Vangelo di Luca – Cap. 8, 1-3 al 8, 40-56

Gesù risurrezione di una bambina, Albert von Keller

Una comunità al seguito di Gesù.

Capitolo 8,1-3

*In seguito Gesù andava per città e villaggi predicando e annunciando il regno di Dio. Erano con lui i dodici *e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, detta la Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, *e Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode, e Susanna e molte altre che li assistevano con i loro beni.

Subito dopo il racconto del convito di Simone, Luca aggiunge: In seguito Gesù andava per città e villaggi predicando e annunciando il regno di Dio. Il Signore si comportava come un missionario, predicando in pubblico ed in privato, nelle sinagoghe e nelle case, e confermando le sue predicazioni con miracoli; così che la gente accorreva da lui attratte, non soltanto dall’efficacia dei suoi insegnamenti, ma anche più dall’utilità immediata dei segni. Luca si sofferma a presentare la piccola comunità itinerante, che serve da modello per la vita della chiesa, alla quale è diretto il suo vangelo. Al seguito di Gesù, oltre i dodici, Luca rammenta che nel gruppo dei discepoli vi era la presenza delle donne. Il gruppo delle donne, che si affianca ai Dodici, offre il primo quadro completo dei seguaci di Gesù Cristo. La comunità nascente è il piccolo gregge, l’inizio di quella che egli chiamerà la sua Chiesa, composta non solo di uomini, ma anche da donne, e tutti chiamati e impegnati nel servizio di diffondere la parola della Buona Notizia.

Luca ha un interesse particolare nel notare ( l’amore per la verità) la presenza delle donne accanto a Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica. Egli ha raccolto in numero considerevole tradizioni provenienti dall’ambiente femminile anche riguardo alla morte e alle apparizioni del Risorto (Lc.23,49; 24,9-11). Il fatto che queste donne abbiano accompagnato Gesù fin dall’inizio del suo ministero, proprio come i Dodici, conferisce loro un titolo simile a quello degli apostoli: anche la donna è partecipe dell’annuncio apostolico del messaggio cristiano, poiché la donna non ha un ruolo puramente passivo nel mistero della salvezza. Delle donne citate, Giovanna e Susanna sono ricordate dal solo Luca, Maria Maddalena anche dagli altri evangelisti. Il suo appellativo di Maddalena la designa come originaria di Magdala, cioè Tarichea, sulla riva occidentale del lago, e quindi nativa della Galilea. Poi è detto che da lei erano usciti sette demoni, ciò significa soltanto che era stata liberata per opera di Gesù da qualche potente ossessione demoniaca, mentre non ha il minimo fondamento nelle narrazioni evangeliche supporre che lei fosse stata in precedenza una donna di dubbi costumi e tanto meno l’innominata peccatrice del convito di Simone.

In ogni modo, il fatto che alcune donne siano seguaci di Gesù, è rivoluzionario e abnorme rispetto al modello sociale del suo ambiente che fissa la donna in un ruolo di segregazione e d’emarginazione sociale e religiosa.

Ascolto della parola: parabola della semente.

Capitolo 8,4-15

*Una folla numerosa, accorsa da ogni città, si radunò attorno a Gesù. Allora egli disse questa parabola. *Uscì il seminatore a spargere la sua semente: e, nel seminarla, una parte di essa cadde lungo la strada e fu calpestata e gli uccelli se la beccarono; *un’altra cadde sui sassi e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. *Altra cadde in mezzo ai rovi, i quali, crescendo insieme, la soffocarono. *E altra cadde sul terreno buono e, cresciuta, fruttò il cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchi per intendere, intenda. *I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. *Ed egli rispose: A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché guardino senza vedere, e ascoltino senza comprendere. *Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. *I semi caduti lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore perché non credano e si salvino. *Quelli sui sassi sono coloro che accolgono con gioia la parola quando l’ascoltano, ma non hanno radice; per un certo tempo credono, ma poi, quando viene la prova, vengono meno. *Il seme caduto tra i rovi sono coloro che hanno ascoltato la parola, ma si lasciano prendere dalle preoccupazioni della ricchezza e dai piaceri della vita al punto che rimangono soffocati e non giungono a maturazione. *Quello poi che è caduto sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola, la conservano in un cuore sincero e buono e portano frutto grazie alla perseveranza..

Nella parabola Gesù è di fronte alla folla, nell’atteggiamento del maestro che insegna stando seduto. La parabola del seminatore si apre e si chiude con l’imperativo dell’ascolto, perché ascoltare è insieme sentire e obbedire. “Chi ha orecchi per ascoltare ascolti”, la frase allude ad un ascolto attento, all’orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere alcuna parola. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che è detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire.

La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata, è oggetto di un discernimento: alcuni comprendono, altri no. Le parabole s’illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.

La parabola narra la storia di una semina: “Ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare…”. Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi. Ad un’attenta lettura balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte. Tuttavia, sarebbe fuorviante fermare l’attenzione esclusivamente sul seme, infatti, la figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria alla narrazione. Dicendo “uscì il seminatore a seminare”, la parabola fa subito intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno.

Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti diversi dell’unica seminagione fatta da Gesù. La parabola racconta la storia del suo ministero. E’ una parabola cristologia, anche se poi le successive comunità dei discepoli vi leggeranno la propria storia. Ma ritorniamo alla struttura della parabola. I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento; caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto.

L’evidente insistenza sulla sfortuna del contadino conferma quanto abbiamo già intravisto: e cioè che la situazione in cui la parabola va collocata è quella di una fatica che pare troppo spesso inutile e di un insuccesso della Parola che sembra totale o quasi. Tuttavia, le cose non stanno così, dice la parabola. E’ vero che ci sono gli insuccessi, anche ripetuti, ma è certo, sempre certo, che una parte del seme frutta. Quindi, fratelli e sorelle, questo è un invito alla fiducia. In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto. Non raramente è più difficile aver fiducia nell’efficacia della Parola piuttosto che fede nella sua verità. In un certo senso, possiamo paragonare la parabola del seminatore ad una storia a lieto fine: dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica. In ogni modo di fronte alla ripetuta constatazione che in molti terreni il seme non frutta, sarebbe logico chiedersi per quali ragioni questo accadesse. Domanda importante, alla quale il Vangelo risponde più avanti.

Tuttavia, l’interesse prevalente della parabola è un altro, come dicevo all’inizio. Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare, è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolinenando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra chiaramente la situazione storica ed esistenziale in cui la parabola va letta: una situazione nella quale il lettore cristiano non ha difficoltà a scorgere l’esperienza di Gesù e la propria. Proprio per questo Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con “gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono”. Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: “dava frutto, rendeva il trenta ecc…”. In tal modo la parabola invita il lettore a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Non solo, la quantità di seme caduta in terreno cattivo è espressa al singolare: una parte, un’altra parte. Diversamente, per indicare la quantità di seme caduta in terreno buono, è usato il plurale: altre parti. Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande.

Ma è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima. Molto spesso si legge la parabola come se la fiducia richiesta al seminatore fosse innanzitutto rivolta al futuro. Se così fosse, il messaggio centrale della parabola sarebbe sostanzialmente ovvio. Al contrario, la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro. Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, domani invece se ne vedrà il frutto abbondante. La differenza come possiamo vedere, infatti, è tra terreno e terreno, non fra tempo e tempo. Vale a dire che nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successo sono la sorte del seme. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta. L’importante per chi facesse sua questa fiducia non pretenda che il seme crescesse sempre e ovunque. Piuttosto, la certezza che da qualche parte, già ora, esso dia frutto, offre la possibilità di accorgersene, non soltanto la pazienza di attendere. Comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace. Vorrei rammentare a tale proposito una frase di Gesù in Giovanni 4,15: “Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”.

Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino, succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino? Non stupisce lo spreco di un contadino palestinese (questo era proprio il modo di seminare degli antichi palestinesi), ma quello di Dio sì. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe evitarlo, proprio perché Dio? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non fosse collocata nell’evento di Gesù. E’ qui che si chiarisce. Nessuna parabola può essere letta diversamente. Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto la storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza d’amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio. A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcolo.

Dopo avere accuratamente analizzato la parabola del seminatore, se leggiamo la spiegazione, si ha subito l’impressione di trovarsi in un mondo diverso. Essa assume quasi i connotati di trasformazione allegorica, nella quale ciascun tratto ha il suo corrispondente: il seme è la Parola, i quattro terreni sono i differenti tipi d’ascoltatori, gli uccelli sono l’immagine di satana, il terreno sassoso è l’uomo facile all’entusiasmo e volubile, le spine e le molte passioni che soffocano il cuore dell’uomo. Ma stranamente nulla si dice del seminatore, che in tal modo conserva la sua ricca ambiguità, al tempo stesso figura di Dio Padre, di Gesù e degli evangelizzatori che ne continuano l’annuncio. Colpisce ancora di più lo spostamento dell’attenzione, dal seme ai terreni, e non soltanto, come nella parabola, si costata che ci sono terreni buoni e cattivi, ma ci si premura indicarne le ragioni. A differenza della parabola che è essenzialmente una risposta ad una domanda teologica, la spiegazione ha un’intenzione morale, invita all’impegno.

E non è indirizzata ai missionari della Parola, ma ai molti ascoltatori che, dopo averla ascoltata, rischiano di mortificarla. Il problema se la Parola è efficace diventa il problema di come renderla efficace. L’attenzione si sposta dalla Parola alla sua accoglienza, da Dio all’uomo. L’incoraggiamento si trasforma in avvertimento. Al primo tipo d’ascoltatori appartengono gli uomini nei quali la parola seminata resta del tutto inerte, non riesce nemmeno a mettere le radici. La parola sparisce non lasciando traccia. Che esistano degli ascoltatori è un dato di fatto, ma individuare le ragioni di tale impermeabilità non è facile. E così il testo dice sbrigativamente che è satana a portare via da loro la Parola, omettendo alcun tentativo di spiegazione psicologica. Si afferma però con chiarezza che la colpa non è della semina, significativamente menzionata due volte, ma del terreno.

