Vangelo di Luca – Cap. 18,1-8 al 18,35-43

Gesù guarisce il cieco - Carl Heinrich BLOCH

Parabola del giudice e della vedova.

Capitolo 18,1-8

*Raccontò poi una parabola sulla necessità di pregare con costanza senza scoraggiarsi. *C’era in città un giudice che non aveva il timor di Dio né il rispetto degli uomini. *C’era in quella stessa città una vedova, la quale andava da lui e gli diceva: Rendimi giustizia contro il mio avversario. *Per molto tempo egli si rifiutò. Ma poi pensò tra sé: Anche se non ho timor di Dio, né rispetto degli uomini, *tuttavia, per il fastidio che mi dà questa vedova, le renderò giustizia, perché non venga continuamente a seccarmi. *Ed il Signore proseguì: Avete udito quello che dice il giudice ingiusto. *Ora Dio non renderà forse giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte, anche se li fa attendere? Io vi assicuro che senz’altro renderà loro piena giustizia. *Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?

Gesù con questa parabola ci esorta alla preghiera di lode costante: “Vegliate e pregate in ogni momento perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. Dunque egli ci esorta alla preghiera comunitaria, cenacolare e singola assidua, continua, fatta in ogni momento e per qualsiasi necessità senza mai stancarsi. Ciò potrebbe rivelare una situazione di delusione provocata ( a volte qualcuno lo pensa) del comportamento di Dio Padre che sembra, talvolta, venir meno alle Sue promesse. Ecco perché non bisogna “stancarsi mai”, la perseveranza nella preghiera non è tanto l’insistenza nella domanda quanto l’ostinazione di fidarci di Dio.

E’ questo in sostanza l’introduzione e lo scopo della parabola; nondimeno se siamo stati attenti alla lettura ci si accorge che essa sottolinea non la perseveranza della preghiera, bensì il comportamento del giudice, cioè la prontezza di Dio nel far giustizia ai suoi discepoli. Infatti la figura principale non è la vedova, ma il giudice. Vedete, il punto centrale della parabola è la certezza dell’esaudimento. Se un uomo cattivo come quel giudice, che non aveva timore di Dio e non si curava di nessuno, si lascia alla fine, ridurre a fare giustizia dalla preghiera di una povera vedova, tanto più Dio esaudirà le implorazioni dei suoi figli. Se leggiamo la parabola in questo senso, comprendiamo che l’avere scelto come personaggio di riferimento un giudice senza coscienza e insensibile, non è stata una stranezza di Gesù. Gli serviva per dare forza al suo confronto. La richiesta della vedova (una donna debole, ma forte della sua ostinazione) ci suggerisce poi che non si tratta di una preghiera qualsiasi, ma di una richiesta importante: “Fammi giustizia”. Nell’insistenza della povera vedova è racchiuso tutto il disagio dei buoni e degli onesti, che hanno l’impressione che Dio, anziché intervenire, resti indifferente. Dio Padre è il difensore dei deboli e degli oppressi che vivono in uno stato di persecuzione, in attesa dell’intervento liberatore.

“Ebbene,–risponde Gesù con la parabola,–continuate a pregare con insistenza e con fiducia, perché l’intervento di Dio Padre è certo”. Non soltanto è certo, ma addirittura pronto: “Vi dico che farà loro giustizia”. Anche perché in quest’attesa paziente Dio vuole lasciare lo spazio alla conversione e alla salvezza. Ed è così che nasce il vero problema. Il fatto non è se Dio faccia giustizia sulla terra perché questo è sicuro. Il vero problema è se il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora fede? Come dire: “Non siate inquieti né scoraggiati, se Dio Padre sembra tardare, preoccupatevi piuttosto della vostra fede. Di fronte all’apparente assenza di Dio, la comunità dei discepoli è nella condizione di ricevere Gesù come Salvatore e convertirsi quotidianamente? Noi ben sappiamo che questa condizione si traduce in fede e coraggio nel testimoniare davanti agli uomini. Tale fedeltà si alimenta e si esprime nella preghiera costante e insistente. Una preghiera che non conosce depressioni e scoraggiamenti. Ecco allora che la parabola diventa insegnamento sulla preghiera, e la vedova, che con la sua insistenza strappa l’intervento al giudice, è un modello di perseveranza. Può essere riduttivo tutto ciò, ma in compenso il messaggio è concreto: “Attendere con fermezza e fiducia la venuta del figlio dell’uomo, cioè la giustizia, la liberazione definitiva in costante e coraggiosa preghiera”.

