La Liturgia – Cap 9

Il linguaggio simbolico

Nel simbolo l’uomo è interpellato da una realtà che lo oltrepassa e che si rivolge a Lui nella sua totalità: sentimento, immaginazione, intuizione ecc…
Se è vero che anche Cristo ha utilizzato simboli e riti per offrire all’uomo la realtà del suo mistero, è ugualmente vero che i simboli e i riti, così come si trovano nella liturgia cristiana, non sono più, per molti cristiani, una porta d’accesso a questo mistero. Che fare allora? Creare nuovi simboli, nuovi riti? Molti sarebbero tentati di rispondere di sì, ma dimenticano una realtà fondamentale: i simboli non si creano a piacere, ma sono dati agli uomini, perché si lascino formare. Come pure va ricordato che, per quanto riguarda l’esperienza cristiana, Cristo stesso e la Chiesa nascente sono responsabili della scelta di simboli e riti. Ne deriva chiaramente che è a livello delle forme del simbolismo e del ritualismo che si deve operare l’adattamento della liturgia cristiana all’uomo d’oggi. E’ evidente che i segni liturgici devono essere “espressivi” per l’uomo. Non va trascurato neppure che solo raramente un simbolo coincide con l’espressione spontanea.
Il vero problema è dunque quello di dare una vita nuova ai simboli antichi, scoprendone anzitutto la causa della crisi. Sembra che questa sia legata al mutamento culturale, attuatosi nel mondo contemporaneo, che ha al suo centro la preconizzazione della morte di Dio e perciò addirittura la fine del sacro, per sopravvalutare l’umano, il profano. La liturgia per un autore moderno, conosce tre uomini:
– Quello vecchio, prima del Concilio Vaticano II°.
– Quello del dopo-Concilio, che credeva di avere trionfato per avere superato il latino.
– Il terzo uomo che, costatato come anche dopo il Concilio la liturgia lo introduce in un altro mondo, senza alcun rapporto con ciò che personalmente pensa e vuole, si risolve ad usare della sua coscienza come unica guida, facendo a meno della Chiesa e della liturgia.
Proprio in questa trasformazione di mentalità, che suppone ben altre esigenze, si deve operare la trasformazione delle forme dei simboli.

Sacro e profano

Finché nella teologia non si era giunti alla valorizzazione cristiana del mondo e degli uomini non battezzati, la distinzione tra sacro e profano è stata considerata da tutti come qualcosa di perfettamente chiaro e trasparente. Ma mentre hanno preso forza l’atteggiamento e la mentalità di dialogo, si è aperto un periodo di discussioni, riflessioni, saggi….Intorno al binomio sacro-profano, sommamente interessante.
Fino a qualche decennio fa il sacro era stato considerato come ciò che è segregato per la presenza della Divinità e a causa di lei; segregato da ciò che tale presenza non possiede, cioè dal profano. Oggi invece per sacro s’intende lo stesso profano, decifrato nel suo legame con la trascendenza, e perciò con il mistero. Il sacro esprime, prima ancora che un qualcosa nel mondo e nell’uomo, un particolare atteggiamento dell’uomo nel mondo: “IL sacro è di natura razionale; è lo stesso creato in quanto creato, che non perde per questo la propria consistenza e autonomia, non cessa di essere profanità. Quindi non può opporsi al profano, o meglio, le due entità non si possono definire intermini di separazione, né localizzarle in due zone diverse. La sacralità originaria è lo stesso mistero dell’uomo in quanto apertura a una trascendenza”.
In forza dell’Incarnazione, infatti, la presenza della Divinità si è diffusa su tutta la superficie del reale e ha cessato di essere patrimonio esclusivo del sacro, della zona sacra. Grazie all’Incarnazione la condizione umana si è trasformata nella materia e nello spazio concreti della manifestazione storica di Dio. Grazie a Cristo Gesù, tutta la storia umana è avvolta nell’amore di Dio, è assunta nella presenza assoluta e gratuita del Mistero Divino. Ne segue quindi il corollario: c’è stato un processo di desacralizzazione. Certo, l’uomo è desacralizzato, non nel senso che possa fare a meno del fondamento divino, che, sradicato da lui, è cittadino autonomo del suo mondo; ma nel senso che, appunto perché fondato su solide basi, capace di stare in piedi da solo, può attendere liberamente e creativamente alla costruzione della sua città.
Il sacro, in ultima parola, non disimpegna l’uomo dal profano, ma lo rende capace di costruire e vivere il vero profano. Il sacro non deresponsabilizza l’uomo, ma lo esige autonomo, libero, creativo. Nel sacro il credente cristiano non scorge un Dio che è contro l’uomo, ma per l’uomo e con l’uomo; il garante della sua dignità al di là delle facili mistificazioni. In questo senso la Bibbia è la più grande apologia del sacro e Gesù il più innamorato personaggio di questo mondo sconosciuto: nonostante tutte le interpretazioni politiche secolari…
Anche la liturgia va situata in questa prospettiva: essa è stata e rimarrà sempre il luogo privilegiato del sacro. In lei la comunità celebra la propria esperienza di essere radicata nell’amore di Dio. Il riferimento a Dio, a Cristo, allo Spirito Santo sarà continuo nella liturgia e impedirà all’assemblea liturgica di trasformarsi in un generico incontro…La liturgia sarà sempre un momento sacro, s per sacro si intende la coscienza di essere radicati sul versante di Dio. E sarà proprio questa coscienza, da rinnovare continuamente che impegnerà sul versante del profano.
Il rapporto tra sacro e profano, piuttosto che eliminato, va potenziato. Tra i due intercorre una relazione dialettica: maggiore è la propria esperienza di legame con il sacro, più coerente sarà il proprio impegno nel profano. E’ probabile che la passività e il disimpegno, a volte favorito da un certo “stile” liturgico, sia dovuto proprio alla mancanza di un’adeguata esperienza del sacro. Una delle urgenti funzioni della liturgia, a mio avviso, è dunque quella di aiutare i presenti a ritornare continuamente alla sorgente della loro esperienza, che è l’amore di Dio. Se la liturgia tradisce questo compito e si trasforma in un’assemblea di persone più o meno impegnate, tradirebbe l’uomo e la sua fede.
La Scrittura e le varie culture conoscono un movimento ondulatorio di secolarizzazione (=l’uomo deve impegnarsi nel sociale), e di sacralizzazione (=l’uomo deve vivere immerso nel sacro). In questo continuo oscillare da un polo all’altro la liturgia fa da richiamo costante al secondo: solo la consapevolezza del sacro rende possibile la comprensione e la costruzione del profano.