Al secondo tipo appartengono gli ascoltatori entusiasti, che in fretta gioiscono e altrettanto in fretta si abbattono. Ciò che li caratterizza è l’avverbio “subito”, come nel primo tipo: là era usato per esprimere la superficialità dell’ascolto, qui per rilevare la fragilità del carattere. L’analisi di questo genere di credenti ( si tratta di credenti, infatti, perché non solo ascoltano la Parola, ma l’accolgono gioiosamente) è molto precisa. Sono uomini che comprendono e si entusiasmano, ma sono privi della solidità necessaria per perseverare. Al sopraggiungere della tribolazione e della persecuzione, la loro fede subito vacilla. La parabola allude alla fede, non soltanto alla coerenza morale: tale è, infatti, il senso biblico del verbo scandalizzarsi. Tribolazione è un termine che può significare qualsiasi afflizione. Ma qui si precisa che si tratta di un’afflizione a motivo della Parola: certo si allude alle persecuzioni.

Il terzo tipo d’ascoltatori è disegnato con tratti marcati. Ciò che qualifica questi credenti non è la fragilità del carattere, l’entusiasmo e lo scoraggiamento facile, ma l’eccesso d’interessi. Nel loro animo e nella loro vita la Parola soffoca (l’immagine è molto espressiva) perché è priva di spazio e manca d’aria. Gli interessi eccessivi, o le passioni smodate, si insinuano in questi uomini con nascosta prepotenza, sconvolgendoli alla radice. Il verbo “entrare dentro” suggerisce con grande efficacia che queste passioni modificano l’essere dell’uomo, non solo il suo agire. Il cuore distratto e appesantito diventa del tutto incapace di avvertire ciò che vale. Non soltanto non accoglie la Parola, ma ne perde il gusto. E a soffocare la Parola non sono le passioni eccezionali, ma quelle comuni, quotidiane: le preoccupazioni per gli affari, l’attrattiva del denaro, le smodate ambizioni d’ogni genere. Naturalmente questo rilievo non va letto in un quadro di rifiuto delle cose materiali perché indegne, degli impegni del mondo perché terrestri, della ricchezza perché vanità, ma nella prospettiva evangelica della Libertà e del Regno. L’insistenza particolare nel descrivere le ragioni dell’infruttuosità della Parola presso gli ascoltatori del secondo e del terzo tipo lascia intravedere che questi erano, di fatto, i veri motivi per cui molti venivano meno di fronte alle esigenze della Parola. Un panorama quanto mai abituale al giorno d’oggi.

Del quarto tipo d’ascoltatori si dice semplicemente che sono il terreno buono. Perché lo sono non è detto. Le qualità che fanno di costoro il terreno0 ideale per la Parola non interessano. Si descrive invece che cosa fanno: ascoltano, accolgono e portano frutti. Il percorso è completo.

L’ascolto della parola e il vero discepolo.

Capitolo 8,16-21

*Nessuno accende una lampada per coprirla con un vaso e per metterla sotto il letto, ma la mette sul lampadario perché chi entra veda la luce. *Non c’è nulla di nascosto che un giorno non sarà manifestato, né segreto che non sarà conosciuto e venga alla luce. *State attenti dunque a come ascoltate, perché a chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che crede di possedere. *Vennero da lui la madre e i suoi fratelli, ma non lo potevano avvicinare a causa della folla. *Gli fu annunciato: Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e vogliono vederti. *Ma egli rispose: Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica.

L’istruzione dei discepoli si conclude con una raccolta di quattro sentenze sull’annuncio e l’ascolto della parola e con la precisazione circa la vera parentela con Gesù, che è ancora un invito al retto ascolto della parola. I versetti sono costituiti da similitudini, illustrati da proverbi orientali e inframmezzati da parole esortative. La similitudine della lampada pone in risalto che il mistero del regno di Dio, comunicato segretamente da Gesù ai discepoli, non resterà nascosto, ma sarà posto dalla comunità cristiana sul lampadario perché risplenda per tutti, infatti, a lungo andare tutto viene alla luce. Quindi, tutto ciò si riferisce all’insegnamento del Maestro, poiché la rivelazione del regno tende di sua natura ad illuminare tutti, proprio come una lampada. L’immagine della misura (…a chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che crede di possedere) pone l’accento sull’importanza delle disposizioni degli ascoltatori. La similitudine della misura, in questo contesto, indica che, proporzionalmente all’attenzione e allo zelo con cui si ascolta la parola, Dio ricambierà con nuove rivelazioni e grazie: dal momento che la ricchezza suole moltiplicarsi, la povertà (=indifferenza, cattive disposizioni ecc..) porta alla miseria completa (=abbandono da parte di Dio). Le parole di Gesù non trattano di una teoria da annunciare o commentare, ma una forza che decide il destino definitivo dell’uomo.

L’episodio della madre e dei fratelli (tutti i parenti) che cercano Gesù, diventa in Luca l’occasione per l’ultima sentenza, che conclude e completa l’istruzione sull’ascolto della parola. Gesù spezza per primo, a nostro esempio, quei vincoli naturali con i suoi che gli impedivano di adempiere radicalmente la sua missione. In pratica Gesù si sente vicino e familiare con tutti quelli che si lasciano coinvolgere nel suo stesso progetto: la folla, i discepoli.

