la moneta ritrovate.

Capitolo 15, 1-10

*Si avvicinavano a lui tutti gli esattori del fisco e i peccatori per ascoltarlo; *e i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia insieme con essi. *Allora egli raccontò loro questa parabola: *Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una , non lascia le novantanove nel deserto per andare in cerca di quella perduta finché non la trova? *E, trovatala, se la mette sulle spalle tutto contento *e, giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: Rallegratevi con me perché ho ritrovato la mia pecora, quella che era perduta. *Così vi dico, vi sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. *O quale donna, se ha dieci monete d’argento e ne perde una, non accende la lucerna, e spazza la casa, e cerca con cura finché non la ritrova? *E, trovatala, chiama le amiche e le vicine e dice loro: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la moneta che avevo perduta. *Così vi dico che vi è grande gioia tra gli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

L’evangelista ha premesso alle parabole della misericordia una nota che indica la situazione vitale in cui meditarle. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro; ciò suscita critiche e mormorazioni. Questo è senza dubbio uno dei punti di costante tensione fra Gesù e le autorità religiose giudaiche. La tradizione sinottica è unanime nel rammentare che Gesù sedeva a mensa e mangiava con i peccatori, accettandone l’ospitalità. Era una prassi abituale, tanto che lo accusarono di essere “un mangione e un beone”, amico di pubblicani e peccatori. Sedere alla stessa mensa era ritenuto un segno, forse il più profondo, di comunione. Lo stesso che Gesù sceglierà per esprimere la sua comunione con i discepoli e quella dei discepoli fra loro. Gesù lo estende ai peccatori. Si tratta di un gesto di palese rottura: le leggi della purità vietavano severamente la comunanza di mensa con i pagani e i peccatori. Il tutto, si pensava, per onorare Dio separandosi dai peccatori. Gesù, invece, fa il contrario, mostrando in tal modo una corretta concezione di Dio. Lo scontro, quindi, non è a livello disciplinare o morale, ma teologico.

Gesù fa riflettere i suoi ascoltatori narrando la vita del pastore, il suo attaccamento al gregge, l’importanza anche di una sola pecora. Ebbene Dio è come un pastore a cui stanno a cuore tutte le sue pecore, una ad una: non esita a lasciare le altre per cercare quella smarrita. Il pastore di cui Gesù narra ha cento pecore e la mattina, fattele uscire dall’ovile, si mette in marcia con loro nella steppa a farle pascolare. Ad una certa ora della giornata si avvede che una pecora manca; guarda e riguarda, non la vede proprio. Non c’è dubbio: si è perduta. Con ogni probabilità si sarà staccata dal gruppo, attirata da qualche avallamento con più erba, e mentre il resto del gregge si allontana sarà restata là da sola, ingannata dalla momentanea abbondanza ma esposta ai lupi notturni. Allora bisogna fare di tutto per ritrovarla, prima che calino le ombre della sera. Il sollecito pastore affida allora le altre novantanove pecore agli aiutanti, e corre alla ricerca della smarrita. Su e giù per le collinette, scrutando le distese aperte, sempre col cuore angosciato; spia il roteare dei rapaci, chiama, tende l’orecchio, non si dà pace, finché ode un belato, e la gioia è grande. Si tratta della pecora perduta. Il pastore non ha una voce di rimprovero, non un gesto di minaccia; anzi l’alza di peso e se la pone sulle spalle, estendendo a lei il privilegio riservato agli agnellini da latte non ancora in grado di camminare. E’ tanta la felicità per il ritrovamento che non sente minimamente il peso sulle spalle. E giunto a casa, oramai a sera inoltrata, il pastore non si occupa delle altre del gregge che sa essere al sicuro, ma chiama gli amici e compagni volendo condividere con loro il suo gaudio. E’ andata bene! Eccola là, la pecora perduta! L’ho ritrovata!