La manifestazione del sacro

La vita umana è piena di azioni-segno, di riti e di simboli che servono agli uomini per comunicare tra loro e vivere insieme. La liturgia cristiana prende i suoi segni dal contesto vivo dell’uomo e della sua società, ma conferisce loro, nella fede, una nuova forza significativa: in questi segni l’uomo avverte la santità e la trascendenza di Dio, che rimane sempre “totalmente altro”, nel momento stesso in cui totalmente si dona.
Il rito manifesta, dunque, la realtà divina che, per suo tramite, viene comunicata. Come segno, il rito fa apparire questa realtà come “altra”; rimanda, cioè, oltre se stesso, alla realtà significata. A questo punto si pone un problema: ci deve essere una manifestazione della dimensione di distacco, di alterità, anche negli stessi elementi significativi (=parole, gesti, cose…) del rito liturgico? Come si realizza la dialettica sacro-profano all’interno della celebrazione liturgica?
Anzitutto va detto che tutti gli elementi significanti della liturgia (=parole, gesti, cose…) sono comuni, presi dalla vita umana comune e dall’ambiente culturale comune. Non occorre che per la celebrazione liturgica ci sia un linguaggio speciale, una musica speciale, oggetti speciali….Anzi, introdurre un elemento di distacco, nella scelta degli elementi significanti liturgici, potrebbe essere occasione di inganno, se portasse a pensare che il sacro consiste in questa qualità di differenza dal comune o profano: parole sacre, stile sacro, oggetti sacri…Se si eccettuano le realtà immutabili, derivanti dal carattere storico della rivelazione (=Sacra Scrittura, segno di Croce, ecc…) e quelle derivanti dalla disciplina ecclesiastica (=Formule rituali, ecc..); le altre cose non sono sacre in se stesse, ma per l’uso che il Cristo-Chiesa ne fa per la santificazione degli uomini.
Eppure non bisogna trascurare che l’azione-segno ha il compito di insinuare in modo sensibile l’alterità-distanza: il rito, cioè, deve far comprendere che si tratta di “qualcosa d’altro”, diverso dall’azione naturale e stimolare, aiutare l’atto di fede nella salvezza offerta.
A questo riguardo occorre osservare che questo distacco, pur assente dall’oggetto rituale (=una tavola comune, musica ordinaria, ecc..), si trova invece sempre e soprattutto nel contesto dell’azione-segno. In realtà la motivazione del raduno comunitario e il modo di celebrare sono assai più efficaci nel manifestare il distacco reale, proprio dell’azione-segno liturgica, che non l’uso di oggetti speciali. La differenza viene dalle persone e non dalle cose.
In questo senso, si può affermare che una certa desacralizzazione della liturgia è necessaria e benefica. Ciò avviene quando i partecipanti dell’assemblea hanno l’impressione che con la moltiplicazione di oggetti speciali per il culto si viene a creare un ambiente di “sacro naturale”, senza impegnare direttamente la fede nel mistero di Cristo Gesù. La reazione dei nostri giorni si spiega storicamente con il fatto che un tipo di liturgia basato su dei riti “fatti di cose” è sopravvissuto troppo a lungo in un mondo fatto soprattutto di rapporti personali. Allora, soltanto con l’uomo e per l’uomo anche gli elementi significanti del rito diventano parte integrante del sacro cristiano, segno e strumento della salvezza. Per questo è importante, a mio avviso, che l’antropologia non soltanto contribuisca a comprendere meglio il senso dei riti religiosi, ma anche ad offrire alcuni spunti per le modalità del linguaggio simbolico, inserito nel mutato contesto culturale. Le esigenze che si pongono a questo riguardo sono molto elevate. Mi limiterò pertanto ad offrire solo poche e parziali indicazioni sulla parola e sui gesti, tenendo presente che il linguaggio è più riuscito, nella misura in cui tutte le forme che vi concorrono riescono a migliorare la comunicazione tra Dio e uomo e viceversa.