Gesù domina la tempesta sul lago.

Capitolo 8,22-25

*Un giorno salì su una barca con i suoi discepoli e disse loro: Passiamo all’altra riva del lago. E presero il largo. *Mentre navigavano egli si addormentò. Una bufera di vento si abbatté sul lago; la barca cominciò a riempirsi d’acqua, ed erano in pericolo. *Accostatisi, lo svegliarono dicendo: Maestro! Maestro! Siamo perduti! Ma egli, svegliandosi, comandò al vento e alle onde minacciose; e quelle si quietarono e si fece calma. *Disse allora ai discepoli: Dov’è la vostra fede? E quelli spauriti e meravigliati si domandavano l’un l’altro: Chi è dunque costui che comanda ai venti e alle onde e gli ubbidiscono?

Il racconto del miracolo sul lago procede con un ritmo a contrappunto. La conclusione serena e familiare, anche se faticosa, di una giornata con i preparativi per la traversata del lago contrasta con l’improvviso scatenarsi della burrasca. E’ notevole l’insistenza sulle espressioni che descrivono l’infuriare del turbine sul lago. Tutto ciò è molto simile ai giorni in cui la vita assomiglia ad una piccola barca in balia delle onde del mare agitato. Tutto è scuro intorno, c’è tempesta. Dio pare non esserci, Gesù è assente, nessuno vicino per aiutare, incoraggiare. Si ha voglia di mollare tutto! Meditiamo attentamente la storia della tempesta del lago calmata. Durante la riflessione, immaginiamo di stare sulla barca insieme a Gesù e ai discepoli, cerchiamo di condividere con loro ciò che accade e facciamo attenzione all’atteggiamento di Gesù ed alla reazione dei discepoli. Nella struttura letteraria del miracolo l’infuriare della bufera contrasta con la serenità di Gesù che dorme a poppa. Alla tranquillità di Gesù fa da contrasto la paura che rende i discepoli incontrollati e aggressivi: Maestro, non ti importa che noi andiamo perduti?

Il fatto è che era stato un giorno pesante, di molto lavoro. C’era talmente tanta gente che Gesù, per non essere schiacciato dalla folla, dovette entrare in una barca per istruire con parabole. In quel periodo c’erano giorni in cui non c’era tempo nemmeno per mangiare. Terminata di narrare la parabola con cui istruiva la gente, Gesù disse ai discepoli: Passiamo all’altra riva! E così come stava lo condussero con la barca. Gesù si addormentò all’istante.

Il lago di Galilea è vicino alle alte montagne, come il nostro lago di Garda. E vi dico che quando si scatena una burrasca sul lago è cosa da far accapponare la pelle anche ai più navigati barcaioli. Il vento soffia forte e provoca tempeste e ondate dove il sole sparisce. Tutto è buio e nero. Anche quel giorno il vento soffiò forte agitando l’acqua. La barca si riempì d’acqua. I discepoli erano pescatori sperimentati, tuttavia pensavano che sarebbero affogati, e questo significava che la situazione era disperata a causa della tempesta. Gesù, dal canto suo, continuava a dormire tranquillo e sereno. A questo punto facciamo una prima considerazione. Il sonno profondo di Gesù non è solo segno di un’enorme stanchezza. E’ anche espressione della fiducia tranquilla che ha in Dio. Il contrasto tra l’atteggiamento di Gesù e i discepoli è grande!

Gesù si desta non a causa della burrasca ma per il grido disperato dei discepoli: Maestro! Signore, non ti importa che stiamo affondando? Gesù si alza. Prima si dirige verso l’acqua del lago e ordina: Taci, calmati! E il lago placa la sua furia. Poi subito si dirige verso i suoi discepoli e dice loro: Perché temete, uomini di poca fede? La mia impressione è che si poteva fare a meno di chetare la tempesta, poiché con Gesù non si corre nessun pericolo. Mi torna alla mente il salmo 22: “Anche se mi trovassi in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me”.

I discepoli s’interrogarono dicendo: “Chi è quest’uomo?” I discepoli alla domanda di Gesù non sanno cosa rispondere perché nonostante il lungo tempo trascorso insieme, non sanno veramente chi è. Chi è quest’uomo? Con questa domanda in testa, le comunità d’ogni tempo continuano la lettura, per approfondire e desiderare di conoscere maggiormente Gesù nella propria vita.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Ho parlato di comunità (infatti, quella barca rappresenta una comunità), che in realtà significa essere Chiesa (popolo di Dio), ed è nel suo aspetto umano, un’entità minacciata. E non può essere altrimenti, perché Dio non è ancora tutto in tutti. La Chiesa è di natura divina, tuttavia il corpo, vale a dire il popolo che la forma, è di natura umana, terrena, soggetta quindi alle tentazioni dell’avversario. Però il suo essere è garantito, preservato, inattaccabile, ma solo dall’alto, ossia da Dio, e non dal basso, ossia dagli uomini che ne fanno parte: La Chiesa nella misura in cui fa dipendere il suo essere da Dio nell’evento della sua Parola e del suo Spirito Santo, è sottratta alle minacce, giustificata, santificata, purificata, preservata dal maligno. Nel suo Signore Gesù Cristo trova la sua unica garanzia; solo da lui riceve la promessa; solo guardando a lui acquista la sicurezza della sua durata. Da parte degli uomini che ne fanno parte non esiste, infatti, alcuna garanzia del genere per la Chiesa. Rimane sempre, accanto alla fede, la possibilità dell’incredulità, dell’eresia, della superstizione, come pure dell’ignoranza, dell’indifferenza, dell’odio, della disperazione, perfino dell’impotenza delle preghiere; e ciò finché durerà il tempo, finché la manifestazione finale della vittoria di Gesù Cristo non avrà dissipato anche quest’ombra.