Gesù conclude: “Così vi dico, vi sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

Affermare che l’ansiosa ricerca del pastore sia provocata dalla perdita di una sola pecora ( a fronte delle altre novantanove), e che la conversione di un solo peccatore fa gioire Dio ( a fronte di novantanove giusti), può sembrare un’espressione retorica, un paradosso; è, invece, una profonda verità. Nella logica dell’amore diventa un tratto realissimo e necessario. Senza di lui la parabola perderebbe la sua forza di verità, ridotta a luogo comune del tutto incapace di evocare il mistero di Dio. Il secondo paragone è preso dalle usanze domestiche, ma simboleggiano l’identico insegnamento morale del precedente. Una buona donna di casa, accorta ed economica, a forza di risparmi, si è creata una piccola somma. Sono dieci monete d’argento, dieci lampanti monete. La donna le tiene ben raggruppate dentro una pezzuola; la pezzuola è accuratamente avvolta e legata con un nodo ben stretto. Il prezioso involto è gelosamente nascosto in un angolo oscuro della casa, dove di tanto in tanto la donna va a far delle visite per vedere che tutto sia in ordine e per rallegrarsi la vista con quel luccichio. Tuttavia un brutto giorno la donna, slegato l’involto, vede che le monete d’argento non sono più dieci, ma nove. Immaginatevi la sorpresa, la delusione. Che amara sorpresa! Dove mai sarà andata a finire la moneta d’argento mancante? Tutta affannata la donna ripensa alle ultime volte che ha maneggiato il gruzzolo: forse è rotolata via il giorno tale, quando fece in fretta e furia quel pagamento; forse qell’altro giorno, quando sconvolse tutta la casa per fare pulizia. Ecco che allora la donna si arma di lucerna e di scopa; scruta gli angoli più oscuri, spazza una per una le fessure dell’impiantito, spia tutti i buchi e in tutte le screpolature, fino a che scorge rimpiattata fra due assi la moneta d’argento mancante. A questo punto esplode la sua gioia rumorosa; la donna fa crocchio con le amiche e comari per raccontare a tutte la sua felicità, proprio come aveva fatto il pastore per la pecora ritrovata.

Gesù conclude: Così vi dico, che vi è grande gioia tra gli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Nella situazione ecclesiale le due parabole sono un invito ai praticanti cristiani a far posto a quanti vengono dal di fuori, a rallegrarsi per la loro conversione. Infatti, la conversione cristiana è l’incontro dei peccatori con Gesù e la loro accoglienza. E’ la comunità dei discepoli che ha ora il compito di render visibile lo stile di Dio come Gesù lo ha manifestato e attuato. E un clima di festa gioiosa dovrebbe caratterizzare la comunità credente che rende attuale e visibile l’azione salvifica di Dio nel mondo.

Il padre e i due figli o il “figlio prodigo”

Capitolo 15,11-32

*E continuò: Un uomo aveva due figli. *Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta. Egli divise tra di loro i beni. *Pochi giorni dopo, messo insieme tutto il suo patrimonio, il figlio più giovane partì per un paese lontano, e là dissipò i suoi beni con una vita sregolata. *Quando ebbe speso tutto, venne in quel paese una grande carestia, ed egli cominciò a mancare del necessario. *Allora andò a mettersi a servizio di uno degli abitanti di quel paese, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. *Avrebbe voluto riempirsi lo stomaco con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. *Allora, riflettendo dentro di sé, disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, e io invece qui muoio di fame. *Ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro Dio e contro di te; *non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati. *Partì e s’incamminò verso il padre. Mentre stava ancora lontano, suo padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò teneramente. *Gli disse allora il figlio: Padre, ho peccato contro Dio e contro di te; non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio. *Ma il padre disse ai servi: Presto, tirate fuori la veste migliore e rivestitelo, e mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi; *e portate il vitello ingrassato, uccidetelo e facciamo festa con un banchetto, *perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. *Ora il figlio maggiore era nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì musica e danze. *Chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse tutto questo. *E quello disse: E’ tornato tuo fratello, e tuo padre ha fatto uccidere il vitello ingrassato perché lo ha riavuto sano e salvo. *Si adirò allora e non voleva entrare, tanto che suo padre uscì fuori a pregarlo. *Ma quello gli rispose: Ecco, da tanti anni io ti servo e no ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi desti mai neppure un capretto per far festa con i miei amici. *Ma appena tornato cotesto tuo figlio che ha mangiato tutti i tuoi beni con le prostitute, hai ammazzato per lui il vitelli ingrassato. *Il padre gli disse: Figlio, tu stai sempre con me, e tutte le cose mie sono tue. *Ma bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

Certe volte è difficile per un padre continuare a credere che la bontà e la comprensione possono realmente risolvere il problema del figlio. E, poi, anche se lo volesse, si troverebbe di fronte ai suoi limiti. Si accorge che dentro di sé non esiste una riserva così grande d’amore, capace di condurre il figlio ad incontrarsi con se stesso.

