Libro di Giobbe: Sezione “B”, Capitolo 28: Inno alla sapienza

Capitolo 28 : Inno alla sapienza

Questo limpido inno può essere nato autonomamente rispetto al libro di Giobbe e inserito come interludio, ad ogni modo la sua posizione attuale non stona.

Prima che Dio stesso, intervenendo nel dibattito, faccia appello alla sua inaccessibile sapienza cosmica, l’inno, che ha evidenti punti di contatto con il cap.8 del libro dei Proverbi, si presenta come una riflessione orante anticipata sul mistero della sapienza divina, realtà divina e trascendente eppure presente ed attuata nell’ordine meraviglioso del cosmo.

L’anticipazione del tema rende meno teso ed unitario il discorso generale del dramma, ma può essere anche un aiuto per penetrare nel vero cuore della ricerca dell’opera, il mistero di Dio. Iniziando dall’intuizione essenziale sulla preziosità incomparabile della sapienza (Prov.3,14-15; 8,10-11,19; Sal.18,111; 118, 72.127), l’armonia dell’inno è agile e semplice, scandita in tre strofe da un ritornello antifonale (“La sapienza da dove si trae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?” vv.12 e 20)). A quest’antifona interrogativa risponde un’altra antifona finale, che offre la soluzione: “Temere Dio, questo è sapienza; schivare il male, questo è intelligenza”.

La prima strofa (vv.1-12) è una celebrazione del genio dell’homofaber, in altre parole della scienza e della tecnica, analizzata con passione soprattutto nel progresso raggiunto dell’ingegneria mineraria. Tuttavia di là del mondo della scienza e della tecnica, c’è la sfera delle relazioni personali con Dio, la sapienza in cui la scienza da sola non riesce a sondare. Questo è l’argomento della seconda strofa (vv.13-20). Dio solo conosce l’intero progetto del mondo e della storia e a questo piano strettamente personale si può accedere solo nella fede, aderendo nell’amore alla sua rivelazione (vv.21-28). Ciò che l’homofaber non può conquistare è raggiunto dall’homoreligiosus, che, temendo e amando Dio ed evitando il male, diventa veramente homosapiens (capp.21-28).

Capp. 29-31 : I ricordi di Giobbe

Comincia col cap.29 il secondo e decisivo atto del dramma di Giobbe. Molti motivi che sarebbero troppo lungo da elencare e che prescindono dalla finalità della nostra riflessione esegetica inducono a collocare in questa seconda sezione gli interventi dei capp.29-31, da taluni considerati ancora parte del triplice ciclo finora meditato. Giobbe ora occupa veramente la scena rievocando in un ampio monologo i suoi ricordi e le sue pene, chiamando in causa per un’ultima volta il gran responsabile finora silenzioso, Dio.

Dio accetta improvvisamente di scendere a fare la sua deposizione processuale (capp.38-41), facendo finalmente balenare a Giobbe un barlume di soluzione (cap.42). Questa doveva essere l’impostazione originale del dramma che però è ora turbata dall’inserzione, operata da un autore posteriore, di un nuovo ciclo d’interventi teologici i discorsi di Elihu (capp.33-37).

Con un ardito flashback l’autore riporta davanti ai nostri occhi, in una commossa rievocazione nostalgica, il passato felice di Giobbe (c.29). Ad essa succede un’elegia sul presente tragico (c.30), mentre la speranza si proietta su un futuro in cui Dio intervenga liberando e giudicando (c.31). L’impostazione tridimensionale secondo le categorie del tempo (passato-presente-futuro) è propria dei Salmi di supplica e di lamentazione.