La liberazione dell’indemoniato di Ghergesa

Capitolo 8,26-39

*Approdarono quindi nella regione dei ghergeseni che sta sulla riva opposta alla Galilea. *E, sceso sulla terra, gli si fede incontro dalla città un uomo posseduto da demoni: da molto tempo non portava vesti, né abitava in casa, ma nei sepolcri. *Veduto Gesù, gettò un grido, gli si gettò ai piedi e a gran voce disse: Che vuoi da me, Gesù, figlio di Dio altissimo? Ti prego, non tormentarmi! *Perché Gesù aveva ordinato allo spirito impuro di uscire da quell’uomo. Più volte infatti lo spirito si era impossessato di lui; allora lo legavano per trattenerlo, con catene e con ceppi, ma egli spezzava i legami e veniva spinto dal demonio in luoghi deserti. *Gesù gli domandò: Come ti chiami? Legione, rispose, perché molti demoni erano entrati nell’uomo. *E lo supplicavano di non ordinargli di andare nell’abisso. *C’era una grossa mandria di porci sul monte a pascolare, e lo pregarono che li lasciasse entrare in loro; ed egli acconsentì. *I demoni uscirono dall’uomo ed entrarono nei porci: e la mandria precipitò dall’alto della scarpata giù nel lago e affogò. *A quella vista i guardiani fuggirono e divulgarono la notizia in città e per le campagne. *La gente venne per vedere l’accaduto; arrivarono da Gesù e trovarono l’uomo dal quale erano usciti i demoni seduto, vestito e sano di mente ai piedi di Gesù, e furono presi da paura. *Coloro che avevano veduto il fatto raccontarono come era stato salvato l’indemoniato. *Allora tutta la popolazione del territorio dei ghergeseni gli chiese di allontanarsi perché era in preda a un grande spavento. Ed egli rimontò in barca per partire. *Ora l’uomo dal quale erano usciti i demoni lo pregava di tenerlo con sé, ma Gesù lo congedò discendo: *Torna a casa tua e racconta quanto Dio ha fatto per te. Ed egli se ne andò proclamando per tutta la città quello che Gesù aveva fatto per lui.

Ci troviamo di fronte ad uno dei più strani racconti del vangelo di Luca. L’attenzione è subito polarizzata dal curioso intermezzo della mandria di porci che affoga nel lago. Tuttavia questo non deve far perdere di vista il fulcro di tutta la narrazione: l’incontro di Gesù con un uomo straziato da una furia di violenza e di morte e il gesto liberatore che lo reintegra nella dignità umana. La struttura del racconto segue lo schema degli esorcismi o liberazioni d’indemoniati (Mc.1,23-27); l’incontro tra Gesù e l’indemoniato, 5,6; il dialogo, la richiesta del nome e l’ordine di Gesù, 5,7-10; la descrizione dell’effetto ottenuto, 5,13.14-16.

L’indemoniato vede da lontano Gesù, appena sbarcato, e gli corre incontro; ciò che accade dopo è raccontato da due serie di testimoni, dai guardiani, 5,14, e da chi avevano veduto 5,16. Il folle abitava in qualche caverna naturale o artificiale, posta in mezzo ai giardini o ai campi, spesso a fianco di una montagna. Un posto tranquillo e abbastanza isolato. Si trattava di un ossesso dotato di forze non comuni. Marco, infatti, ci fornisce tutta una serie di caratteristiche di questa psicosi, una serie di particolari che è difficile escludere l’idea di una gran popolarità del soggetto in questione. Tanto che la descrizione stessa è tra le più drammatiche del suo vangelo. Il folle era così esagitato che, pur essendo stato più volte legato, prima ai piedi, poi anche alle braccia, con ceppi e catene, egli aveva sempre infranto gli uni e spezzato le altre. Per questa ragione si era deciso di espellerlo dalla città, relegandolo presso un cimitero. La sua malattia aveva preso un decorso progressivo inarrestabile, diventando sempre più preoccupante.