Naturalmente non mancano le eccezioni di persone, anche inconsapevoli, di essere illuminate dalla mano di Dio. Esistono, in genere, ovunque barriere e limiti che vanno oltre ogni buona volontà. Il nostro amore non basta a risolvere i problemi umani che ci circondano e che fanno soffrire tanta gente. Noi stessi soffriamo, quando prendiamo coscienza della nostra incapacità di amare davvero gli altri. Anche perché l’amore umano è sempre condizionato da interessi terreni. C’è in noi un vuoto, un’insufficienza più grande di noi, che non riusciamo ad eliminare. Non siamo capaci d’amare e di volere il bene degli altri, come vorremmo. Ecco perché facciamo fatica a parlare e comprendere che Dio è un Padre buono e generoso che ama tutti gli esseri umani. Ma nonostante i nostri limiti, sappiamo per nostra esperienza personale che Egli ci ama, lo sappiamo col “cuore”, non con la mente, ognuno individualmente, in modo straordinario.

Dio vuole che noi sappiamo che lui ci ama ora, intanto che ascoltiamo questa meditazione, proprio come siamo. Anzi ci ha sempre amato, ci ha voluto e desiderato; lui ha progettato la nostra nascita, ci ha atteso, immaginando e formando il nostro volto, il nostro corpo, il nostro carattere. Egli ci è Padre, ci segue ogni giorno, è presente quando siamo feriti e delusi, soffre con noi. Ci è sempre stato vicino anche se noi non ce ne accorgevamo, anche quando facevamo cose contrarie alla sua volontà, anche quando ce ne siamo andati alla ricerca di tutto fuori che lui.

Dopo questa premessa, ascoltiamo che cosa ci dice Gesù, nostro Signore, per rivelarci l’amore del Padre. Pensiamo per un attimo se una cosa del genere è successa o sta accadendo anche nella vita che viviamo. La parabola narrata da Gesù è una storia un po’ strana, ma molto commovente, perché racconta la vicenda di un perdono e di un amore molto grandi. Non solo, a questo punto, la nostra intelligenza si smarrisce e non riesce a capire le cose. Solo il cuore è capace di percepirle, anche se molto vagamente. Letteralmente parlando, questa parabola può essere definita come un miracolo. Questo racconto nel campo morale è il massimo argomento di speranza per ogni figlio dell’uomo. Nessuno al mondo ha raggiunto tanta potenza di commozione, in un racconto così breve, così vero, così privo di qualsiasi artificio letterario. La sua semplicità è un capolavoro, eppure la sua efficacia è maggiore di quelle di altre narrazioni giustamente celebrate per sapienza di costruzione e limpidezza della parola. Da qualsiasi angolatura si osservi la parabola, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti ai suoi figli e i due figli davanti a lui. Non solo, il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione, le due vicende, quella del figlio minore e quella del figlio maggiore, si scontrano con l’originalità della sua paternità. E fuori metafora affermiamo che il punto in cui la parabola insiste è il modo con cui Dio Padre si pone di fronte ai suoi figli, i peccatori e i giusti, e i figli di fronte a lui.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione ai due figli. Quello maggiore era una vera perla: giovane serio e posato, non badava che alla fattoria, era il braccio destro del padre nel dirigere lavori dei campi, non si prendeva uno svago con i pochi e assennati amici che aveva. Il figlio minore era tutt’altro: pieno di fumi nel cervello, si sentiva soffocare in quella vita così puntuale e metodica scandita dalle stagioni; i lavori dei campi lo annoiavano, il gregge e l’armento lo infastidivano col loro tanfo, la fattoria gli sembrava un carcere dove i carcerieri erano i garzoni sempre pronti a fare la spia d’ogni sua azione al padre. Dai molti falsi amici che aveva nei dintorni sentiva raccontare cose mirabili di grandi città lontane, dove si tenevano banchetti, danze, musiche, feste sbalorditive, dove s’incontravano donne profumate disponibili, invece delle puzzolenti pecoraie e dei lerci bifolchi di suo padre. In quei posti era la vera vita. E quando dopo un’oziosa giornata, come tante altre, ripensava a quei luoghi, sdraiato sul prato della fattoria rassegnandosi a sentire cantare i grilli, rifletteva con melanconia che la sua vita stava irrimediabilmente scivolando via senza divertimento.

