Libro di Giobbe: Sezione “B”, cap. 12-14-15

Secondo ciclo d’interventi

Capp. 12-14: Giobbe

In questi capitoli riprende l’arringa di Giobbe. Il dibattito prosegue con un nuovo ciclo di dialoghi secondo lo schema in precedenza indicato. Alla conclusione del primo atto possiamo dichiarare che Giobbe ha rovesciato ogni obiezione e ha rabbonito tutti i fronti: non ha maledetto come aveva scommesso il Satana, non ha chiesto perdono e grazia che, essendo imposti estrinsecamente e non dalla coscienza, sarebbero solo ipocrisia.

A questo punto egli riprende la sua ansiosa ricerca, quasi ignorando il discorso previsto e irrisorio di Zofar. E lo fa con un maestoso intervento a norma prevalentemente giudiziaria, basata sul processo civile ebraico. Cerchiamo di seguirlo nelle sue tre sezioni principali.

La prima parte, 12,1-13,12, è dedicata ad un attacco alle dissertazioni degli amici con i quali oramai la rottura diventa chiara e che Giobbe desidera giudicare anziché essere da loro giudicato. Essi si arrogano il monopolio della sapienza mentre in realtà offrono spiegazioni trite e rancide (12,2-3), spiegazioni contraddette dai fatti (12,4-6). A questo punto s’innesta un inno alla creazione (12,7-25) composto di due testi d’origine diversa (12.7-12 e13-25) dei quali il primo si raccorda piuttosto faticosamente col contesto.

Sono state date molte interpretazioni sulla presenza di questo corpo differente. Io mi accontento di rilevare che 12,7-12 è in sintonia col v.3 e ripete ironicamente che non solo gli uomini ma anche gli animali possono insegnare quanto affermano gli amici di Giobbe. In quattro gruppi divisi in strati, l’autore sintetizza l’universalità degli animali 2docenti”. Dio è appunto il Signore Onnipotente in cui si concentrano in forma eminente le virtù e le doti della sapienza, della forza, del consiglio e della prudenza (Is.11,2), attribuite anche al Messia davidico. Il motivo del secondo inno è così la celebrazione della sovranità divina anche sulla storia (12,13-25), con reminescenze d’Isaia 44,24-28 e del salmo 106,23-30.40.

La signoria di Dio si svela nel suo potere di abbracciare situazioni agli antipodi (l’inganno e l’ingannatore, 12,16), situazioni antitetiche radicali ( sollevare- rovinare), destini diversi ( spogliare e spossessare ricchi e potenti). Ma domina soprattutto il potere distruttivo di Dio che, come una sfilata trionfale, conduce prigionieri e umiliati tutti i suoi nemici (vv.17-19). Giobbe sui dati offerti dai due inni precedenti si ritiene ugualmente informato come i suoi amici teologi (13,1-3); ma questi elementi sono insufficienti a spiegare il suo problema angoscioso perciò sarebbe meglio adottare il silenzio anziché la “teo-logia”, in altre parole il parlare di Dio (13,4-6). Sarebbe molto meglio restare in silenzio invece di erigere una “teo-dicea”, in pratica una difesa d’ufficio di Dio (13,7-9). E’ ingiusta una teologia basata sulla condanna dell’uomo, è inutile una difesa di Dio con menzogne sia pure bene intenzionate. Dio se decidesse di abbandonare il suo ruolo distaccato ed intervenisse in prima persona, svelerebbe la morte di questa teologia abitudinaria e logora e ne indicherebbe l’egoismo essenziale che la vizia. Essa celebra e difende Dio perché si è dalla parte del privilegio e della fortuna ed allora occorre essere riverenti e parziali con chi può ricattarti dandoti o togliendoti il benessere e la felicità (13,10-12). L’indigente, al contrario, si confronta nitidamente, faccia a faccia, con Dio senza ricorrere a sottigliezze di cenere, a fragili difese (v.12).

