Vangelo di Luca – Cap. 20,1-8 al 20,41-21,4

Carl Heinrich BLOCH - Gesù caccia i mercanti dal tempio

L’autorità di Gesù contestata.

Capitolo 20,1-8

*In uno di quei giorni, mentre stava insegnando al popolo nel tempio e annunciava la buona notizia, sopraggiunsero i capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani e *gli chiesero: Di’ a noi, con quale autorità fai queste cose, e chi è che ti ha dato tale autorità? *Rispose: Anch’io vi faccio una domanda: Ditemi, *il battesimo di Giovanni veniva da Dio o dagli uomini? *Essi si consultavano tra di loro: Se rispondiamo. da Dio, dirà: Perché dunque non gli avete creduto? *Se poi diciamo: dagli uomini, tutto il popolo ci prenderà a sassate, perché è persuaso che Giovanni era un profeta. *Risposero dunque che non sapevano donde venisse. *Allora Gesù: Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose.

Inizia il confronto diretto tra Gesù e l’autorità giudaica. Un giorno, durante l’attività di insegnamento a Gerusalemme, Gesù è impegnato in una serie di cinque controversie con la classe dirigente del giudaismo ufficiale. Luca presenta i membri della delegazione, che incontra Gesù nel cortile del tempio: sono membri dei tre gruppi, che fanno anche parte del sinedrio e che ricompariranno nel processo contro il Maestro. Gli scribi sono gli esperti della legge, guide spirituali del popolo; gli anziani formano una classe autorevole che partecipa di diritto all’assemblea suprema della nazione giudaica, il sinedrio; i capi dei sacerdoti sono i preti-capo che occupano un posto permanente nel tempio e che, a motivo di questa funzione, hanno una voce nel sinedrio, dove formano un gruppo ben definito. Il nocciolo della prima controversia è l’autorità con la quale Gesù era entrato nella città, aveva purificato il tempio, guarito e insegnato. La risposta di Gesù assume la forma di una domanda rivolta ai suoi inquisitori. Egli promette di rispondere alla loro domanda se prima essi dichiareranno pubblicamente se il battesimo di Giovanni veniva da Dio o era puramente umano. La domanda di Gesù pone i suoi oppositori sulla difensiva: se essi rispondono “dal Cielo”, ammettono la loro stupidità e la mancanza di un intuito spirituale non avendo accettato la causa di Giovanni. Se rispondono “dagli uomini” rischiano la collera delle numerose persone che consideravano Giovanni un profeta inviato da Dio. La controdomanda di Gesù riduce al silenzio i suoi oppositori. Essi sono stati svergognati, e Gesù esce dal dibattito con onore. L’imbarazzo dei capi giudei, dotti e autorevoli, è presentato con una certa compiacenza, la quale risente del clima polemico della prima comunità nei confronti del giudaismo incredulo. In ogni modo la posizione di Gesù in questa prima controversia è perfettamente in armonia con la linea da lui seguita fino a questo momento. C’è abbastanza luce nelle sue parole nei suoi gesti per comprendere la sua vera identità messianica. Questa identità resta un enigma per chi è mal disposto, prevenuto od opportunista, ogni risposta chiarificatrice è inutile, così il silenzio di Gesù diventa una condanna all’oscurità, all’incomprensione.

Non c’è possibilità di rivelazione dove non c’è un minimo di apertura di fede; non c’è incontro salvifico dove l’uomo ha paura di esporsi. La verità della parola di Dio e l’autorità della sua azione non si lasciano controllare dall’esterno. Diventano realtà soltanto per l’uomo disposto a rischiasre in prima persona.

Parabola dei vignaioli omicidi.

