Libro di Giobbe: Sezione “B”, cap. 9-10-11

Capp. 9-10: Giobbe

Disgustato dall’atteggiamento di Bildad che, anziché difenderlo, si è schierato col più forte (Dio), Giobbe, con un linguaggio in cui si mescolano elementi giuridici, innici, salici e processuali argomenta dallo stesso principio di Bildad per dedurne conseguenze diverse. Seguiamo il suo ragionamento distribuito lungo tre tempi. Innanzitutto Giobbe accetta in principio dell’amico secondo il quale Dio ha sempre ragione (9,2-4). Questo è vero non perché egli sia giusto e fedele, ma semplicemente perché il suo è un potere assoluto, dispotico, arbitrario, basato sulla sua irrefutabile superiorità e potenza (9,5-10). Anzi, Egli è dittatorialmente non perseguibile presso nessun tribunale (9,11-14). Anche se l’uomo si strisciasse davanti a lui per avanzare le proprie ragioni non sarebbe degnato d’attenzione (9,15-18) o in qualsiasi caso, essendo lui l’arbitro indiscutibile, pronuncerebbe una sentenza di condanna per l’uomo senza possibilità d’appello (9,19-21). In tal modo, con un sovrano che non è responsabile davanti a nessuna legge o persona, è naturale che il mondo è lasciato in balia dei malfattori che Dio tollera dando origine ad un quadro di miseria e d’ingiustizia totale (9,22-24).

La seconda fase dell’intervento di Giobbe è dominata dalla sua collera poiché egli non può contraddire Dio, né costringerlo a giustificarsi, né purificarsi delle colpe che egli non ha la coscienza di avere commesso. Ecco in sintesi il pensiero del gran sofferente. Giobbe sente sfuggire dalle sue mani la vita che scivola via come le barche sull’acqua, che tutto è intessuto di dolore e lamenti (9,25-28). Anche supplicare il perdono, purificarsi con i riti lustrali non ha senso poiché non avendo la coscienza di avere peccato, il suo desiderio è impotente e senza sbocchi (9,29-31). Né gli è possibile citare in causa Dio in un processo in cui siano garantiti i diritti degli accusatori.

E’ impossibile, infatti, che esista un arbitro o un mediatore tra Dio e l’uomo (9,32-35). Questa è la prima affermazione di un’intuizione importante in Giobbe (13,3; 19,5; 16,21, 33,19): la speranza di avere un mediatore che, pur essendo vicino all’uomo, può autorevolmente intervenire presso Dio. Solo la cristologia neotestamentaria potrà fare balenare all’uomo la possibilità di un mediatore perfetto, Gesù Cristo Signore. Per la trascendenza assoluta del monoteismo biblico questa risposta è ancora lontana, Ma sarà solo attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio che la divinità non sarà più concepita come un despota amorale ed irresponsabile.

A questo punto siamo all’ultima linea dell’arringa di Giobbe. Egli si rivolge con un gemito a Dio perché gli sveli la causa della sua ostilità (10,1-2), altrimenti il Signore si comporterebbe come un uomo che giudica solo secondo apparenze non scoprendo l’interiorità di giustizia e di purezza che Giobbe nasconde sotto una superficie sfiduciata (10,3-7). Ma Dio, il Creatore che ha plasmato il feto con passione e cura, il Creatore che ha forgiato una persona così meravigliosa, vorrà forse annientare una sua creatura? (10,8-12).

Non sarà per caso proprio Dio l’implacabile nemico di Giobbe, proteso come una belva feroce su di lui per sbranarlo? (10,13-17). Se fosse così, sarebbe molto più giusto che Dio lasciasse Giobbe in pace, abbandonandolo alla morte. L’ansia delle parole di Giobbe raggiunge uno dei vertici più commoventi: “ Lasciami respirare un istante prima che io me ne vada per sempre” in direzione del nulla e la non-esistenza (10,18-22). E’ quasi paradossale che la Chiesa abbia scelto sin dal medio Evo il cap.10 come lettura biblica per l’Ufficiatura funebre: l’amarezza di Giobbe era filtrata alla luce della speranza cristiana, l’unica che può dare una risposta agli interrogativi strazianti di un uomo immerso nel dolore più acuto.

Capitolo 11: Zofar

Il terzo amico con la sua insistenza sulla sapienza e sull’osservazione sperimentale della realtà rivela la sua vera fisionomia: agli occhi dell’autore dovrebbe incarnare il prototipo della sapienza tradizionale, come Elifaz rappresentava la profezia e Bildad il diritto all’alleanza. Simile ad un alunno diligente, Zofar si applica con zelo a dimostrare la validità della teoria della retribuzione. Perciò è inammissibile che Giobbe si dichiari innocente; se Dio volesse interessarsi di questo mentecatto presuntuoso, gli svelerebbe le miserie personali che ha sulla coscienza, ed allora Giobbe comprenderebbe che una sola è la via praticabile, quella della conversione. Il tono di Zofar è aggressivo sin dalle prime battute ed è l’unico degli amici che attacca Giobbe personalmente applicandogli subito il nesso peccato-castigo con estrema sicurezza e rigidità. All’inizio Zofar contesta l’affermazione di Giobbe sulla sua irresponsabilità di coscienza (11,2-4). Si compia pure la richiesta di Giobbe (11,5-69: Dio non farà appello alla forza né abuserà del suo potere, ma con la sua superiore sapienza farà lampeggiare davanti a Giobbe i segreti che Egli solo sa, anche quelli che Giobbe stesso conserva nascosti interiormente.

Infatti, Dio è la Sapienza stessa la cui vastità e totalità sono raffigurate dalle quattro dimensione sopra-cosmiche: altezza, profondità, ampiezza e lunghezza (11,7-9; eccl.1, Deut. 30, 12-13; Bar. 3,29-32; Am. 9,1-4; Salmo 138).

Per questo Egli può giudicare infallibilmente il peccatore, è lui che cita in giudizio l’uomo e non viceversa come vaneggiava Giobbe, che ora dovrà iniziare a ragionare secondo il precetto tradizionale del v.12 (11, 10-12). Allora il sofferente comprenderà la causa del suo dolore e si avvierà sulla strada della conversione, radice del cambiamento della situazione (11, 13-16).

Il programma di conversione dei vv.13-14 è strutturato sulla base dei salmi cosiddetti “di ingresso”, atti penitenziali antecedenti all’entrata nel Tempio e nella liturgia (salmo 14 e 23), ed è semplificato nei due impegni nei confronti di Dio e del prossimo. Con la conversione l’esistenza di Giobbe sarà trasformata e tornerà sulla via della felicità e della pace (11, 17-20). La tesi de due destini terreni riservati a giusti ed empi appartiene al cuore della sapienza classica (leggere il salmo 1).

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