Libro di Giobbe: Sezione “B”, cap. 21-22

Secondo ciclo d’interventi

Capitolo 21: Giobbe

Giobbe, il protagonista, ora parla secondo i moduli e gli schemi della letteratura sapienziale, usando il genere letterario della “disputa tra saggi”. Pare quasi che ora Giobbe desideri introdursi nell’ottica sapienziale, adottare la metodologia per contraddirla proprio dall’interno. Come potete comprendere, si tratta dell’ultimo tentativo di autodifesa, che in sostanza occuperà l’intero terzo ciclo. Giobbe, allora, accetta la tesi di Bildad e Zofar sulla punizione del peccatore ma, dopo un’introduzione che è un invito all’ascolto (21,2-5), presenta la sua obiezione decisiva: la sorte del peccatore a livello sperimentale si rivela ben diversa da quella postulata dalla teoria della retribuzione. Il malvagio è prospero, socialmente ed economicamente affermato (21,6-9; salmo 73,3-12; Ger. 12,1-2), ogni sua impresa non conosce scacco e il tenore della sua esistenza è da dolce vita (21,10-13). Ironizza su Dio convinto di avere nelle proprie mani le chiavi del suo destino, mentre Dio pare quasi non osare né tentare alcuna reazione d giustizia nei suoi confronti (21,14-18). Certo, i teologi rispondono che la punizione è dilazionata e sarà riversata sui figli, ma questa è un’ingiustizia: “La faccia pagare piuttosto a lui stesso e la senta!” (21,19-22), Anche la morte per l’empio non è poi una gran rovina perché ormai ha gustato tutte le gioie e i piaceri della vita, mentre il disgraziato non ha nulla di qua e nulla nell’aldilà (21,23-26). Gli amici di Giobbe sono, perciò, dei tecnici astratti, chiusi nei loro schemi accurati, nelle loro ricette perfette, lontani dalla realtà scandalosa dell’esistenza (21,27-30). Conseguentemente sono incapaci di consolare Giobbe che resterà un maledetto e un derelitto, mentre gli empi riescono perfino a diventare modello di vita per i contemporanei e i posteri (21,31-34)

Capitolo 22: Elifaz

Il profeta Elifaz ripete la sua tesi usando una traccia caratteristica della teologia profetica: accusa, invita alla conversione, promessa di salvezza e liberazione. Ancora una volta notiamo la povertà mentale di chi si rifugia in schemi prefabbricati da imporre alla realtà per interpretarla coartandola e, alla fine, non spiegabile. L’esistenza non si lascia esaurire dallo stampo freddo e meccanico di una teoria. Elifaz è ricorso al suo terreno specifico dopo l’inatteso sconfinamento di Giobbe nel terreno sapienziale. Possiamo seguire il movimento del pensiero di Elifaz notando che egli ripropone, fin dagli inizi, il collegamento peccato-dolore e rifiutando la sapienza del discorso precedente di Giobbe (22,2-5). Egli vuole anche documentare concretamente il peccato di Giobbe opponendogli una lista di mancanze contro il prossimo (22,6-9). Giobbe dubitava che Dio annotasse queste debolezze, separato com’è dalla nostra storia nell’alto dei suoi cieli invalicabili e remoti (22,10-14).

Così Giobbe si è incamminato inesorabilmente sulla strada degli empi, ma l’ira di Dio che non tarda toppo è finalmente intervenuta a giudicare e punire (22,15-20). C’è quindi un’unica via di scampo per l’empio, la riconciliazione con Dio attraverso una conversione esistenziale ed allora tornerà a sorgere all’orizzonte travagliato di Giobbe l’aurora della pace e della benedizione (22,21-30).

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