Ecco che allora un certo giorno prende la sua risoluzione, probabilmente suggerita da un falso amico, si presenta dal padre e gli chiede la parte di patrimonio che gli spetta di diritto. Sappiate che secondo la legge ebraica (Deut. 21,27), un figlio poteva chiedere, anche prima della morte del padre, la sua parte di eredità. A quella richiesta, il padre dovette guardare lungamente negli occhi il giovane, ma non proferì parola, come il giovane non ardì aggiungere parola a quella richiesta; l’uno si allontanò dall’altro in silenzio. In questo scambievole silenzio si svolse la tragedia: dolore per il padre, inizio della vera vita per il figlio. Riflettiamo un istante e fermiamoci dall’analizzare la parabola. Mi pare che fin qui fra le righe del racconto traspare già un’importante considerazione, e cioè che l’uomo si sottrae a Dio Padre perché convinto che egli sia un padrone interessato solo a se stesso, ostile all’uomo e alla sua libertà: dunque una presenza ingombrante, proprio come il padre della parabola. Ecco il peccato, non si tratta del fatto di avere chiesto la sua parte d’eredità, per poi dissiparla (senz’altro grave in ogni caso), ma del fatto che la casa paterna rappresenta una prigione, e la presenza del padre mortificante e l’allontanamento la libertà di fare quello che vuole.

Andiamo avanti con la riflessione. Il testo della parabola ci dice che il giovane si dette a vivere sia sfrenatamente o dissolutamente, sia anche prodigamente o da scialacquatore; le due maniere, del resto, sono necessariamente congiunte tra loro. In ogni modo i giorni passano presto e bene, in quella vita; ma giunsero anche le conseguenze. Dopo un certo tempo, era passato anche il gruzzolo, unica fonte dei piaceri, giacché per quanto ricolma fosse stata da principio la borsa, non era poi senza fondo. Ma la febbre del piacere l’aveva pervaso ed accecato a tal punto, da non lasciargli vedere che la borsa andava sempre più scemando. Un giorno, poi, rimase vuota. La vita beata era finita; ne cominciava un’altra ben diversa. Il gaudente di ieri era assalito da due parti, all’interno e all’esterno; non solo la borsa era vuota, ma nel paese è giunta la carestia, ed è superfluo dire che i falsi amici sfruttatori ed adulatori del tempo delle vacche grasse sono scomparsi badando ai casi propri. In questa desolante situazione e in un paese straniero il giovane non ha molto da sofisticare; o morire di fame, o mettersi a lavorare dove capita, anche nel lavoro più umiliante e schifoso. Trova lavoro come guardiano dei porci. Ma se con ciò ha evitato la morte, non ha evitato la fame che gli rode continuamente le viscere. Per lui non c’era nemmeno una carruba. In queste spaventose condizioni passa parecchio tempo. Durante le soste canicolari, quando i porci famelici ed estenuati si sdraiano all’ombra di un albero, anche l’emaciato porcaio si sdraia a fianco loro fra la polvere e il letame; ma il pensiero gli vola ostinatamente alle lontane serate estive, quando sdraiato sul prato della fattoria paterna sentiva i grilli cantare, vagando con la mente dietro sogni vacui, narratigli dai falsi amici. Quei rosei sogni si sono adesso pienamente avverati; egli li sente attorno a sé nei porci che grugniscono, addosso a sé nei luridi e fetenti stracci di cui è coperto, dentro di sé nella fame che gli torce le budella.

Con la partenza da casa era iniziata la degradazione: una vita disordinata, poi la fame, poi l’attuale servizio presso il padrone pagano, infine l’umiliazione di pascolare i porci. Qui inizia il cammino di ritorno, sebbene le idee non siano ancora chiare, ciò nonostante ha inizio un mutamento interiore. Il giovane comprende che la casa del padre non era una prigione, ma un luogo di libertà e dignità. Il figlio ha così compiuto un passo importante, e tuttavia non è ancora completa conversione. E’ solo la premessa necessaria. Lui è persuaso di dover convincere il padre a riaccoglierlo: per questo formula la domanda del perdono e si dichiara disposto a lavorare come un servo. Come possiamo osservare, sono senza dubbio parole e sentimenti che testimoniano la sua sincerità, ma che, al tempo stesso, mostrano ancora la sua incomprensione del padre Ecco, la seconda riflessione è proprio questa: il figlio non conosce il padre, né quando si è allontanato da lui né quando ha deciso di ritornare. Già, perché lui è convinto di aver perso l’amore del padre e di doverselo meritare di nuovo. Non sa che il padre non ha mai cessato di amarlo.

Dirà: “Padre ho peccato contro Dio e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”.