Il fariseo e l’esattore delle tasse nel tempio.

Capitolo 18,9-14

“Poi Gesù raccontò un’altra parabola per alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri. Disse: “Una volta c’erano due uomini: uno era fariseo e l’altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell’esattore delle tasse. Digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno”. L’agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!”. Vi assicuro che l’esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l’altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato”.

Gesù narrando questa parabola ci parla ancora della preghiera. Egli c’insegna che la preghiera è un’esperienza spirituale d’intensa intimità con Dio che ci è Padre: una preghiera che non guarda al cielo per scordare l’umanità, ma al contrario le schiude l’orizzonte di una salvezza totale e definitiva. La possibilità di chiamare Dio “Padre” non dipende dai nostri meriti, ma è dono dello Spirito Santo continuamente rinnovato dalla sua bontà che ha a cuore la sorte di tutti gli uomini.

Non vi siete mai chiesti come mai oggi le sètte e i movimenti religiosi esercitano tanto fascino? Una delle ragioni è senz’altro la proposta di verità indiscutibili e una prassi cultuale precisa che diano sicurezza, dispensino dal dubbio e dalla faticosa ricerca personale. Per questo nelle sètte e nei movimenti religiosi tutto è demandato al “capo carismatico”.

Ma l’obbedienza alle norme precise diventa un rassicurante quanto illusorio rifugio. Proprio come nella parabola che stiamo per commentare. Gesù, infatti, rappresenta l’atteggiamento religioso giusto e sbagliato mediante l’opposizione tra due protagonisti. Il primo è un fariseo, osservante scrupoloso della Legge, separato da quelli che egli ritiene peccatori e reprobi. L’altro è un pubblicano, cioè un esattore delle tasse a favore degli occupanti romani. E’ superfluo rammentare che gli appartenenti a questa categoria erano considerati sfruttatori e strozzini, odiati e segnati a dito dai pii israeliti. Gesù fa risaltare nettamente l’opposizione radicale tra i due personaggi nella rispettiva preghiera al Tempio.

Il fariseo dichiara la verità. E’ vero che osserva attentamente la Legge e ha grande spirito di sacrificio. Addirittura non si accontenta dello stretto necessario, fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescritto, ma due. Egli sta in piedi, con le braccia alzate e la testa rivolta verso l’alto. Ringrazia Dio, nella forma canonica della preghiera biblico-giudaica: la lode e il ringraziamento a Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini, e poi perché è ricco d’opere meritorie. Osserva attentamente la Legge e il compimento della volontà di Dio, anzi completa le prescrizioni rituali con pratiche supplementari. Formalmente, come possiamo notare, si tratta di una preghiera irreprensibile, non è una caricatura, perché si tratta dello spirito del fariseismo. Il suo torto non sta nell’ipocrisia, che Gesù smaschera senza mezze misure, bensì nella fiducia nella propria giustizia. Egli si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come premio che gli è dovuto per il bene fatto e per avere seguito le norme rigidamente.