Iniziamo ad esaminare brevemente il canto della nostalgia, il cui passato è dipinto con i colori tradizionali della sapienza e della retribuzione. I dati biografici del prologo sono arricchiti da una tonalità lirica nuova nonostante la stilizzazione della relazione. Giobbe era in amicizia con Dio, benedetto da Lui (29,2-6) e tutta la popolazione del villaggio li circondava d’onore, di riverente rispetto e di prestigio (29,7-10.21), l’influenza sociale del suo pensiero e dei suoi interventi erano decisivi (29,22-25.11). La fonte di quest’indiscutibile prosperità era la sua giustizia non incrinata da nessuna debolezza (29,12-17). E questa rappresentava anche la caparra di un futuro tranquillo per la logica della retribuzione (29,18-20). Tutto ciò si è infranto come un sogno: “Oh, potessi tornare com’ero ai mesi di un tempo, ai giorni in cui Dio mi proteggeva!” (29,2).

Dal passato giungiamo all’elegia del presente, alla lamentazione del cap.30: Dio, che prima era il centro e la sorgente della fortuna, diventa ora la causa e la radice della rovina. Il testo ebraico non lo nomina direttamente, lo presenta in terza persona quasi si trattasse di una forza anonima ostile e nascosta. Tuttavia Giobbe riesce a identificarla e ad interpellarla in seconda persona. Ecco la traccia della supplica di Giobbe. Un quadro di totale umiliazione apre il lamento (30,1-8). Tutti hanno orrore di Giobbe (30,9-10), tutti i nemici l’assalgono senza ritegno (30,11-14).Lo invade un terrore anche psicologico nei confronti di un nemico così misterioso che lo perseguita senza tregua e compassione (30,15-23), abbandonandolo alla tempesta e alla morte.

L’unica possibilità che ormai rimane a Giobbe è quella di innalzare il suo urlo di dolore, dell’agonia senza fine, la protesta confidando che Dio si senta obbligato a dargli almeno un cenno di risposta. E’ quasi barocco nella sua violenza l’autoritratto della finale dell’elegia (30,24-31).

La terza parte del lungo intervento di Giobbe è ormai indirizzata a sviluppare il tono giudiziario che d’ora in avanti dominerà. Giobbe, dopo avere accusato il suo avversario, afferma la sua innocenza con un giramento che è anche automaledizione qualora esso non corrisponda alla coscienza di chi lo pronuncia. Il genere letterario, più che a paralleli extrabiblici qualitativamente diversi, è a connettere al diritto sacrale dell’alleanza con Dio (Es. 22,7.1-10; 3Re 8,31-32; Num. 5,19-28; Giud. 17,1-3).

Solo un oracolo di salvezza poteva sigillare positivamente l’autoproclamazione d’innocenza. La dichiarazione di Giobbe, però, accentra l’aspetto morale e sociale più che rituale o meramente giuridico della confessione. Il giuramento strutturalmente è legato ad una lista monotona di delitti non commessi: Giobbe ne elenca dodici, forse secondo lo schema di alcuni dodecaloghi dell’alleanza (es. 23,10-19; 34,10-26; Deut. 27,15-26; Lev. 18, 6-189. Egli non è mai stato impudico (31,1-4), né mentitore o invidioso (31,5-8), non ha mai commesso adulterio (31, 9-12), non fu mai ingiusto con i suoi servi (31, 13-15), ha sempre diviso con i poveri i suoi beni (31, 16-20) e li ha sempre difesi nelle scuse processuali (31, 21-23). Mai egli si è appoggiato alla ricchezza come ad unica forza (31, 24-28) cedendo così alla tentazione dell’idolatria. Mai ha voluto umiliare il suo nemico in disgrazia, né mai ha violato la sacra legge dell’ospitalità (31, 29-32). Mai ha sfruttato i suoi operai, né si è comportato ipocritamente (31, 33-34, 38-40). La conclusione (31, 35-379, in cui Giobbe mette il sigillo della firma al documento ufficiale del giuramento, è una sfida alla controparte, Dio, perché intervenga facendo la sua deposizione. Con passo fermo, tenendo in mano il documento della sua innocenza, Giobbe è ritto in quest’ideale tribunale ed attende l’avversario e giudice che egli ha citato in causa. L’attesa non sarà delusa.

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