Nella seconda parte dell’arringa (13,13-28), Giobbe, il miserabile, decide di parlare chiaro davanti a Dio e agli amici, giocandosi tutto. Chi non ha altro da offrire se non pie considerazioni, abbandoni il ruolo glorioso d’avvocato di Dio e taccia ed ascolti (13,13-19). Giobbe in questo dibattito con Dio pone una condizione sola e cioè che il processo sia onesto, senza appello al terrorismo ideologico e alla violenza, essendo ovvia la preminenza di Dio (13,20-22; cfr.9,34). La requisitoria contro Dio è breve e veemente (13,23-289. Se Dio accusa l’uomo, provi le sue accuse, poiché lui pare quasi compiacersi nell’annotare ed archiviare tutti i nostri delitti senza concedere l’attenuante della giovinezza o la caduta in prescrizione nel tempo. Dona i piedi della libertà all’uomo e poi glieli mette in ceppi; fa l’uomo debole e indifeso e poi inveisce crudelmente contro di lui, perseguitandolo senza tregua.

Da accusato Giobbe si trasforma in accusatore: se Dio ha fatto l’uomo razionale deve dare risposte razionali alle sue domande legittime.

Da questa accorata e drammatica requisitoria Giobbe passa, nella terza parte del suo discorso, ad un tono più disincantato e riflessivo (cap.14), trasferendosi dal suo problema personale alla miseria della condizione umana in generale. Essa è composta di precarietà e d’inquietudine (14,1-3; salmo 89,9-10) e Dio non dovrebbe braccare una creature così indifesa: “lascialo stare” è il grido d’agonia di Giobbe, lascia che quest’uomo si trascini verso la sera della sua giornata terrena di lavoro (14,4-6). Davanti a Dio l’uomo sarà sempre fondamentalmente impuro e quindi Giobbe riconosce la velleità anche del suo desiderio precedente di presentarsi a discutere con Dio (v.49. E’ assurdo, eppure il vegetale ha più speranza dell’uomo perché un tronco morto può ancora germogliare (14,7-9), diversamente dall’uomo nella morte (14, 10-12). La speranza di una scelta resta solo un sogno irreale (14,13-17), eppure sarebbe l’ultima possibilità per ristabilire giustizia e donare pace all’uomo.

Il “sacchetto” del v.17 in cui Dio raccoglie i peccati è un’allusione all’uso beduino di riporre in un sacchetto un numero di pietre bianche corrispondenti ad ogni animale del gregge. In realtà, Dio annienta inesorabilmente ogni speranza dell’uomo (14,18-19), lo fa invece soffrire e lo abbandona alla morte definitiva (14,20-22).

Capitolo 15: Elifaz

Risentito dalla reazione dura di Giobbe, anche il mite Elifaz si deve ora dissociare dall’amico. Lo fa in due momenti, rimproverando caparbiamente Giobbe (15,2-16) e rammentandogli la tesi tradizionale sul destino tragico del peccatore (15,17-35), senza però applicarla direttamente a Giobbe che ne dovrà trarre personalmente le conseguenze. Ecco in dettaglio il pensiero sapienziale di Elifaz. Giobbe deve essere criticato senza esitazioni perché si attribuisce una sapienza ed una pietà che in realtà sono false e vane, anzi sono una parodia della vera religione (15,2-6). Alla base c’è il suo invincibile orgoglio (15,7-10) che lo rende altezzoso nei confronti di Dio (15,11-13) scambiandosi quasi con la stessa sapienza divina. L’uomo, anche il più santo, davanti a Dio è miseria e un “essere abominevole e corrotto2 (15,14-16).

Occorre allora porsi con umiltà alla scuola pura degli antichi e dei sapienti di professione (15,17-19) per imparare che il peccatore è condannato inesorabilmente. E’ punito all’inizio nella sua coscienza e nel rimorso (15,20-22) e in seguito in modo visibile con una rovina angosciosa per il suo peccato d’autodivinizzazione, in pratica l’orgoglio che lo ha illuso di essere simile a Dio (15,23-27). La rovina sarà clamorosa ed è, in finale, descritta, secondo la prassi sapienziale, con l’immagine vegetale dell’albero tagliato prima che i suoi frutti raggiungono la maturità (15,28-35). Su questo sfondo fosco e minaccioso Elifaz lascia a Giobbe il compito di collocare la sua sorte.

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