Egli fa risalire a Dio, in un certo modo, la propria giustizia. Ha perso per strada la sua originaria dipendenza da Dio. Tant’è vero che , a parte il “Ti ringrazio” iniziale, non prega, non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né non gli domanda nulla. Si concentra su se stesso e si confronta con gli altri, emettendo giudizi piuttosto duri. E’ in questo suo atteggiamento che non c’è nulla della preghiera. Il pubblicano, l’esattore delle tasse, è spaesato, confuso nel luogo del culto, tanto che se ne sta in fondo, quasi temesse di disturbare, di essere un estraneo. Non è neppure in condizione di assumere il contegno normale di chi prega. Si batte il petto come un disperato, supplica istintivamente perché si sente peccatore che non è in grado nemmeno di elencare le sue colpe, sussurra, infatti: “Dio, abbi pietà di me peccatore”. E’ consapevole di essere un peccatore, sente il bisogno del cambiamento, di una rinascita e, soprattutto, ha la consapevolezza di non poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può solo sperare. Fa affidamento su Dio, nella sua misericordia, non su se stesso. Questa è l’umiltà di cui parla la parabola, l’atteggiamento che Gesù loda: non elogia la vita del pubblicano, come non ha disprezzato il fariseo. La morale della parabola è chiara e semplice: l’unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti a Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l’ha ricevuta come dono misericordioso dal Signore.

Ovviamente Gesù non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. Le sue opere sono buone, e tali restano (ci mancherebbe!). Non sono le sue azioni ad essere criticate, ma il modo di considerarle. E non perché egli le attribuisca a se stesso, come a volte si dice. In realtà le attribuisce a Dio. L’errore sta nel fatto di guardare Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece lo sguardo deve sempre andare da Dio a noi, non da noi a Dio. La nostra vita è stata pensata e voluta da Dio come una faticosa ricerca della verità, mettendo in conto anche il rischio di sbagliare. Dio non vuole semplicemente dei figli “obbedienti” (in ogni caso importante), ma dei figli capaci d’amare. Il cristiano non è perfetto, ma un perdonato. Solo chi si sente amato e perdonato sa amare e perdonare gli altri a sua volta. Conseguentemente è giustificato, cioè salvato.

Il regno di Dio è per i piccoli.

Capitolo 18,15-17

*Gli presentarono anche dei bambini piccoli perché li accarezzasse; vedendo ciò, i discepoli li rimproveravano. *Ma Gesù, chiamatili a sé, disse: Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, poiché a quelli che sono come loro appartiene il regno di Dio. *In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà.

Con questi tre versetti l’evangelista ci descrive la scena di Gesù che accoglie i bambini. I gesti amorevoli hanno un significato programmatico e traduce plasticamente la beatitudine: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio”. Infatti, rammentiamo che i bambini nella società antica non avevano nessun diritto e tutela giuridica e sociale, e dipendevano completamente dai loro genitori. I bambini ricevevano tutto necessariamente come un dono. Allo stesso modo nessuno può vantare una reale pretesa al regno di Dio solo per il suo stato e per la condizione sociale; soltanto coloro che riconoscono questo fatto e ricevono il regno come un dono vi entreranno. I bambini, come i malati e i diseredati, erano esclusi dalla vita religiosa ufficiale, ed erano presentati come il simbolo di coloro che non hanno pretese al regno, non come modello di innocenza e umiltà. Su questo sfondo l’atteggiamento di Gesù e le sue parole assumono una rilevanza innovatrice. Il regno di Dio, cioè il suo progetto salvifico, il suo interesse è per quelli che sono come bambini, in altre parole per gli uomini che hanno la semplicità e la ricettività non sofisticata dei piccoli.

Nella persona di Gesù Dio sta dalla parte degli indifesi, di quelli che non contano. La comunità cristiana è fedele a questa parola evangelica non soltanto quando accoglie, benedice e battezza i piccoli, ma anche quando garantisce per essi le condizioni spirituali e sociali che rendono vicini e operanti per i piccoli la giustizia e l’amore fedele di Dio, vale a dire il suo regno.

La condizione per entrare nel regno di Dio.