Il folle dopo avere riconosciuto Gesù quale Figlio di Dio, lo scongiura di non tormentarlo e di non scacciarlo da quella regione. Tanto che Gesù chiese come si chiamasse il demone tormentatore: Legione, rispose. Lì nei pressi vi era la presenza di una mandria di porci (ci troviamo in un territorio semi pagano, infatti, la carne di maiale rappresentava un tabù per gli ebrei). Con la suddetta presenza, il dramma cambia improvvisamente di scena, forse perché si era determinata una sorta di stallo fra i due. Soltanto quando il folle getta uno sguardo su quel branco di maiali, la situazione si sblocca e procede avanti. Ecco che il folle fa la sua proposta a Gesù, vale a dire di mandare la legione da quei porci, per entrare in loro. Gesù acconsente e ordina a quei demoni di uscire da quell’uomo. Il branco precipitò nel burrone del lago e affogarono uno dopo l’altro. Ciò che importa sono le reazioni degli uomini ai fatti, e i fatti sono due: la guarigione e la strage. I guardiani dei porci fuggiti per la paura, si recarono ad avvisare i proprietari, la gente di campagna, i discepoli di Gesù e pochi altri.

Qual è la reazione della gente? Paura, paura dell’esorcismo. Prima avevano paura della follia, ora della guarigione; prima temevano di contagiarsi, ora di ricredersi. L’atteggiamento sembra molto schematico, unilaterale, ma il fatto è che le cose siano cambiate così all’improvviso, a loro insaputa, li sconcerta, li sgomenta. Il geraseno, ora è seduto, vestito e sano di mente. L’evidenza di questo rassicurante comportamento dovrebbe far capire agli astanti che il “folle” non è più lo stesso, che qualcosa di decisivo è avvenuto dentro di lui, permettendogli di ritrovare la lucidità mentale, la cosiddetta “normalità”. In altre parole era guarito. Il mostro è rinsavito, non ha più bisogno d’essere legato o tenuto ai margini della società. Gesù risanando il folle gli offre una prospettiva di vita nuova, senza strapparlo dal suo ambiente naturale e sociale: lo invita a riprendere il rapporto con gli amici di un tempo e con i parenti, a riconciliarsi con loro, perché è solo facendo comunità che egli potrà vincere la situazione di diffidenza. Luca ha collocato quest’episodio nel ciclo dei miracoli con l’intento di dimostrare la potenza straordinaria di Gesù che si rivela in territorio pagano a favore di un uomo, come abbiamo visto, dominato dallo spirito immondo.

Il tutto è proposto in modo plastico nella descrizione dell’indemoniato, l’uomo che abita nei sepolcri, particolare ripetuto tre volte, in altre parole in una zona impura, estranea al mondo del sacro e del divino, in preda alla furia e violenza incontrollata dello spirito. Questi due tratti caratterizzano la forza demoniaca come potenza di morte e di distruzione disgregatrice della dignità e libertà umana. In quell’ambiente Gesù lascia un segno vivente, un testimone della potenza liberatrice di Dio.

Come abbiamo meditato, anche ai pagani è annunciata la salvezza, attraverso la testimonianza dell’uomo guarito. Così da un episodio “prodigioso”, sconcertante, può nascere la fede sincera. Non sempre siamo in grado di valutare il livello di fede di molta gente, che volentieri chiameremmo “pagana” per via delle sue manifestazioni religiose che sconfinano nella superstizione, nel culto dei morti, in atteggiamenti pre-cristiani, in una fiducia quasi cieca nella potenza taumaturgica di un santo. Sono questi i poveri che sovente non hanno altri mezzi espressivi per tradurre i loro sentimenti profondi e la loro appartenenza a Cristo Signore. Ma tutto ciò non esclude, anzi raccomanda – secondo lo spirito del vangelo – ogni sforzo per purificare e illuminare attraverso la parola, la “verità” dei gesti liturgici ed ecclesiali come risposta alle attese di chi non ha imparato a riconoscere perfettamente chi è Gesù, Figlio di Dio Salvatore. Più difficile è trovare una via per i “nuovi pagani”, soddisfatti dalla civiltà dei consumi e del benessere materiale. Come rompere quel terribile dominio di satana che è il denaro, come diventare un popolo di poveri nello spirito, come resistere all’indifferenza e all’isolamento che il credente prova in un mondo che non crede e per il quale la persona e la parola di Gesù è insignificante? Questi sono i problemi del popolo di Dio, del Regno di Dio oggi, davanti ai quali ci è indicata la solitudine e la dedizione di Gesù alla sua missione.

Guarigione di una donna e risurrezione di una bambina.

