La Liturgia – Cap 4

La liturgia della prima tradizione apostolica

In una ricerca storica sulla prima tradizione liturgica della Chiesa, non va dimenticato che il punto discriminante è costituito dalla distruzione del tempio di Gerusalemme, avvenuto nel 70 d.c.
Prima di tale data, infatti, la Chiesa, pur consapevole della novità portata da Cristo nel mondo e d’essere essa stessa depositaria di tale novità, tuttavia continua a muoversi tuta in ambito ebraico, soprattutto in fatto di culto.
Solo dopo la distruzione del tempio avrà forma cultuale che, pur conservando tracce della loro provenienza, sarà ripensata in maniera più adeguata al nuovo “contenuto” e aperte alle esigenze diverse del mondo pagano.
La “novità” del culto cristiano è significata anche dal fatto già rilevato che una sola volta il termine “liturgia” appare nel N.T. per indicare la celebrazione cultuale cristiana, per sganciarsi dal valore che il vocabolo aveva assunto nella tradizione ebraica (=culto materiale, fatto di sacrifici offerti da una classe particolare, i leviti…).
Contro tale materialismo, proprio dei “misteri ” pagani, le prime comunità cristiane si difendono energicamente.

Difesa del culto spirituale

Una delle accuse di cui la Chiesa primitiva dovette difendersi fu quella d’ateismo, d’empietà, poiché in lei non esistevano né sacrifici, né altari, né templi con cui onorare Dio.
“Di qui l’accusa che si fa d’atei. E noi conveniamo d’essere sì atei verso siffatti pretesti (=quelli pagani), ma non già verso il Dio verissimo, Padre della giustizia, della saggezza e delle altre virtù…E con Lui onoriamo e adoriamo, in spirito e verità, il Figlio che da Lui venne…” (Giustino, Apologia 1,6).
Per i cristiani, infatti, il culto consisteva nel sentirsi chiamati ad essere essi stessi una proclamazione dell’amore di Dio. In poche parole ponevano nell’interiore santità il culto da prestare a Dio. Per questo davano a sacrificio, altare e tempio, un significato totalmente nuovo.

Sacrificio

Per i primi cristiani, non è più la vittima animale, ma Cristo stesso che si offre per la remissione dei nostri peccati (Ef.5,2; Eb.9,14; e 10, 11-12) in un sacrificio spirituale. Analogamente a Cristo, che offre il suo corpo, anche i cristiani devono “offrire i propri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Perché è questo il loro “culto” spirituale (Rm.12,1). Offrire il proprio corpo significa essenzialmente fare dono della propria vita; di cui il corpo è appunto la forma esistenziale. L’offerta di Cristo è allora fondamento e causa della nostra offerta, effettuata nella carità.
Siccome poi l’idea dell’offerta reale della vita si ricollega con il concetto di sacerdozio universale (1^ Pt.2,4 ss), la vita dei cristiani diviene vita sacerdotale, perché essi sono sempre in procinto di sacrificarsi e ciò in forza del sacrificio di Gesù Cristo compiutosi definitivamente.
Questa concezione nuova del culto continua ad affermarsi nei primi secoli della Chiesa: sacrificio è la morte del martire; sacrificio sono le preghiere unite all’amore al prossimo.
“Il sacrificio splendido e grande, afferma Tertulliano, che i cristiani offrono e che fu da Dio comandato, è la preghiera che sorge da un corpo puro, da un’anima senza colpa e dallo Spirito Santo” (Apol.30,5).
In questa tradizione si muove anche, nel secolo IV, Sant’Agostino, quando per spiegare che “il vero sacrificio consiste in ogni opera buona che si fa per unirsi in comunione con Dio”, si richiama a Rm.12,1.
Egli parla del sacrificio del corpo e di quello dell’anima, cosicché tutto l’uomo diventa sacrificio, anzi, “l’intera redenta città e comunità dei Santi diventa un sacrificio universale offerto a Dio per mezzo del sommo sacerdote Cristo…perché il sacrificio dei cristiani consiste nel formare tutti un solo corpo con Cristo”.