Capitolo 18,18-30

*Un notabile gli disse: Maestro buono, che devo fare per ottenere la vita eterna? *Gli rispose Gesù: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio. *Conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre. *E quello rispose: Tutto questo l’ho osservato fin dalla mia giovinezza. *Gesù, udita la risposta, soggiunse: Ancora una cosa ti manca: Tutto quello che possiedi vendilo, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi. *Ma egli, sentito questo, si fece triste perché era molto ricco. *Vedendolo, Gesù disse: Come è difficile a coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio! *E’ più facile a un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel regno di Dio. *Chiesero perciò quelli che ascoltavano: Allora chi si potrà salvare? *Egli rispose: Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio. *Gli disse allora Pietro: Ecco, noi abbiamo lasciato quello che possedevamo e ti abbiamo seguito. *Ed egli: In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio *Che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel mondo futuro.

La presentazione di un tale, che accorre sulla strada e si prostra davanti a Gesù e lo saluta con una formula inconsueta, è una caratterizzazione del personaggio. Essa contrasta fortemente con la mesta conclusione dell’incontro: Ma egli, sentito questo, si fece triste perché era molto ricco. Tra questi due momenti si svolge il dialogo tra Gesù e lo sconosciuto. Innanzitutto Gesù precisa il valore dell’appellativo Maestro buono; egli replica: Perché mi chiami buono? Nessuno è buon,o se non uno solo, Dio. La risposta di Gesù corrisponde perfettamente alla concezione biblica e giudaica, secondo la quale Dio solo è definito buono, perché usa misericordia, soccorre i poveri, difende i deboli. Gesù nella risposta al suo interlocutore, indicando la via per avere in dono o in eredità la vita eterna presso Dio, cita soltanto i comandamenti che riguardano i doveri verso il prossimo: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non attestare il falso, non rubare, onora tuo padre e tua madre.

Qualcuno potrebbe obiettare: e i doveri verso Dio? La risposta della tradizione evangelica è nota: il modo concreto di amare Dio e di essere fedeli a Dio è di amare e di essere fedeli all’uomo, nel quale Dio è diventato nostro prossimo. A questo punto l’uomo dovrebbe essere sulla via della vita eterna. Al contrario Gesù gli propone il test definitivo: Ancora una cosa ti manca: Tutto quello che possiedi vendilo, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi. Da notare che il giovane ricco è un buon giudeo perché ha osservato i comandamenti fin da piccolo, ma non è ancora entrato in comunione con Gesù, non è diventato cristiano. Il segno distintivo dell’identità del discepolo è di seguire Gesù, in altre parole di coinvolgere il suo destino con quello di Gesù, vale a dire amare e di essere fedele agli altri fino alla testimonianza suprema della croce. Non solo è difficile per il ricco entrare nel regno di Dio; è in concreto impossibile, come chiarisce il riferimento alla cruna dell’ago. La sorpresa dei discepoli è dovuta al fatto che essi ritenevano che la ricchezza fosse un segno del favore divino. Gesù insegna che nessuno può entrare nel regno di Dio grazie ai suoi possedimenti o ai suoi successi, il regno di Dio è un dono.

Gesù vuole dai discepoli la povertà e l’obbedienza: povertà del distacco affettivo, ma spesso anche povertà effettiva, che dà libertà, che favorisce il distacco e lo rende evidente. “Cristo spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo, fatto obbediente fino alla morte” (Fil.2,7-8), e per noi da ricco che era si fece povero (2 Cor. 8,9). Come portavoce, ancora una volta Pietro pone delle domande a proposito delle ricompense per chi accetta la sfida di Gesù ad una povertà radicale. Pietro fa il confronto tra sé e gli altri apostoli e il ricco che per amore delle ricchezze ha rinunciato a seguire Gesù e ne è soddisfatto. Pietro aveva lasciato la sua attività di pescatore in Galilea e la sua famiglia. I rischi e i sacrifici dei primi seguaci di Gesù non devono essere minimizzati. Nella “nuova era” del regno, essi condivideranno la gloria del Figlio dell’Uomo e saranno ricompensati con una comunità sociale e religiosa migliore. Gesù vede in loro il modello d’autentici cristiani e promette in cambio una ricompensa centuplicata: una fin da questo mondo, anche se avrà le sue ombre e non andrà esente da contrasti; e la ricompensa perfetta della vita eterna nell’altra. Non si rinuncia per rinunciare, ma in vista di una vita e dei beni più perfetti e abbondanti.