Capitolo 8,40-56

*Al suo ritorno Gesù fu accolto dalla folla, perché tutti stavano ad aspettarlo. *Ed ecco che arriva un uomo di nome Giairo, presidente della sinagoga, che, gettatosi ai piedi di Gesù, lo supplicava di andare a casa sua *dove l’unica sua figliola, una fanciulla di dodici anni, stava per morire. Mentre Gesù si avviava, la folla gli si accalcava attorno. *E una donna che da dodici anni soffriva di emorragia (aveva speso tutti i suoi proventi in medici) e nessuno era riuscito a guarirla, *gli si accostò di dietro e gli toccò la frangia del mantello. E sull’istante le si arrestò il flusso di sangue. Gesù domandò: Chi mi ha toccato? Siccome tutti negavano, Pietro gli rispose: Maestro, la gente ti stringe da ogni parte e ti opprime. *Ma Gesù replicò: Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una forza è uscita da me. *Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tutta tremante e, gettatasi ai suoi piedi, raccontò davanti a tutti per qual motivo lo aveva toccato e come sull’istante era stata guarita. *Egli allora le disse: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace. *Mentre ancora parlava, venne uno dalla casa del presidente della sinagoga a dirgli: Tua figlia è morta, non disturbare più il maestro. *Ma Gesù che aveva sentito disse al padre: Non temere, soltanto abbi fede e sarà salva. *E, arrivato alla casa, non permise che alcuno vi entrasse con lui, salvo Pietro, Giacomo e Giovanni, il padre e la madre della bambina. *Tutti piangevano e facevano lamento su di lei. Ma egli disse: Non piangete, non è morta, ma dorme. *E ridevano di lui, sapendo che era morta. *Ma egli la prese per mano e ad alta voce esclamò: Fanciulla, sorgi! *Quella si rianimò e all’istante si rizzò in piedi. Gesù ordinò di darle da mangiare. *I genitori furono sconvolti. Ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto.

Gesù è sempre in cammino. Sbarcato sull’altra riva del lago, il capo della sinagoga Giairo, cerca Gesù perché sua figlia è ammalata e lo prega di aiutarlo. Strada facendo accade un fatto. Tra la folla c’è una povera donna, esclusa e umiliata per la sua condizione fisica, al punto di non osare apparire in pubblico. La sua emorragia cronica, secondo le prescrizioni religiose del tempo, la rende impura, in altre parole intoccabile e contagiosa per chiunque, tanto più per un profeta come Gesù (Lv.15,19-30). Infatti, secondo la legge ebraica, la donna è impura per tutta la durata del ciclo mensile e deve avvertire del proprio stato non soltanto il marito (per il divieto di rapporti sessuali), ma anche tutti gli altri maschi della famiglia: essi devono evitare scrupolosamente di toccarla o di toccare qualsiasi oggetto che sia stato in precedenza toccato da lei, per non divenire a loro volta impuri.

Il caso dell’emorroissa contempla l’irregolarità, giacché il periodo d’impurità non è prevedibile. Perciò la donna si trova in stato d’impurità permanente, ed è letteralmente esclusa dalla società, almeno dal consorzio maschile, quasi come se si trattasse di una lebbrosa, con l’aggravante psicologica che la sua presunta malattia abbia una connotazione legata al sesso. E’ a questo punto che inizia la storia di liberazione. Le sue implicazioni più profonde rischiano di sfuggire a chi legge con superficialità il testo evangelico. Infatti, Gesù con quest’incontro, abbatte e denuncia il tabù della femminilità, del sangue e del sesso, che esiste nella Giudea. Tutta la narrazione, nell’ambiente in cui è inserita, ha una portata dirompente e rivoluzionaria. In primo piano, si trova l’atteggiamento libero e creativo di Gesù nei confronti della Legge ebraica e soprattutto in rapporto alla questione cruciale del puro e dell’impuro. Non solo, leggendo il testo in un’ottica attualizzante, riscontriamo il problema tra vecchio e nuovo alla luce della fede che salva. Il racconto è molto semplice. La donna che soffre di emorragia da dodici anni approfitta dell’affollamento intorno a Gesù per toccare di nascosto il suo mantello e non la sua persona, persuasa nell’intimo che il semplice contatto basterà a guarirla. E, infatti, è guarita.

Il contatto furtivo con la frangia del mantello di Gesù si è trasformato, grazie alla sua iniziativa di misericordia, in un incontro che le dà la “pace”, in pratica la piena comunione e dignità di figlia di Dio. Come possiamo notare, vi è dunque una crescita dalla fiducia alla fede, dalla segregazione umiliante alla gioiosa liberazione. La fiducia primitiva della donna è accolta da Gesù e trasformata in fede che dona la salvezza e con lei la guarigione. Poiché è venuta a contatto, non con una forza o magnetismo guaritore, ma con la potenza salvifica del Figlio di Dio, essa può proclamare “davanti a tutti”, la sua domanda di salvezza e quanto le è avvenuto. Questo episodio ci pone davanti ad un miracolo molto trasgressivo, su due fronti: da una parte di chi lo compie come di chi lo riceve.

La donna ha un ruolo molto attivo nella vicenda, più di qualsiasi altro miracolato dei Vangeli: di fatto è lei a determinare lo svolgersi dell’accaduto. Non si limita, come altri sofferenti, incontrando Gesù, ad invocare a parole il suo intervento (umanamente potremmo anche affermare che la donna agisce in questo modo poiché trattenuta dalla vergogna). Tuttavia, con un atto di volontà vuole assicurarsi l’intervento, vuole pilotarlo da sé senza tentennamenti e dubbi di sorta: “Se solo riuscirò a toccare il suo mantello, sarò guarita”.