Capitolo 20,9-19

*Poi si mise a raccontare al popolo questa parabola: Un uomo piantò una vigna, l’affidò ai coltivatori e se ne andò lontano per molto tempo. *A suo tempo mandò un servo da quei coltivatori per farsi dar la sua parte del prodotto della vigna; ma i coltivatori lo rimandarono carico di botte e a mani vuote. *Egli allora mandò un altro servo; ma essi, dopo averlo caricato di botte e di insulti, lo rimandarono mani vuote. *Allora ne inviò un terzo; ma anche quello ferirono e cacciarono. *Allora il padrone della vigna disse: Che farò? Manderò il mio figlio unico; spero che di lui avranno rispetto. *Ma i coltivatori, vedendolo, complottarono tra di loro: Ecco l’erede, uccidiamolo e così l’eredità sarà nostra. *E, gettatolo fuori della vigna, l’uccisero. Che farà dunque ad essi il padrone della vigna? *Verrà e farà uccidere quei coltivatori e affiderà ad altri la vigna. *A queste parole essi esclamarono: Non sia mai! Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: Che significa questo test della scrittura: La pietra che hanno scartata i costruttori è divenuta la pietra angolare? *chiunque cadrà su quella pietra si sfracellerà, ed essa stritolerà colui sul quale cada. *Gli scribi e i funzionari-capi del tempio cercavano di mettergli subito le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Essi avevano capito che quella parabola l’aveva detta per loro.

Il profeta Isaia (5,5) nel suo celebre canto aveva descritto una vigna nella quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, scegliendone il luogo in un terreno fertile, ripulendolo dai sassi e dagli sterpi, piantandovi la vite scelta, cintandola poi con un recinto di protezione e all’interno, in posizione favorevole, una torre dalla duplice funzione: guardia in cima e una pressa a livello di terra. Ma nonostante la cura la vigna produceva acri grappoli invece di uva dolce. La spiegazione del canto allegorico ricordava che l’ingrata vigna era la nazione d’Israele e il suo padrone era Jahvè; il quale però, esasperato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola alla distruzione con conseguente crescita di rovi e spine.

La parabola è ripresa, ampliata e portata a compimento da Gesù che l’ha inserita in una cornice fortemente polemica. Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle Sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per comprendere all’istante che la vigna in oggetto era Israele, il padrone Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un lungo elenco necrologico all’interno delle pagine delle Scritture. Oltre alla parte inerente il passato Gesù vi ha aggiunto, come conclusione, una parte riguardante il futuro, cioè che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, viene percosso e ucciso. Gesù si è implicitamente svelato come Figlio di Dio, accusando in anticipo i colpevoli del loro futuro omicidio. Si tratta della dichiarazione di autorità.

Alla non più velata minaccia sottintesa nel racconto sulla sua autorità, Gesù oppone il suo insegnamento circa il piano e il progetto di Dio, legato in modo unico e inscindibile al suo destino che si trasforma in giudizio storico per coloro che tentano di contrastare il fine ultimo dell’azione di Dio. Tutto ciò viene esposto con una forma che utilizza immagini classiche della tradizione biblica: la vigna è il Regno di Dio, i servi i profeti, il proprietario della Vigna è Dio Padre, i vignaioli l’umanità intera con i suoi capi, i frutti la fedeltà alla legge di Dio portata a compimento da Gesù (la nuova ed eterna alleanza).

Il racconto si ispira alla tradizione socio-economica della Palestina del primo secolo. Gran parte della Galilea apparteneva a pochi proprietari stranieri. La lontananza dei padroni favoriva la rivolta dei coloni, che si rifiutavano di consegnare al proprietario della vigna il raccolto conforme al contratto di affitto e accolgono gli inviati del padrone a bastonate. Ma il racconto di Luca evidenzia il crescendo dell’ostilità violenta: oltraggi, percosse, omicidio. Tutte queste azioni contrastano con la pazienza, sembrerebbe incomprensibile, del padrone, il quale dopo l’invio fallimentare di molti servi, decide in ultima analisi di mandare in missione suo figlio, l’unico, il diletto, l’erede. Come possiamo già notare risalta l’immagine del figlio erede che per noi cristiani fa emergere prepotentemente il ruolo e il destino storico di Gesù, l’ultimo inviato, oltraggiato e ucciso da quelli che pretendevano di gestire la vigna, ossia quel regno che doveva restare un dono di Dio Padre. La forza del racconto è racchiusa nell’intreccio intelligente di tre azioni: la prima tra il padrone e i contadini; la seconda tra i servi e il figlio; la terza è intorno all’atteggiamento del padrone.

