Libro di Giobbe: Sezione “A”

Capp. 1-2 prologo

“Spiegare Giobbe è come tentare di tenere tra le mani un’anguilla: più forte si preme, più velocemente sfugge di mano”. Queste sono le parole di S. Girolamo nella presentazione della sua traduzione del Libro di Giobbe, capolavoro in assoluto della letteratura biblica che descrive con chiarezza la titubanza e i complessi di chi desidera stendere un commento a questo “prodotto” altissimo del genio umano e, per il credente, a questo messaggio forte e sconvolgente di Dio.

Il Libro, che rivela le tracce di un processo di formazione legato ad una tradizione teologico-letteraria mai spenta nel pensiero umano, ha una costruzione molto diramata e non sempre di facile spiegazione perché l’opera vuole essere anche la testimonianza dall’interno di un itinerario tormentato e contraddittorio alla ricerca di Dio attraverso la via accecante del dolore innocente. Questo cammino faticoso e libero, che potremmo definire “eterodosso” rispetto alle tranquille e asettiche dichiarazioni teologiche della teologia tradizionale, si apre con un prologo, condotto drammaticamente sui due piani o letture del problema, quello razionale, storico, terreno e quello teologico, soprannaturale e celeste.

Immaginiamo, per un istante, la sala di un teatro. Sta per essere rappresentato il dramma. Gli spettatori zittiscono. Il sipario però non si apre. Esce un cronista e, a telone chiuso, legge il prologo esponendo all’auditorio la questione che sarà dibattuta ed approfondita nel dramma imminente, il problema reale dell’esistenza di un uomo e del suo destino.

Si tratta di sei scene principali, stese imitando i racconti patriarcali (benedizioni, benessere; prova e rovina), tutti i dati sui quali s’intreccerà il dramma. La tesi baricentrica non è tanto il problema del male, ma piuttosto l’analisi della prova di fede che nella sofferenza sperimenta la sua agonia più lacerante.

Il nome di Giobbe, assente nella Bibbia tranne che in Ezechiele 14, 22-23 ed Ecclesiastico 49,9, è molto documentato in un’ampia fascia dell’Antico oriente, come l’onomastica dei tre amici è di matrice edomita ed aramea.

L’esperienza di Giobbe non è specificatamente ebraica, è umana, universale, senza esclusioni razziali, culturali e religiosi.

Prima scena (1,1-5)

Campeggia la figura di Giobbe tracciata idealmente come simbolo della perfezione. Quattro aggettivi sapienziali raccolgono la completezza della sua personalità, sette figli e tre figlie suggeriscono uno schema familiare altrettanto perfetto, gli averi del seminomade (cammelli, tende, bestiame e case) evocano con nostalgia i Patriarchi e il mondo esotico dei “figli d’oriente” di là delle frontiere palestinesi. L’ideale di perfezione si riflette anche nel culto (v.5) e nella sensibilità morale dell’uomo che è quasi la coscienza dei suoi figli.

Sulla proporzione e l’armonia della scena sta per abbattersi la tempesta della prova.

Seconda scena (1,6-12)

L’obiettivo si sposta nella sfera celeste descritta secondo uno schema caratteristico della teologia extrabiblica e biblica: il Signore, come un sovrano, è assiso al centro del suo consiglio della corona composto dai vari visir che nella visione politeistica sono le divinità inferiori dl Pantheon e per la Bibbia sono angeli. Tra questi ministri ha una posizione di rilievo il Satana, “l’Avversario”, una sorta di pubblico ministero che ha il compito di verificare l’autenticità dell’obbedienza dei sudditi ( i credenti e la loro fede). Qualunque sia la genesi di questo personaggio, è ovvio che esso ha connotati “diabolici” come inseguito avverrà nella tradizione biblica (1 Cron.21,1) e giudaica tardiva. Il v.9 è il vertice del problema, la chiave della discussione “Giobbe crede in Dio per nulla?” Il dibattito del libro non verterà, quindi, sul mistero del dolore che è solo l’occasione, ma sulla gratuità della fede. Il Satana con acuta ironia rivela che la benedizione rende la religione facile ed il dialogo di fede scontato e “razionale”, mentre uno dei due termini è per eccellenza misteriosa. E’ interessante notare che, contro la posizione pessimistica e sarcastica del satana, si oppone l’ottimismo divino che dà credito alla bontà dell’uomo (vv.11-12).

Terza scena (1,13-22)

Il quadro diventa tenebroso dominato com’è dall’antagonista dell’uomo (il Satana) che lo sta sfidando in un duello pericoloso (la prova). La storia accuratamente stilizzata, è impostata su quattro messaggeri che annunciano quattro doppie disgrazie, numero classico per suggerire la totalità della sventura: ricchezze e persone legate a Giobbe sono implacabilmente colpite. Sfilano Sadei e Caldei, bande armate, anticamente nomadi e beduine; echeggia quasi martellato il verbo “cadere” dei predoni, del fulmine, della casa, di Giobbe che piomba a terra. Questo ritmo inesorabile, regolare come l’avanzata di un’inondazione è spezzato dalla parola di Giobbe (v.21) che

Evocando i due grembi entro cui è sospesa l’esistenza umana, quello materno e quello sepolcrale, risponde con umiltà e fede al mistero dell’agire divino.