Qui mi fermo un istante per una brevissima riflessione. Purtroppo la nostra concezione di fede è più mentale, più asettica; al contrario dell’agire della donna, almeno all’inizio, dal momento che riscontriamo una certa dose di superstizione (spiegabile psicologicamente e storicamente). Tuttavia il “toccare” esprime la pienezza dell’incontro personale e dell’adesione di fede. Il gesto proibito della donna manifesta certo una disperata volontà di guarire (similmente come la volontà di Zaccheo di vedere Gesù, cui segue l’incontro), ma anche una fede assoluta in Gesù, ben più forte d’ogni timore. Essa è tutta protesa verso Gesù, anche se non sa spiegarsi la causa di quello stimolo interiore, si rende conto del fatto che in lui si trovano la salvezza e la liberazione e la desidera per sé. Quasi a scacciare il senso di superstizione che qualcuno potrebbe ricavare, Gesù con le sue parole la innalzano nell’ambito della coscienza di fede. Attraverso quel contatto che ha ricercato sfidando la proibizione, è risanata; e anche lodata per la sua fede e il suo coraggio e chiamata “figlia”. Reintegrata in pratica nel consesso del popolo eletto.

L’esempio della professione di fede nel Signore Gesù fa nuove tutte le cose e chiama ciascuno (come la donna) ad una fede più convinta e matura, capace di tradursi in testimonianza coerente e responsabile. E’ Gesù, infatti, la rivelazione piena del Vangelo dell’amore, ed è lui che, con il dono dello Spirito Santo, fa nascere nell’umanità una storia concreta d’amore e carità. Quindi volgere lo sguardo a Gesù significa, perciò, aprirsi ad una coraggiosa verifica per vedere quanto ci siamo lasciati plasmare dal “Vangelo dell’amore”.

Vale a dire che, come la donna emorroissa passò da una fede primitiva ad una di cuore, anche noi dobbiamo passare da una “fede di consuetudine” ad una “fede di convinzione”. A questo punto tutti noi siamo pronti e preparati a percorrere con Giairo l’ultima tappa della fede cristiana che stiamo meditando. Giairo aveva già espresso in modo esemplare la sua fede nella potenza salvifica di Gesù, “Vieni, imponi le tue mani…” Ma mentre Gesù stava ancora parlando qualcuno giunge dalla casa del capo della sinagoga portando la triste notizia che la figlia è morta. Quindi, “Perché disturbare ancora il Maestro?”. Qui assistiamo al tentativo di qualcuno di lasciar perdere tutto. Gesù, però, va lo stesso, anzi, invita Giairo ad avere fede e nel tragitto incontra persone, servi o parenti, che piangono e fanno lamenti funebri, addirittura qualcuno lo deride quando lui sostiene che la figlia di Giairo dorme e non è morta. Ma quale fede si esige davanti alla morte? Con allusioni discrete, ma abbastanza precise per il cristiano, l’evangelista ci fa intuire la dimensione pasquale del miracolo. Innanzitutto Gesù sceglie come testimoni del miracolo, i tre discepoli che lo accompagneranno sul monte della Trasfigurazione e nella notte dell’agonia nel Getsemani e che diventeranno le “tre colonne” della futura comunità di Gerusalemme. In altre parole sono presenti al miracolo, che anticipa la vittoria sulla morte.

Anche qui, come in precedenza, c’è un contatto: Gesù le prende la mano e dice: “Talitha kum”. E’ un ordine perentorio. La figlia di Giairo si alza e si mette a camminare. Lo stupore è una delle parti fisse nei racconti di miracolo e rileva la gratuità di qualcosa che è avvenuto e che non è dipeso da noi. Il miracolo, prassi d’antirassegnazione, ci lascia sempre a bocca aperta di fronte alle inedite possibilità di cambiamento. Dopo Gesù si rivolge ai genitori ordinando loro due cose: Non fare della propria figlia un fenomeno da baraccone (raccomandò che nessuno venisse a saperlo); di darle da mangiare. Quest’ultima azione così concreta e così importante pone l’accento che la ragazza ora viveva ma che doveva continuare a vivere.

Un’altra considerazione che possiamo trarre da questa vicenda è il confronto tra Gesù e la morte. Nella casa del capo della sinagoga già si celebrava la morte secondo i riti di partecipazione sociale al lutto. E anche qui vi è un contrasto evidente: Gesù ridimensiona la tragedia della morte e vuol gettare un velo su quello che ha compiuto. Cosa sia avvenuto in quegli istanti tra Gesù e quella ragazzina dodicenne, rimarrà sempre nel cuore di Gesù ed è giusto che “nessuno venisse a saperlo”, perché l’azione di Dio nel cuore di ciascuno e ciascuna di noi possa manifestarsi liberamente oltre gli schemi che a volte c’imprigionano, oltre la folla chiassosa di cui troppe volte facciamo parte, oltre la non voglia di vivere che paralizza.

L’insegnamento che ne traiamo è che come Elia nel deserto, come questa fanciulla, anche noi abbiamo bisogno di riprendere il cammino: un po’ di pane, una mano da stringere e quella parola: Talitha kum!, (Fanciulla, sorgi!).

Indice Vangelo di Luca