Il padrone e i contadini sono gli unici personaggi del racconto che agiscono e parlano. Dei servi e del figlio si narra la sorte che subiscono, ma di loro non viene riportato né un gesto né una parola. La storia infatti si svolge tra il padrone e i contadini. Il padrone ha la parola per primo e per ultimo: sua è l’iniziativa, come già abbiamo visto, di piantare una vigna e poi di inviare i servi, sua è anche la decisione finale di punire i contadini. Fra questi due punti, che appartengono esclusivamente al padrone, sono descritte due ostinazioni: da una parte il ripetuto tentativo del padrone di ottenere i frutti della sua proprietà, dall’altra il testardo rifiuto dei contadini di darglieli. Un primo insegnamento lo possiamo già trarre: i servi della parabola, come i profeti di Israele, non sono rifiutati, percossi e uccisi in ragione di qualche loro pretesa personale, ma unicamente perché inviati da Dio e portavoce delle sue esigenze. Ecco perché Gesù li fa agire senza parole e senza gesti: essi non sono figure autonome, ma il tutto viene rinviato a Dio.

I servi e il figlio, visti attraverso l’atmosfera di contrasto tra il padrone e i contadini, la parabola racconta una storia che rinarra quella del popolo ebraico: la fedeltà a Dio, l’infedeltà del popolo, il giudizio. Nel racconto si distinguono palesemente due parti: una prima nella quale si parla della missione dei servi, e una seconda dove viene descritta la missione del figlio. Gesù ha cura di distinguere chiaramente le due missioni. Anche perché diversamente da quello dei servi, l’invio del figlio è seguito dalla riflessione del padrone e anche la reazione omicida dei contadini è preceduta da una riflessione. Altra cosa da tenere presente è che per il padre è il figlio amato mentre per i contadini è l’erede; inoltre la sua missione è l’ultima.

In ultima analisi, se prima la parabola poteva apparire come una semplice rinarrazione della storia di Israele, ora, a questo punto, risulta essere il suo vertice. E rispetto al canto di Isaia, vanta una novità fondamentale: Dio ha inviato il Figlio, non solo i profeti; e il popolo ha rifiutato il Figlio, non solo i profeti.

L’atteggiamento del padrone è paziente, ostinato. Egli spera fino all’ultimo: “Rispetteranno mio figlio!”. Tuttavia anche la sua pazienza ha un limite e non può accettare che la violenza dei contadini continui all’infinito. Non gli resta che andare di persona per infliggere un severo castigo: “Verrà e sterminerà i contadini e darà la vigna ad altri”.

Per il profeta Isaia il giudizio finale è l’abbandono, mentre Gesù vi aggiunge un secondo tratto che svela un mistero: la vigna sarà data ad altri. In pratica il dono del regno di Dio passa da Israele ai pagani. Qualcuno potrebbe obiettare: non è Israele il popolo della promessa, al quale Dio ha giurato fedeltà?. La risposta è che Dio è fedele, certo, ma la sua fedeltà non può prescindere dal giudizio. Dio non abbandona il suo popolo, ma, anzi, è il popolo che ha rifiutato Dio. Questo stile dell’azione di Dio vale per tutti i tempi. Contesta la sicurezza e i privilegi anche di una comunità cristiana, che pretenda di possedere in modo irreversibile il monopolio del regno di Dio. L’unica garanzia è quella legata alla fedeltà e gratuità di Dio e alla libera fede dell’uomo.

In definitiva, Gesù, come il figlio della parabola , è una pietra scartata dai costruttori, ma, nel progetto ultimo di Dio, è diventato la pietra d’angolo, che tiene unito e dona saldezza a tutto l’edificio. La conclusione della parabola mette in luce la forza critica della parola di Gesù. Non si tratta di comprendere una teoria, ma di accogliere una persona. Ecco perché i capi, contro i quali direttamente è rivolto il racconto, comprendono il suo significato polemico ma non riescono ad accogliere la sua proposta salvifica. La parola di Gesù esige una decisione. Non esiste neutralità davanti alla sua persona. La parola di Gesù è selezionatrice, perché provoca la risposta dell’uomo. Concludo con alcune domande: noi oggi ci identifichiamo nei contadini o nei servi? Accogliamo la proposta salvifica di Gesù?

Il tributo a Cesare.

Capitolo 20,20-26

*sempre allo scopo di controllarlo mandarono investigatori che fingevano di essere sinceramente preoccupati della volontà di Dio e così sorprenderlo in qualche sua parola e poi consegnarlo all’autorità e al potere del procuratore. *Gli posero questa domanda: Maestro, noi sappiamo che tu parli e insegni rettamente, sei imparziale e insegni con verità a vivere secondo Dio. *E’ lecito a noi pagare l’imposta all’imperatore o no? *Ma egli intuendo la loro astuzia, rispose: *Mostratemi un denaro. Di chi è l’effige e l’iscrizione? Quelli dissero: Di Cesare. *Allora disse loro: Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. *E non poterono sorprenderlo in questa parla davanti al popolo, ma, stupiti della sua risposta, rimasero zitti.