Annuncio della passione.

Capitolo 18,31-34

*Poi, presi con sé i dodici, disse loro: Ecco noi stiamo salendo a Gerusalemme, e tutto ciò che i profeti hanno scritto riguardo al Figlio dell’uomo si compirà. *Sarà consegnato ai pagani, sarà schernito, oltraggiato, coperto di sputi; *e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno, e il terzo giorno risorgerà. *Essi però non capivano nulla di tutto questo. Questa parola restava oscura per essi e non capivano ciò che egli voleva dire.

L’annuncio della passione rimuove alcuni dubbi, se mai ce ne fossero ancora, sulla vera identità di Gesù come Messia. Infatti, l’argomento della passione e morte di Gesù, con allusioni velate o con anticipazioni esplicite, percorre l’intero evangelo di Luca (5,35; 9,22.44; 12,50; 13,32-33; 17,25). Gesù proclama chiaramente che il suo futuro su questa terra implicherà sofferenza e morte secondo i piani di suo Padre: Sarà consegnato ai pagani, sarà schernito, oltraggiato, coperto di sputi; e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno, e il terzo giorno risorgerà. Attraverso questa griglia di lettura storica, su questa catena storica di persecuzioni e violenze da una parte e di fedeltà e amore dall’altra, anche il destino di Gesù, il Figlio dell’uomo, riceve un senso. L’annuncio dettagliato della passione e morte, seguita dalla risurrezione, è una piccola sintesi del catechismo primitivo, il nucleo più antico del vangelo, formulato dopo la Pasqua.

Una cosa notevole è che in questo sesto e ultimo annuncio, l’evangelista accentua con particolare insistenza l’incomprensione e la estraneità dei dodici. Soltanto l’intervento del Signore risorto e l’azione dello Spirito Santo toglieranno il velo a questa oscura vicenda di Gesù, facendo entrare i discepoli nella piena comprensione del piano di Dio. Per Luca questo è anche l’itinerario che deve percorrere ogni uomo che si pone alla sequela di Gesù.

Il cieco di Gerico.

Capitolo 18,35-43

*E mentre egli si avvicinava a Gerico, un cieco stava seduto a mendicare lungo la strada. *Egli sentendo la gente passare, domandò che cosa accadesse. *Gli risposero: Passa Gesù di Nazareth. *Egli gridò: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! *Quelli che camminavano davanti lo sgridavano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me! *Fermatosi, Gesù ordinò che gli fosse condotto. E quando gli fu vicino, gli chiese: *Che vuoi che ti faccia? Ed egli: Signore, che io possa avere di nuovo la vista. *E Gesù: Vedi di nuovo! La tua fede ti ha salvato. *E quello subito riebbe la vista e lo seguiva rendendo gloria a Dio. E tutto il popolo, vedendo questo diede lode a Dio.

Gesù non è in cammino da solo, con lui ci sono i discepoli e la folla. E’ con loro che sta compiendo il cammino verso Gerusalemme. Anche questa volta viene rilevato come il modo di fare di Gesù è molto diverso da quello di chi lo segue. Per i discepoli, il cieco che si mette ad urlare infastidisce, disturba. Per Gesù quel cieco è una persona da incontrare, da rispettare, da ascoltare. Già quest’aspetto ci dice come il seguire Gesù non è automaticamente garanzia di cambiamento ma si può fare, nostro malgrado, se ci si mette davvero alla scuola di Gesù e si fa quanto lui chiede.