La Parola significativa e interpretativa

La comprensione della parola sacramentale e liturgica dipende anzitutto da una conoscenza globale della visione cristiana dell’uomo e dei fatti salvifici. Nessun rito, infatti, riesce ad offrire da solo (come il paganesimo), senza questo retroterra di conoscenze cristiane, una parola interpretativa sufficientemente chiara e convincente. D’altra parte, la parola interpretativa, nelle sue diverse forme e articolazioni, deve obbedire alle strette esigenze, che si pongono oggigiorno a un linguaggio comunicativo, e cioè:
Dovendo servire alla comunicazione e all’espressione di diverse persone di diversa estrazione e formazione culturale, la parola rituale deve essere chiara, pura, di facile comprensione, sufficientemente concreta; aliena da termini difficili e da espressioni scientifico-astratte, contemporanee…Con ciò non voglio dire che non possa esistere un linguaggio liturgico proprio, con alcuni termini specifici…Tuttavia lo sviluppo di un linguaggio creativo è ancora tutto da realizzare.
Si deve porre anche attenzione alla componente culturale, che si rispecchia in ogni linguaggio: il modo di parlare, le immagini, i paragoni, ecc..devono rispecchiare la cultura contemporanea.
Ogni linguaggio deve, inoltre rispecchiare anche una determinata visione dell’uomo e del mondo, che è soggetto al progresso del pensiero critico. Ciò che è importante nella vita profana e concreta per vivere la fedeltà a Dio, deve trovare anche un’espressione adeguata nella parola rituale. Per questo vanno superate interpretazioni dualistiche dell’esistenza (=spirito,anima,copro; disprezzo delle cose terrene), ancora presenti nel linguaggio liturgico.
Il linguaggio simbolico deve essere il più possibile espressivo. I riti devono enunciare tutto il significato dei simboli e dei problemi esistenziali cui si riferiscono. Nello stesso tempo devono demistificare i falsi assoluti, che passano sotto i termini affascinanti come: progresso, storia, futuro, ecc…
Il linguaggio dei riti, infine, non è un linguaggio funzionale al servizio della praticità. E’ piuttosto un linguaggio evocativo, che deve lasciare spazio al Trascendente, perché possa esprimersi ed enunciarsi, e all’uomo perché attraverso questo linguaggio possa comunicare con il Trascendente. Le esigenze sono quindi diverse da quelle di un linguaggio scientifico e da quelle di un linguaggio disteso, tipico della conversazione tra amici.

Gesti simbolici

A differenza dei linguaggi funzionali, i riti religiosi fanno abbondante uso di gesti simbolici. Tale linguaggio indubbiamente non può essere separato dalla parola significativa e interpretativa, perché non sarebbe intelligibile. Il gesto simbolico appartiene alla vera ricchezza del linguaggio umano: l’uomo, infatti, non pensa soltanto con il cervello e non parla solo con la bocca, ma anche con i gesti simbolici, con tutto il corpo, con la musica, la danza, l’atmosfera che crea…Certo, molti di questi gesti, con l’andar del tempo, diventano insignificanti, perché dipendono molto dalla cultura in cui si inseriscono e dalla categoria di età e cui si rivolgono. Necessita dunque darsi da fare per riscoprire il linguaggio del silenzio, dello star seduti, dell’inginocchiarsi, del battersi il petto, dell’alzare le braccia al cielo, ecc…Anche gli elementi materiali utilizzati nel linguaggio simbolico devono essere perciò espressivi.