Secondo il tradizionale procedimento del parallelismo, le tre scene che d’ora in avanti mediteremo riprendono quasi in duplicato il movimento delle scene precedenti, rendendole più intense e tragiche.

Quarta scena ( 2,1-6)

Dio (v.3) riprende ironicamente il “per niente2 usato dal Satana in 1,9: Giobbe è rimasto “mio servo” come Mosè, Davide, i profeti e il servo sofferente cantato da Isaia c.53, la fiducia di Dio nell’uomo, a prima vista rischiosa, si è rivelata fondata: le quattro doti ideali di Giobbe (v.3; cfr.1,1) sono integre nonostante la tempesta che ha sconvolto la sua vita. Il Satana allora gioca un’altra carta ancora più rischiosa per l’uomo. Citando un proverbio popolare piuttosto oscuro (“Pelle per pelle”, v.4), l’avversario osserva acutamente che i beni sono in realtà una seconda pelle, ma la salute e la vita fisica costituiscono la prima e la più preziosa pelle alla quale l’uomo è attaccato con tutte le forze. L’aggravamento della prova è condotto ormai ai confini della tollerabilità; in questo crogiuolo è difficile che si salvi qualcosa. Giobbe non resisterà. La prova continua incessante e martellante.

Quinta scena (2,7-10)

L’esecuzione della prova della salute è immediata: Giobbe è percorso nella pelle da 2una piaga maligna2. Il termine ebraico è lo stesso usato per la sesta piaga d’Egitto (Esodo 9), per le infermità epidermiche che conducevano alla scomunica dalla vita ecclesiale d’Israele (Lev.13) e per le maledizioni contro i trasgressori dell’Alleanza (Deut.28,27-35). Quindi non si tratta solo di dolore fisico, ma anche d’isolamento sociale e religioso, di una quasi morte morale. Infatti, Giobbe deve lasciare il suo villaggio, esporsi ai rischi del deserto, rifugiandosi sugli ammassi inceneriti d’immondizie gettati alla periferia della città di mura del centro abitato. Davanti a Giobbe si erge solo la presenza fastidiosa della moglie, disegnata negativamente secondo la tradizione misogina sapienziale come l’incarnazione della religione ipocrita, interessata. Nella prona essa diviene ateismo (“benedici Dio” è eufemismo per indicare la maledizione): giacché deve morire, Giobbe gusti almeno l’ultima consolazione della vendetta impotente, maledire il boia. La donna, nella via oscura della sofferenza, ha fatto la sua scelta, ha rifiutato Dio. Non così Giobbe che replica nel v.10 definendo follia e insipienza, superficialità e vanità il ragionamento della moglie. La sapienza c’insegna che i beni e i mali della storia vengono da Dio che proclama: “Io formo la luce, io creo le tenebre, io faccio il bene ed io provoco la sciagura” (Is.45,7). Come si distribuiscano e perché accadono in un progetto divino che l’uomo immagina solo d’amore e di giustizia sarà l’oggetto della lunga discussione successiva.

Sesta scena (2,11-13)

Fanno il loro ingresso nel dramma i tre personaggi che saranno i comprimari con Giobbe per un’ampia sezione del libro. Per ora sembrano tre amici compassionevoli, motivati da autentica simpatia nei confronti del compagno sventurato, ma il dibattito travolgerà ogni falsa compassione ed allora si vedrà il vuoto totale che circonda il sofferente. Contro un Dio spietato, essi rappresenterebbero la solidarietà umana, urlano, piangono e, secondo l’esagitato rito orientale di lamentazione e di cordoglio, si stracciano le vesti e si cospargono il capo di cenere. Ma alla fine si vedrà chi è realmente dalla parte di Giobbe. Al tumulto di voci e di grida degli amici subentra il silenzio. E’ il silenzio attonito di fronte al dolore, un silenzio che si prolunga, invade i secoli e il mondo giungendo fino a noi. Questo silenzio esprime l’incapacità di spiegare il mistero del dolore; esso si addensa per i sette giorni e le sette notti vuote d’azione (v.13) fino a quando sarà squarciato dall’urlo di Giobbe, un grido allucinante, portavoce di tutti i sofferenti (cap.1-2).

Nota finale: Il dialogo drammatico dei capp. 3-28 si sviluppa secondo una struttura reperibile anche in altri testi dell’Oriente Antico. Il dibattito sul problema del male può essere articolato attorno a nove interventi del protagonista, raggruppati in serie ternarie. E’ il caso anche in Giobbe: in tre cicli ogni intervento degli amici è preceduto da una dichiarazione del protagonista. La sequenza costante è, quindi così schematizzata:

Giobbe———Elifaz;

Giobbe———Bildad;

Giobbe———Zofar.

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