Luca ci da tre indicazioni per farci capire la situazione in cui il povero si trova: l’uomo è cieco, è seduto lungo la strada, è un mendicante. Queste realtà che a noi possono apparire solo limiti, invece, nascondono significati capaci di andare oltre e preannunciano le premesse giuste per il cambiamento dell’esperienza dell’uomo. Più volte ho detto come proprio ciò che per noi è limite può diventare la sorgente della nostra forza, se permettiamo al Signore di agire in noi. Ed è questo che ci apprestiamo ad approfondire con la vicenda del cieco.

Lui è cieco. Per un non vedente tutto è sempre buio, è sempre notte. L’uomo non è però cieco dalla nascita se chiede a Gesù ” Che io possa avere di nuovo la vista”. Quest’uomo aveva assaporato la bellezza della luce e continua ad avere una profonda nostalgia di quella luce. Anche nei nostri bui più profondi se guardiamo bene, rimane la nostalgia della luce sperimentata, perché il Signore non gioca e non scatena black-out con la nostra vita, ma quando accende le “sue” luci, non le spegne più, anche se noi non ce ne accorgiamo.

E’ seduto lungo la strada. La strada solitamente è fatta per camminare e si percorre per raggiungere una meta. Il cieco, invece, sulla strada non cammina, non ha una meta da raggiungere, lui è fermo mentre attorno a lui c’è molto movimento. Molte volte la vita è simboleggiata con l’immagine della strada, con il cammino. Allora possiamo affermare che il cieco si è seduto ai margini della vita, della sua esperienza, non ha chiaro dove andare. Nel momento in cui gli verrà donata la possibilità di assaporare il gusto della vita, sarà proprio il “seguire Gesù lungo la strada” a caratterizzare la sua esistenza.

Il mendicare. Abitudine a chiedere, a dipendere dalla generosità degli altri, tutto ciò indica una situazione di povertà e anche d’umiliazione per la persona. Proprio questa abitudine diventa però la sua possibilità e la sua umiliazione si cambia nell’umiltà di chiedere ciò di cui ha realmente necessità: riavere la vista. Molte volte per orgoglio o per altre ragioni commettiamo la stupidità di non chiedere ciò di cui abbiamo bisogno. Per queste possibilità nascoste dentro l’esperienza del proprio limite, nell’intimo del cuore del cieco, non si è mai spento il desiderio di una vita nuova, di un incontro speciale. Per questo motivo è sempre attento ad ascoltare cosa accade intorno a lui.

Viene così a sapere che per la via sta passando Gesù, il Nazareno. Se prestiamo attenzione gli viene detto solo il nome e la città natale di Gesù. Non sono questi gli indizi capaci di fare di Gesù il Messia. Ma questo basta per far scattare l’incontro anelato e atteso da qualche tempo. Con ogni probabilità aveva già sentito parlare di Gesù e delle sue abilità taumaturgiche. L’uomo inizia a gridare una vera e propria professione di fede personale: ” Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me”. L’espressione “Figlio di Davide” dice tutta l’attesa messianica nascosta nel cuore di un giudeo. Per riconoscere il Messia non sono gli occhi fisici ma è necessario avere la luce interiore che illumina e guida. Alla fede si aggiunge l’invocazione d’aiuto: “Abbi pietà di me”, come a chiedere di manifestargli la realtà più vera dell’essere Messia, in altre parole andare incontro, usare misericordia, a chi è nel dolore, è misero, è povero.

Il grido di dell’uomo non significa solo la consapevolezza del suo bisogno di guarigione fisica. Esso dice la sua voglia di dare una svolta alla propria vita. Per questo lui non si blocca di fronte al suo male fisico, non rimane fermo a ciò che non può fare o non può avere. Semplicemente fa tutto quel che è in suo potere: urla forte, con quella parte di sé più vera. C’è una consapevolezza tenace in lui anche di fronte a tutti quelli che gli impongono di tacere: non solo grida ma “grida più forte”. Egli ha capito come l’incontro con Gesù può trasformare la sua esistenza e non vuole lasciarsi sfuggire quest’occasione. Riflettiamo un istante sulle reazioni dei molti che stanno camminando con Gesù. Di fronte al grido di quest’uomo, lo zittiscono, lo sgridano. Quante volte i discepoli hanno pensato di dover proteggere Gesù dalle insistenze della gente che andava a lui. Poco prima lo hanno fatto con i bambini che gli facevano festa. Folla e discepoli diventano una possibile barriera nell’incontro dell’uomo con Gesù. C’è sempre contrasto tra il modo di agire di Gesù e le reazioni di chi lo segue.