La controversia di Gesù con i capi del popolo continua. Ora gli sottopongono una questione pratica di politica: è lecito pagare le tasse all’usurpatore? Si sa che gli zeloti si astenevano dal pagarle per motivi religiosi, affermando che l’unico sovrano degli Ebrei era Dio. Gesù nella risposta non dà una valutazione politica sulla bontà dello stato romano, ma afferma un principio morale: Dio è il re supremo che dobbiamo servire. Ciò non toglie che dobbiamo accettare anche le autorità come quelle statali, se non si oppongono alla libertà religiosa e ai diritti di Dio. La risposta lapidaria di Gesù alla questione sul tributo da pagare all’impero romano ha una risonanza notevole nella storia, perché riguarda precisamente la zona in cui s’incontrano i diversi e qualche volta opposti interessi, politici e religiosi, materiali e spirituali. L’attenzione a questo brano evangelico è accentuata dal desiderio di conoscere l’ideologia e la posizione politica di Gesù.

Per farlo i due gruppi, farisei ed erodiani, uniscono le loro forze per intrappolare Gesù. Se egli afferma che le tasse devono essere pagate, perde la stima dei nazionalisti religiosi. Se egli nega che le tasse debbano essere pagate, rischia l’arresto come rivoluzionario politico. Essi lo avvicinano in maniera adulatrice, ma ipocrita, e poi gli chiedono se sia legale pagare il tributo a Cesare. Riconoscendo la loro ipocrisia, Gesù elude la trappola chiedendo loro di mostrargli una moneta recante l’immagine e il nome dell’imperatore. Chiedendo di vedere la moneta d’argento, Gesù come il solito, tende a coinvolgere l’interrogante nella scoperta della risposta. Il solo fatto che sia i farisei che erodiani usino la moneta, coniata a Roma, recante la scritta TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS, dell’imperatore implica che essi devono pagare le tasse a lui. Tuttavia, Gesù sposta il dibattito su un altro livello, sfidando i suoi oppositori ad essere osservanti nel pagare i loro debiti a Dio così come ripagano all’imperatore. Gli avversari vengono smascherati come ipocriti e non realmente religiosi, e Gesù guadagna onore per avere riconosciuto la loro indole e per avere eluso la loro trappola.

Ecco perché di fronte al quesito che gli è stato posto, Gesù si situa nella concretezza della situazione storica: se un potere è accettato, va rispettato; ma non vi è un solo piano della realtà: sono due. Le cose umane spettano a libere scelte umane, con una logica essenziale che implica coerenza. Nel caso: accettare una buona moneta stabile e non volerne ed è garante dei più veri diritti e valori umani, che vanno rispettati. Così la netta risposta di Gesù “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, chiude la bocca agli opposti tentatori. Non si devono contrapporre, né confondere, né mettere in alternativa l’autorità di Dio e quella umana: non una religione-politica o politica-religione, non lotta reciproca, ma due realtà distinte da rispettare. L’amore di Dio supera ogni cosa, ma non si deve concepire la religione fuori della storia. Non bisogna ridurre la realtà, non si deve mancare d’equilibrio.

La risurrezione dei morti.

Cap. 20, 27-40

*Allora si avvicinarono a lui alcuni sadducei, i quali negano la risurrezione dei morti, e gli posero questa domanda: *Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se uno ha un fratello sposato che muore senza lasciare figli, egli sposi la vedova e dia una discendenza a suo fratello. *Ora c’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza figli; *il secondo *e poi il terzo la presero,e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. *Infine anche la donna morì. *La donna dunque, nella risurrezione, di chi di loro sarà moglie, dato che tutti e sette l’hanno avuta in moglie? *Rispose loro Gesù: Coloro che appartengono a questo mondo prendono moglie e marito, *ma coloro che sono giudicati degni di partecipare al mondo futuro e di risorgere dai morti non prendono né moglie né marito. *Infatti essi non sono più soggetti alla morte, perché sono simili agli angeli e, in quanto risuscitati, sono figli di Dio. *Che poi i morti abbiano a risorgere, anche Mosè lo dichiarò nel passo del roveto, quando chiamò il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. *Non è dunque un Dio di morti, ma di vivi, perché tutti vivono per lui. *Alcuni scribi prendendo la parola dissero: Maestro, hai detto bene. *Né più osavano fargli alcuna domanda.