Sorretto da questa speranza e raccolte le residue energie, il giovane si mette in viaggio verso la casa paterna. Durante il cammino, più volte sopraffatto dal ricordo della sua partenza dispera di esservi accolto almeno come un cane randagio. Ma non c’è altro per lui: il mondo intero adesso si racchiude in quella fattoria. Ed egli trascinandosi per la strada come meglio può, finalmente vi giunge. E’ un chiaro pomeriggio. Suo padre sta nei campi a sorvegliare; ma il suo occhio solerte, che scorre da aratro ad aratro e da garzone a garzone, non ha più la limpidezza di una volta; è velato, mostra le stigmate di una pena antica ma non invecchiata, e di tanto in tanto si fissa là verso l’estremo orizzonte restando immobile a riguardare chissà quali fantasmi.

Mentre il figlio stava ancora distante, suo padre lo riconobbe e ne fu intenerito; corse da lui, lo abbracciò e lo baciò. Un bacio? Chissà quanti su quel collo pidocchioso e su quel volto dalla barba inzaccherata. Ed è in quegli attimi che il figlio fa una scoperta sconvolgente. Certo suo padre lo ha riconosciuto pur ridotto in quello stato; ma appunto perché lo ha riconosciuto, come mai lo bacia e lo abbraccia? Come mai non chiama i suoi servi per farlo cacciare via? Non è lui il figlio che ha rinnegato suo padre? Gli disse allora il figlio: “Padre, peccai contro il cielo e innanzi a te! Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio!” E’ il discorsetto già preparato a memoria, che qui però è accorciato mancando dell’implorazione finale: “Trattami come uno dei tuoi salariati!” Come mai? Forse il figlio non ha il coraggio necessario per implorare il posto di servo? Oppure questo gli viene impedito dagli abbracci e dai baci interminabili dell’effusione di bontà paterna? Ma l’implorazione non serve più. Sono parole vane, il padre non le avverte nemmeno, è troppo felice. Il padre non lo lascia neppure parlare: il suo amore precede il pentimento e la conversione! Il padre è molto diverso da come il figlio lo immaginava. Il vecchio padre, tutto concitato, rivolgendosi ai servi ordina la veste più bella, l’anello al dito, i calzari ai piedi che rappresentano l’appartenenza, l’essere figlio, e il padre glieli offre prontamente. Ma non per dirgli che è di nuovo suo figlio, bensì che lo è sempre stato. Questo quadro ci suggerisce una terza considerazione meditativa, e cioè che è il peccatore pentito che deve ritrovare la consapevolezza d’essere figlio. Per Dio non ha mai cessato di esserlo. Ma ritorniamo alla parabola.

Il racconto poteva finire qui. Tuttavia la narrazione continua introducendo la figura del figlio maggiore: un figlio fedele, rimasto sempre in casa. In tal modo Gesù ha mirabilmente messo in scena i “mormoratori”. Infatti, il figlio maggiore anziché partecipare della gioia del padre, questi ne prova irritazione: esattamente come gli scribi e i farisei che mormoravano contro Gesù. Costoro “i giusti”, sempre fedeli e sempre a servizio, sono sì dei credenti, ma non conoscono Dio.

All’incontro non fu presente il figlio maggiore; quella perla di giovane, come il solito, stava al lavoro, e in quel pomeriggio si era recato nei campi più lontani dal casale per certe faccende a cui doveva badare. Ritornò quindi assai tardi, quando il banchetto era inoltrato e quando le copiose libagioni avevano rafforzato le ugole al canto e i piedi alla danza. A sentire tutto quel frastuono, il giovane posato cadde dalle nuvole. Allora, chiamato uno dei garzoni, domandò che cosa fosse ciò. E quello gli disse: “E’ tornato tuo fratello, e tuo padre ha fatto uccider il vitello ingrassato perché l’ho riavuto sano e salvo”.

