Libro di Giobbe: Sezione “B”, cap. 6-7-8

Capp. 6-7: Giobbe

Il protagonista riprende il suo lamento con un interminabile intervento intessuto di forme letterarie e giuridiche, di termini dibattimentali, di suppliche e lamentazioni. La dialettica del suo ragionamento è ancora più complessa di quella di Elifaz. Giobbe riafferma il suo diritto al lamento, rifiutando la proposta dell’amico. Egli sperimenta attorno a sé come un muro d’ostilità: Dio, amici, la vita stessa sono altrettante forze avversarie che lo tormentano e lo costringono ad un’incessante lotta e difesa. L’anelo della morte, dell’estinzione fisica pare ancora una volta essere l’unica fenditura liberatrice: “Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un qualche conforto” (6,9-10). Alla fine il grido di Giobbe si cheta per un istante, la sua richiesta diviene meno tragica: “Dio cerchi almeno di lasciare in pace l’uomo”. E’ una domanda di quiete, di dilazione, di tregua (7,16-21).

Cerchiamo di penetrare più profondamente nella sfera dei sentimenti, dei pensieri e delle emozioni di Giobbe. Il discorso può essere articolato in quattro parti.

Prima parte. Si tratta di un monologo simile al soliloquio del cap.3 (6,1-13). Dall’amarezza insopportabile dell’esistenza attuale Giobbe sale fino al desiderio palese della morte. L’eccesso della sofferenza, “più pesante della sabbia del mare”, rende le parole dell’afflitto incontrollate, velenose anche nei confronti di Dio (6,2-4).

Il dolore è una realtà che genera reazioni istintive ed elementari come la fame (6,5-7) e la morte è agognata, supplicata, amata come unico sfogo e unica liberazione (6,8-10) dal momento che ormai non esiste più nessuno altra via d’uscita percorribile, né speranza, come suggeriscono i violenti interrogativi retorici di 6,11-13.

Seconda parte. Giobbe rivolge agli amici l’accusa di freddezza e d’insensibilità nei confronti della sua tormentata richiesta d’aiuto. Essi si sono invece dileguati come i wadi della steppa al primo accenno di siccità lasciando l’uomo assetato (6,14-17), deludendo duramente Giobbe nella sua speranza.

“Vedete che vi faccio orrore e vi prende paura” è la conclusione spoglia dell’amicizia (6,18-21). Dagli amici Giobbe si attendeva consigli, affetti, comprensione. Invece da loro lui riceve solo accuse e giudizi critici sulle “parole di un disperato” (6,22-25). Giobbe li implora di aiutarlo, cambiando il loro comportamento distaccato. Con una serie di suppliche commoventi, Giobbe pare quasi buttarsi ai loro piedi per invocare conforto e sostegno (6,26-30).

Terza parte. Riprende il motivo dominante del cap.3, e in altre parole la miseria della condizione umana. Anzi la situazione di Giobbe è maggiormente ed esasperante: le ombre della sera per chiunque segnano la fine della fatica giornaliera, nella notte il dolore non solo non si placa ma pare trovare nuova linfa incentivante popolando la mente d’incubi e impedendo ogni riposo (7,1-4).

E la foce verso cui la travagliata esistenza sta muovendosi è la morte, il sepolcro in cui si termina senza speranza ogni cammino umano (7,5-8). I versi insistono sull’argomento del “vedere”: Giobbe non vedrà la fortuna, la casa non vedrà più il suo padrone, Dio, rivolgendo lo sguardo alla terra, non vedrà più in vita il suo servo. Davanti a questo scandalo non si può frenare ogni reazione, è istintivo urlare la propria rabbia e indignazione (7,9-11). Si apre così l’ultimo paragrafo (7,12-21), un lungo interrogativo di tipo salmico e processuale rivolto a Dio perché giustifichi il senso di quest’assurda prova a cui sottopone l’uomo. Perché Dio non smette di tormentarlo quasi che fosse il suo più tremendo avversario come il mare o i mostri marini che tentano di demolire il creato (7,12-15): Gen. 1,9-10)?

Ribaltando il senso del salmo 8, grandiosa celebrazione dell’uomo, Giobbe grida a Dio: “Che è quest’uomo di cui ti prendi tanta cura per perseguitarlo?” (7,16-19); salmo 8,5). Dio circonda l’uomo con la costanza di un cacciatore verso la preda o di un assediante verso un obiettivo militare: infierisce e si diverte senza mai lasciare tregua: Anche se fosse peccatore, Giobbe avrebbe diritto ad un minimo di pietà, ad essere meno bersaglio continuo degli attacchi di Dio che, alla fine, resterà deluso notando sparire nella morte l’uomo (7,20-21). Un parallelo interessante con la suddetta pagina potrebbe essere il salmo 87.

Capitolo 8: Baldad

Entra in scena Baldad. Per le sue argomentazioni, legate alla tradizione e alla storia, il secondo amico di Giobbe pare incarnare un’altra sorgente della riflessione veterotestamentaria, il diritto sacrale. Infatti, mentre Elifaz si appellava alla visione profetica per sostenere la sua tesi retribuzionistica, Baldad si riferisce al diritto dell’alleanza. Il principio può essere racchiuso in due binomi, fedeltà-benedizione, infedeltà-maledizione, la cui validità è costantemente confermata dall’esperienza. Il movimento di pensiero di Baldad è perciò veramente lineare e, accettato il postulato evidente che Dio non viola affatto il diritto essendo per eccellenza “il fedele”, s’illumina la situazione di Giobbe. I suoi figli sono morti perché hanno peccato diventando infedeli all’alleanza. A Giobbe è offerta la possibilità della conversione fonte di benessere e di trasformazione della miseria presente. Come vedremo, la tesi è sostenuta ed illustrata da tre incantevoli comparazioni di stampo sapienziale, la prima e la terza sono dedicate alla fede e alla giustizia personali, la seconda alla solidità che la fede offre. Se Giobbe accetterà questa lezione, la gioia tornerà a brillare sul suo orizzonte. L’argomentazione di Baldad è legata al concetto della fedeltà assoluta di Dio, ripresa e riaffermata ben tre volte (vv.3.13.20): a questa dichiarazione di principio è accostata una verifica sperimentale. Se vogliamo seguire passo passo il discorso di Baldad posso affermare che egli inizia il suo ragionamento con la già citata osservazione aprioristica dell’impossibilità divina ad essere ingiusto (8,2-4). Da essa si deduce la necessità della conversione da parte dell’unico ingiusto che è l’uomo. Solo in questo modo può essere cancellata la tragicità del presente (8,5-7). Il risultato è costantemente dimostrato dalla tradizione atavica d’ Israele (8,8-10): l’empio, infedele all’alleanza, non ha consistenza. L’idea è illustrata da tre similitudini finemente cesellate, quella del papiro (8,11-13), quella della tela del ragno (8,14-15) e del rampicante (8,16-19). L’applicazione del caso specifico di Giobbe finisce il discorso (8,20-22).Ormai Baldad si è spinto nell’accusa più avanti di Elifaz, pur mantenendosi nell’ambito della discrezione: egli, infatti, non dichiara che Giobbe è un peccatore in forma esplicita, tuttavia non cessa di lasciarlo trasparire in maniera indiretta conducendo sempre il discorso in terza persona (vv.11-20) e riportandolo alla seconda persona proprio nell’applicazione finale dei vv.21-22. Unica soluzione possibile, la conversione di Giobbe, prima che, come fu per i suoi figli, piombi su di lui il castigo della morte.

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