La terza controversia riguarda una questione molto dibattuta nei circoli giudaici e tra le varie fazioni religiose, farisei e sadducei in particolare. Essi, infatti, erano esponenti delle classi dirigenti, amanti dell’ordine costituito, collaboratori dei Romani, liberali in materia religiosa. Essi negavano la risurrezione. Infatti nell’episodio narrato da Luca sono di scena proprio loro. L’obiezione dei sadducei fa riferimento alla legge del levirato descritta in Dt.25,5-10, al fine di dimostrare l’assurdità delle fede nella risurrezione. Invece di confutare le loro argomentazioni, Gesù li accusa di non comprender né le Scritture, né il potere di Dio. Essi non riescono a capire il potere di Dio, perché la vita dopo la risurrezione sarà completamente diversa da quella attuale. Dato che non ci sarà più matrimonio, l’argomento dei sadducei sulla base della legge del levirato, è privo di fondamento. Essi non riescono neppure a comprendere le Scritture poiché in Es. 3,6 – Io sono il Dio di Abramo… – presuppone che i patriarchi di Israele fossero ancora viventi ai tempi di Mosé. Perciò la risurrezione dai morti viene insegnata nel Pentateuco.

Cosa fa Gesù? Tralascia la questione giuridica e va direttamente al cuore del problema religioso. Affronta il quesito circa il modo della risurrezione, facendo appello ad un paragone noto nella letteratura apocalittica che afferma che la vita dei risorti non è condizionata dalle necessità biologiche: Sono simili agli angeli. Però sarebbe un fraintendere il pensiero di Gesù trarre la conclusione che l’ideale evangelico corrispondente alla vita finale e perfetta dell’uomo è l’eliminazione della sessualità. La sessualità, intesa come elemento essenziale della corporeità e della vita personale comunitaria, non può essere esclusa da una risurrezione che reintegri l’uomo nella sua unità e completezza psico-fisica. La risposta di Gesù si oppone alla materializzazione “sadducea”, che proietta semplicemente nel mondo dei risorti la situazione presente e riduce la sessualità alla procreazione per assicurare la discendenza.

Trattare in termini terrestri una realtà ultraterrena, è errore grossolano: vi sono incappati i sadducei, v’incappano tutti i materialisti. Cristo afferma (come abbiamo visto) come dato di fatto la risurrezione, e la qualifica realtà superiore alla vita terrena e rapporto vitale con Dio. La risurrezione non è cosa di questo mondo, non va pensata possibile o impossibile in base alla vita terrena: essa è come una nuova creazione ed è tutta opera di Dio. Egli è il “Dio dei viventi”.

Il messia figlio e Signore di Davide. Gli scribi arrivisti e una vedova generosa.

Capitolo 20,41 – 21,4

*Egli poi disse a loro: Come si può dire che il messia è figlio di Davide, *dato che Davide stesso nel libro dei salmi afferma: Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra, *finché io abbia fatto dei tuoi nemici uno sgabello per i tuoi piedi? *Se dunque Davide lo chiama Signore, come questi può essere suo figlio? *E mentre tutto il popolo lo esaltava, egli disse ai suoi discepoli: *Guardatevi dagli scribi, che ci tengono a passeggiare in vesti da dignitari e hanno piacere d’essere riveriti nelle piazze, e avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti. *Essi divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere: riceveranno una condanna più severa. *Alzando gli occhi, Gesù vide dei ricchi che gettavano le loroofferte nel tesoro. *Vide anche una povera vedova che vi metteva due spiccioli, *e disse: In verità vi dico che questa povera vedova ha messo più di tutti, *perché tutti costoro hanno preso dal loro superfluo per fare l’offerta, ma lei nella sua povertà ci ha messo quanto aveva per vivere.