La folla ha degli schemi di comportamento e il cieco deve superare anche questo blocco esterno. E’ il suo desiderio interiore che supera il limite imposto dall’esterno. D’improvviso la scena cambia, simile ad un procedere al rallentatore. Gesù si ferma. Lui non può essere sordo al grido di quest’uomo. Intorno cala il silenzio. Solo una parola si sente: “Chiamatelo!” Con l’imperativo è espresso, in modo delicatissimo, come Gesù è capace a cogliere ogni occasione per educare i suoi discepoli. Cambiano le parole, si modifica il tono di voce. Se poco prima c’era chi in modo autoritario e sprezzante voleva imporre il cieco al silenzio, adesso c’è un farsi vicino e sostenere l’uomo dandogli fiducia. Più stiamo con Gesù e ci lasciamo educare da lui, più anche i nostri modi di fare possono modificarsi. La chiamata di Gesù passa attraverso le persone che poco prima cercavano di tacitare il cieco e impedivano l’incontro. Sono proprio loro a favorire l’incontro con colui che chiama. Il fermarsi di Gesù ha cambiato il loro cuore.

Gesù si ferma e il cieco si muove, non perde tempo. Notate il contrasto con il giovane ricco che, poco prima, alla domanda di Gesù di condividere quanto aveva con i poveri, se n’era andato via triste perché incapace di staccarsi da tutti i suoi beni. Gesù gli chiede: “Cosa vuoi che ti faccia?” Sembra assurda la domanda. Che cosa può volere un cieco? Eppure si tratta di una domanda centrale del vangelo: Gesù vuole rimettere la persona nella condizione di sapere realmente cosa desidera. Non sono sufficienti le parole immediate o superficiali, anche se essenziali. Attraverso una sola domanda vuole aiutare a fare verità. Il cieco sa realmente cosa desidera. Tuttavia Gesù non è un distributore automatico di grazie, ma è il Maestro che sa cos’è realmente utile. Entrare in relazione con lui è la garanzia di ricevere ciò che maggiormente c’è necessario. Per questo la nostra preghiera di lode è chiamata innanzitutto ad essere una relazione intima e capace di elevarci ad una conoscenza profonda con Gesù. Se questo non ci riesce per i nostri egoismi, ci rimarrà l’amaro di una richiesta non esaudita o di una pretesa frustrata.

E’ ancora l’uomo a dimostrarcelo. Gesù con lui non opera materialmente proprio nulla. Gesù si limita a costatare un miracolo già avvenuto: “Vedi di nuovo, la tua fede ti ha salvato”. L’uomo è entrato in comunione con Gesù prima ancora di sapere se sarebbe stato esaudito; ha saputo avere una fede capace di invocare quando tutti l’obbligavano al silenzio, anzi ha avuto una fede capace di “gridare più forte” quando lo scoraggiamento o l’impedimento poteva predominare. Molto semplicemente l’uomo ha in sé quell’affidamento necessario per seguire Gesù. Non è stato guarito solo dalla cecità ma tutta la sua persona ha fatto esperienza della salvezza. Ormai questo ex cieco è capace di vedere, per questo comprende dove sta realmente il suo vero bene e, invece di andarsene, “lo seguiva rendendo gloria a Dio”. L’incontro con Gesù lo ha messo in movimento e ora può seguirlo su quella strada che sale a Gerusalemme, al luogo dove l’amore troverà il suo compimento.

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