Ma naturalmente il servo non si fermò qui e inizio ad informare l’interrogante su tutto il resto, descrivendo come suo fratello fosse giunto in uno stato tale che l’ultimo cane rognoso della fattoria a lui sembrava il sommo sacerdote di Gerusalemme. Il figlio maggiore ne rimase sconvolto. Dunque, per quel giovinastro che era il danno e la vergogna della famiglia, il padre faceva tanta baldoria? Ma era impazzito anche il padre? Se però il vecchio era rimbecillito, il suo unico degno figlio, che era sempre stato con la testa a posto, non aveva nessuna intenzione di imitarlo. Si adirò e non voleva entrare. Ma suo padre, uscito fuori, si raccomandava a lui. Quello rispondendo, disse al padre: “Ecco, da tanti anni io ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi desti mai neppure un capretto per far festa con gli amici. Ma appena tornato cotesto tuo figlio che ha mangiato tutti i tuoi beni con le prostitute, hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”. Il padre allora gli rispose: “Figlio, tu stai sempre con me, e tutte le cose mie sono tue. Ma bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Il figlio maggiore non riesce a vedere la questione con gli occhi del padre. Rifiuta di partecipare alla festa per il fratello perduto e ritrovato, ritenendola un’ingiustizia, addirittura un torto fatto alla sua obbedienza e al suo lavoro, come se al padre queste cose non interessassero. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore, che egli non riconosce come fratello e chiama sempre “tuo figlio”, suscita in lui l’amara sensazione che la sua fatica sia tutta sprecata. In definitiva egli pensa: Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusti? E’ a questo punto che si coglie quanto sia diverso l’atteggiamento del padre da quello del figlio maggiore. Questi si risente nei confronti del padre e non vuole entrare in casa; invece, il padre non si adira con lui, ma esce, gli va incontro, lo prega e lo chiama figlio mio. Il padre ama entrambi i figli. Ascolta le ragioni del figlio maggiore e le confuta: è un dialogo su cui Gesù indugia, rammentandoci che talvolta la conversione del giusto è più difficile di quella del peccatore.

Il padre cerca di far comprendere a questo suo figlio fedele, da sempre in casa e tuttavia così lontano da lui, tre cose: che non gli è stato tolto nulla di ciò che gli spetta; che ha potuto sempre godere della tranquilla sicurezza di stare col padre; e che il figlio ritornato non è un estraneo, ma un fratello. Lo stesso amore che ha spinto il padre a correre incontro al figlio minore, lo ha spinto poi ad uscire e a pregare il figlio maggiore di non insistere nelle proprie rimostranze e di far festa insieme. Il padre vuole riunire i due fratelli, unendoli a sé e fra loro. Anzi, vuole che entrambi scoprano la sua paternità e la loro fraternità. Tuttavia la situazione dei due figli è molto differente. Il minore è uscito di casa, mentre il maggiore è sempre rimasto. Nondimeno, ambedue sbagliano nel rapportarsi al padre come ad un padrone: “Trattami come uno dei tuoi servi”, dice il minore; “Ecco, sono tanti anni che ti servo”, recrimina il maggiore.

L’insegnamento morale di questa seconda parte del racconto è tutto qui: come il padre è sempre il padre, così il fratello sia sempre il fratello. Nella prima parte la parabola ci ha insegnato la misericordia per il peccatore pentito, elargitagli da Dio che è il padre; nella seconda parte poi ci insegna la necessità della misericordia per il peccatore pentito elargitagli anche dall’uomo che è suo fratello, e precisamente come conseguenza del perdono del Padre e in riconnessione con quel perdono precedente. Come possiamo osservare, la seconda parte della parabola è dunque veramente la cupola di tutto l’edificio e il suo coronamento supremo. Forse certe esperienze della vita possono avere ostacolato il nostro rapporto con Dio e c’impediscono di accogliere il suo amore con entusiasmo. Ecco perché dobbiamo liberare i nostri cuori dalle ferite del passato, lasciando che l’amore di Dio compensi il divario sperimentato tra l’amore di cui avevamo bisogno e ciò che in realtà ottenevamo, dal momento che tutto era condizionato.

Dio Padre sana le nostre ferite del passato; il suo amore riempie la nostra vita se noi ci lasciamo amare. L’amore di Dio è meraviglioso. Ora che lo sappiamo ricorriamo a lui, chiediamo il suo aiuto ed egli ci aiuterà a superare ogni difficoltà. Perciò, prima di far funzionare l’intelligenza, facciamo lavorare il cuore. Gesù ci ha raccontato la parabola proprio per dimostrarci in modo concreto come è grande l’amore e il perdono di Dio verso ognuno di noi. Quando Gesù parla del Padre, egli pensa a Dio. Nell’intimità della nostra casa rileggiamo il testo, Luca 15, 11-32, e quando si parla del padre, pensiamo a Dio, e quando si parla dei figli pensiamo a noi stessi. In questo modo veniamo chiamati a prendere parte alla gioia di Dio Padre aprendoci ad un amore che ha lo stesso orizzonte di Dio stesso.

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