Era comunemente ammesso in base ai testi dell’A.T. che il Messia sarebbe stato un figlio di Davide e che sarebbe venuto a restaurare lo stesso regno davidico. Infatti, Luca finisce l’episodio precedente con l’osservazione: “Né più osavano fargli alcuna domanda”. Allora Gesù prende l’iniziativa di un insegnamento della massima importanza, rivolgendosi direttamente alla folla nel tempio. Gesù chiama a considerare a fondo la sua persona, per scoprire la sua piena identità. Il pericolo sempre ricorrente nella storia è di ridurre Gesù alle proporzioni adatte ad una certa mentalità umana, ad una certa cultura. Gesù, nella sua grandezza divina e umana, risponde a tutte le attese, ma le trascende sempre, non può mai essere catalogato, classificato. E’ così inarrivabilmente “uomo”, proprio perché è Dio, il Creatore dell’uomo, che conosce fino in fondo l’essere umano. Ecco perché quest’ultima istruzione pubblica riguarda la sua persona e la sua missione in modo diretto, perché in alcuni gesti e in alcune parole egli ha espresso la pretesa messianica e secondo questa prospettiva è stata interpretata dalla gente, Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide.

Secondo la tradizione giudaica, il Messia doveva essere un discendente di Davide. Anche in questo caso Gesù infrange gli schemi precostituiti e invita gli ascoltatori all’approfondimento e alla riflessione con una domanda lasciata in sospeso: …come questi può essere suo figlio? (di Davide). Il passo in questione è quello del Salmo 110,1 che Gesù richiama con una semplice allusione: Davide stesso lo chiama Signore. Forse che Gesù rifiuta l’ascendenza davidica? No di certo! Tuttavia invita gli ascoltatori a superare una visione che si limita a identificare la promessa salvifica di Dio con una continuità storica dinastica. Nella sua domanda rivolta alla folla vi è una velata allusione al mistero della sua identità profonda. Questa, però, non viene scoperta in conformità a sottili ragionamenti o per mezzo di raffinate interpretazioni di testi biblici. L’uomo deve rendersi disponibile alla novità che Dio gli offre, quando si presenta a lui accessibile e vicino in Gesù, suo Figlio.

L’episodio degli scribi e dei farisei, fa bene sentirlo. Gesù mette in guardia la folla e, di là della folla, la comunità dei discepoli da due atteggiamenti biasimevoli degli scribi e dei farisei: la vanità e l’ipocrisia. La prima si manifesta nello sfoggio ampio del mantello dei rabbi, nella ricerca del saluto o riverenza nei luoghi frequentati dalla gente, le piazze e nell’accaparrare i seggi più onorevoli e ambiti nei conviti e nell’assemblea liturgica. La seconda è l’ipocrisia, che si rivela nell’ostentare una gran devozione prolungando i tempi di preghiera alla vista di tutti. Queste critiche impietose di Gesù condannano difetti che sono frutto di una deformazione professionale, in pratica i difetti tipici d’uomini che hanno una formazione culturale superiore e un ruolo sociale corrispondente. Ma l’ipocrisia diventa spudorata nella contraddizione evidente tra questa ostentata religiosità pubblica e il comportamento verso i deboli e gli indigenti, come le vedove, di cui sfruttano l’ospitalità e la generosità. Ecco perché Gesù, con uno stile che risente della severità profetica, lancia contro scribi e farisei il suo tremendo giudizio di condanna.

Tanti non osano nemmeno fare o dare qualcosa, per timore dell’esiguità della loro prestazione, del loro dono. Ma Dio non giudica con calibro esterno, guarda all’animo del donatore. Gesù si oppone con vigore all’ipocrisia, al calcolo, all’ingiustizia, al falso, alla vanità, all’ingordigia, alla superbia, ed esalta la sincerità, la generosità, la giustizia, la povertà, il disinteresse, l’umiltà, il distacco. Una povera donna vedova dà due soldi, e dà più di tutti, perché dà tutto il suo, dà di se stessa. Costa molto dare anche poco, se quel poco è il tutto che si ha; e ciò che “costa”, vale. Dare il “superfluo”, ciò che non toglie assolutamente nulla ai propri comodi e piaceri, che “valore” veramente umano può avere? Con questa sentenza sul valore dell’offerta termina l’attività e l’insegnamento di Gesù nel tempio. Aveva iniziato contestando il mercato e il traffico nel tempio, che si svolgeva sotto la tutela dei sacerdoti; aveva sconfessato la sicurezza e la boria dei circoli dirigenti di Gerusalemme; con il gesto della povera vedova, esalta l’autentico valore religioso del gesto. Terminando: il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo non passa attraverso il potere cultuale o istituzionale, ma attraverso il cuore del povero, in altre parole totalmente aperto e disponibile al Creatore.

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