Libro di Giobbe: Sezione “B”, cap. 3-4-5


Primo ciclo d’interventi

Capitolo 3: Giobbe

Il silenzio è squarciato dal grido lancinante e disperato di Giobbe che lancia una lamentazione di tipo salmico (salmi 21 e 129), parallela con la più ardita e tragica confessione di Geremia (20,14-18) da lei dipendente.

Si tratta di un soliloquio punteggiato dall’interrogativo in cui si spegne la preghiera della persona desolata e attonita di fronte al mistero del dolore, “Perché?”, caratteristico dei salmi di supplica (vv.11.12.20).

La sfida del Satana era che Giobbe avrebbe maledetto Dio; il giusto, invece, maledice la sua esistenza partendo dalla stessa radice temporale, il concepimento. Il lamento, più torrenziale in Giobbe di quanto lo sia in Geremia, ha come filo conduttore un doppio simbolo giorno-vita e notte-morte (vv.3; 4-6; 7-10).

E’ Dio che fa brillare il sole del giorno, dando origine ad una continua creazione della luce. E’ Dio che introduce la notte gioiosa per gli sposi e quindi feconda come un grembo materno. L’imprecazione di Giobbe si dirige proprio a queste due realtà: se la notte fosse stata affidata al regime del Leviatan, il simbolo del nulla o del caos che attenta alla creazione e all’essere, non si sarebbe spalancata la porta del giorno e della vita per Giobbe (vv.3-10). Il grembo della notte sarebbe stato non più un grembo materno di vita, ma un sepolcro che avrebbe portato ad unità i due estremi dell’esistenza, nascita e morte.

Poiché è impossibile abolire la nascita e risalire alla sorgente della vita, almeno si potrà invocare e desiderare l’estremo della morte, vista come la cancellazione d’ogni pena nella riduzione spettrale e incolore dell’Ade-Sheol. Questo è l’argomento dei vv.11-19. dal v.20 fino al v.26 entra in scena per la prima volta Dio che nelle parti poetiche, vale a dire nella quasi totalità del libro non è mai chiamato col termine specifico biblico Jahweh, ma con l’appellativo generico El (Dio) o con altri affini. Da questo momento n avanti ci sarà in Giobbe il tentativo sistematico di rimettere il problema a Dio, di chiamarlo in causa. Almeno per spiegare questa semplice eppure essenziale domanda: Perché Dio ci mette al mondo senza fare i conti con noi? Perché dà vita a chi non la chiede e forse vuole solo morire?

Capp. 4-5: Elifaz

Non è possibile, dati i limiti di questa riflessione, penetrare in tutti i meandri di questi ragionamenti teologici piuttosto ricercati, espressioni raffinate del pensiero giudaico. Mi sforzerò, perciò, di fare notare soprattutto l’impianto generale del discorso in modo da farne emergere la trama logica non sempre di facile ricostruzione in una pagina semitica. Elifaz, che come gli altri due amici sono d’origine edomita o araba (Teman), pare incarnare il tipo della profezia ufficiale. Infatti, egli sostiene le sue argomentazioni appoggiandole ad una visione (4,12- 5,7). Il profeta era chiamato “il veggente”, per la sua possibilità di contatto col mistero di Dio che poteva svelarsi solo attraverso una comunicazione diversa dai nostri soliti canali di relazione interpersonale. La tesi della profezia è già dichiarata quasi integralmente fin da questo primo discorso d’Elifaz: la sofferenza nasce da una colpa e quindi è espressione della giustizia distributiva di Dio (4,1-11) perché ogni uomo è peccatore (4,12-21). Anche Giobbe non può sottrarsi a quest’universalità (5,1-11) e deve alla fine sperare nella sapienza divina che “affanna e consola” (5,12-27).

Cercherò ora su questa delimitazione fondamentale del discorso, legata com’è ovvio alla teoria tradizionale della retribuzione (peccato-pena; giustizia-premio), di operare qualche precisazione più attenta sulle singole unità dell’intervento stesso.

Con un attacco giuridico-sapienziale Elifaz si stupisce dell’abbattimento e dello stordimento eccessivo cui il dolore ha condotto il saggio Giobbe (4,2-6). Egli deve sapere che solo l’empio perisce demolito da Dio stesso, mai l’innocente (4,7-11). Appellandosi alla profezia, della quale descrive l’esaltante esperienza mistica, l’amico dichiara di avere vissuto un’impressionante vicenda visionaria (4,12-16). In lei gli è stata comunicata una tesi fondamentale: “Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo Creatore?” (4,17).

Nessun uomo è senza peccato (4,17-21). E’ assurdo, perciò, ribellarsi: anzi la legge della retribuzione deve implacabilmente funzionare punendo il peccatore nella sua vita e nei beni a cui è attaccato (5,1-5).

Giobbe riconosca allora che non può essere innocente perché del suo peccato egli ha la prova sperimentale e flagrante nella sua sofferenza. Si rivolga piuttosto a Dio esponendogli la sua causa (5,6-10). Dio, infatti, è splendido nella sua sapienza che pianifica l’universo e la storia rendendoli armonici (5,11-16). La sua sapienza si rivela anche nella correzione pedagogica che Egli compie nei confronti dell’uomo, “perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente” (5,17-21). Essa alla fine sfocerà nella gioia e nella benedizione descritte secondo i moduli classici della retribuzione terrena (5,22-27).

Elifaz nei suoi interventi è sempre discreto e misurato: non vuole mai applicare direttamente a Giobbe le sue riflessioni sul dolore come segno del peccato, lascerà a Giobbe di trarne le naturali conseguenze personali. E’ importante anche rilevare che nella sua visione piuttosto pessimistica dell’uomo, nessuno può essere esente dal peccato: secondo Elifaz, che con umiltà si colloca tra i peccatori (4,17-21), la prova nel dolore è quasi un dono perché, attraverso essa, l’uomo è purificato e liberato dal suo male profondo (5,17-26).

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