Conclusione

Le indicazioni proposte mostrano, sia pur sommariamente, il contributo che l’antropologia è chiamata a dare oggi per rivalutare i riti cristiani. Certo, ogni approccio antropologico è necessariamente settoriale e relativo, rispetto alla profondità e alla ricchezza del mistero contenuto nella vita, morte e resurrezione di Gesù Tuttavia questo problemi antropologici si rivelano sempre più importanti, non solo per la comprensione teologica dei riti, ma soprattutto per l’educazione e la catechesi. Attraverso una paziente riscoperta dei simboli religiosi e della loro importanza per la vita umana, è quindi possibile introdurre una più profonda comprensione e rivalutazione dei riti cristiani, a tre livelli.

Livello sociologico

Può darsi che molti oggi, impegnati come sono nella lotta per un mondo diverso e più accogliente, non si accorgano delle sue fondamenta. Ma non per questo l’uomo è meno sacro…Il sorprendente ritorno all’occulto, al culto irrazionale, all’astrologia, alla stregoneria…stanno a dimostrare che il sacro è una forza incomprimibile e che, per quanto si soffochi, riemerge prepotentemente sotto vesti devianti, paurose, ribelli. I fenomeni di magismo, spiritismo e satanismo…sono figli degeneri del sacro, che denunciano l’incapacità della liturgia cristiana (così com’è in generale) di comunicare il “vero sacro”.

Livello antropologico

Come all’epoca di Gesù, la vita umana attuale è molto riutilizzata e il simbolismo non è per niente morto. L’uomo dell’età della tecnologia del terzo millennio si serve solo del tipo di conoscenza di “percezione immediata” di “costatazione sperimentale”, mentre l’utilizzazione dei simboli e dei riti richiede un altro modo di procedere dell’uomo, che non è più di tipo analitico come quello scientifico…Il simbolismo infatti, comporta un fattore irrazionale, che per fortuna obbliga l’uomo moderno ad abbandonare la sua preoccupazione utilitaristica, che caratterizza ogni sua ricerca scientifica, dominata dall’aspetto “efficienza”. Certo questo fattore irrazionale non sfugge alla riflessione critica, ma di primo acchito rimanda, al di là di noi stessi, a una realtà che ci sorpassa e sulla quale non abbiamo presa. Ecco perché la liturgia non sa fare a meno dei riti, dei simboli ….

Livello psicologico

Se la celebrazione liturgica sacramentale non si impregna del mondo di queste figure archetipe, perde di efficacia e di noi stessi. Se la celebrazione liturgica del sacramento si riduce a un atto schematico e non permette che si esprima il potere del suo simbolismo, non si evangelizza il profondo dell’individuo, non si giunge a produrre una commozione nella psiche reale e concreta in tutta la sua complessità.
Secolarizzare la liturgia non può non significare mutilarla, privandola della sua costellazione di simboli primordiali. Essi, al contrario, devono essere potenziati, purificati per essere cristianizzati ed essere atti a cristianizzare l’uomo. Altrimenti avremmo una forza non integrata e non controllata, che si trasformerebbe facilmente in dolo. Ecco spiegato anche il fenomeno dei vari movimenti a carattere cristiano.

Conclusione

Non rimane, quindi, che adeguare i riti, trasformando il loro linguaggio e il loro simbolismo, mettendo in luce non soltanto la salvezza che Dio offre a ciascuno, ma anche i problemi umani ai quali la salvezza viene offerta.

Bibliografia

Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla liturgia
Vol.1°:La liturgia, momento nella storia della salvezza.
Vol.2°:La liturgia, panorama storico generale.
Marietti, Torino 1074/2978
Nelle vostre assemblee. Teologia pastorale delle celebrazioni liturgiche, 2 volumi.
Queriniana, Brescia 1975/1976
S.Marsili. Liturgia, Dizionario enciclopedico di teologia morale
Paoline, Roma, 1973
S.Vagaggini. Il senso teologico della liturgia
Paoline, Roma, 1965.
C.Di Sante. Rinnovamento liturgico: problema culturale.
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L.Maldonado. Secolarizzazione della liturgia
Paoline, Roma 1972.

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