Tempio

Infine il tempio, altro elemento cultuale portante, acquista nel cristianesimo una posizione tutta particolare nella nuova teologia del culto. La primitiva tradizione cristiana dimostrò subito di avere capito il valore e il senso delle dichiarazioni di Cristo a proposito del tempio di Gerusalemme (segno del tempio:Gv.2,19-22; Mt.26,1; Mc.14,58; At.6,14)), la cui distruzione è legata in via diretta alla spiritualità del culto (Gv.4,19-24), già promessa per il tempio della nuova alleanza ed espressa da Cristo nel segno della cosiddetta “purificazione” del tempio (Mt.21,12-13; Mc.11,15-17; Lc.19,45-46; Gv.2,14-16).
Questo culto spirituale, fondato sulla distruzione-purificazione del tempio, implicava il sorgere di un nuovo culto, che si sarebbe reso concreto in un tempio “non fatto da mano d’uomo” (Mc.14,58; Eb.8,2; e 9,11-24) e che per ciò stesso sarebbe stato “spirituale” (1^Pt.2,5) e “santa dimora di Dio nello Spirito” (Ef.2,21-22).
Il prototipo di questo tempio doveva essere Cristo stesso il cui corpo è il tempio (Gv.2,21), nel quale “abita in pienezza la divinità” (Col.2,9). Allora per mezzo della sua morte e resurrezione, Cristo diviene il tempio della nuova Gerusalemme (Ap.21,22), dove è offerto un sacrificio pure non materiale: “Cristo, infatti,…non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna” (Eb.9,12).
Il nuovo culto ha perciò nel corpo di Cristo tanto il suo sacrificio, quanto il suo tempio. Ma il Figlio di Dio, oltre che tempio, si è presentato anche come pietra di volta e di fondamento, scartata dagli uomini, ma scelta da Dio per la costruzione di un edificio spirituale formato da pietre vive (1^Pt.2,4-5) , che sono i cristiani.
Infatti sono anch’essi, dopo Cristo, “tempio santo e dimora di Dio nello Spirito” (Ef.2,21-22; 1^Cor.3,16-17; 2^Cor.6,16-19), “Campo e edificio di Dio” (1^Cor.3,9).
La primitiva tradizione cristiana non fa che insistere ulteriormente su questa nuova teologia del culto, prospettando, ad esempio che “gli uomini diventando spirituali diventano un tempio perfetto di Dio”; che ” Attraverso la remissione dei peccati e la rigenerazione, Dio abita veramente in noi e c’introduce nel tempio immortale e spirituale costruito per il Signore”; che i singoli fedeli “sono altrettante pietre che devono formare il santuario e la casa del Padre”; che come Gesù si è fatto Eucaristia per noi, noi lo dobbiamo essere per gli altri.
La nuova teologia del culto, allora, mentre ignora qualunque forma di ritualismo, implica tutta la vita in un clima cultuale, ridonando al fatto religioso un compito di coordinamento di tutta l’attività umana. Questo non vuol affermare che, per il suo carattere di culto spirituale, il cristianesimo non dovesse possedere un sistema rituale proprio. Fin dal principio, infatti, si stabiliscono forme liturgiche proprie, che sono fatte risalire direttamente a Cristo. Appartengono infatti già alla “tradizione” e a lei gli apostoli stessi, avendola “ricevuta dal Signore” (1^Cor.11,23), si sentivano vincolati.

Il battesimo

Un rito che esiste fin dal principio della Chiesa apostolica è il battesimo nel nome di Gesù (At.2,38-41) o battesimo nello Spirito Santo, quello cioè che era già annunciato dal Battista come caratteristico dei tempi di Gesù. Il Cristo stesso l’aveva presentato come “rinascita” senza della quale non è possibile entrare nel Regno (Gv.3,3-5) e ad esso si riferiva quando comandò agli apostoli di “attendere che si adempisse la promessa del Padre…: Giovanni ha battezzato con acqua; voi invece sarete battezzati in Spirito Santo” (At.1,4-5).
Quindi un rito battesimale, analogo a quello di Giovanni, sarebbe servito per comunicare lo Spirito Santo, nelle intenzioni di Gesù. Il giorno di Pentecoste lo Spirito venne senza la mediazione d’alcun rito, ma Pietro, consapevole che a tutti era indirizzata la promessa divina e non solo ai fedeli riuniti per la Pentecoste, dichiara che tutti dovevano farsi battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei peccati, così avrebbero ricevuto lo Spirito Santo (At.2,38-39).
Nel proporre questo rito, allora Pietro sa di non fare una cosa strana al pensiero del suo Maestro, poiché assume un rito già usato da Gesù con coloro che si facevano suoi discepoli (Gv.4,1).
Inoltre non vuole tanto realizzare né una purificazione né un’iniziazione ad un gruppo religioso, bensì partecipare quel dono dello Spirito Santo che il Padre aveva promesso per bocca di Cristo (At.1,4) e che solo per mezzo di Cristo morto e risorto s’era compiuto (Gv.7,37-39).
Il fatto poi che Matteo 28,19-20 nel trasmettere il comando di Cristo di “battezzare” affermi che ciò deve avvenire “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè secondo una ben definita formula (già in uso verso il 70 d.c.), richiama esplicitamente la manifestazione trinitaria del battesimo di Gesù: voce del Padre e discesa dello Spirito sul Figlio (Mt.3,16-17).
Insomma, la formula trinitaria del battesimo cristiano vuole mostrare che nel rito e nel contenuto si continua il battesimo stesso di Cristo nel Giordano.

La cena del Signore

Nella 1^ Cor.11,23-25 Paolo parla della celebrazione della “cena del Signore”, richiamandosi apertamente alla “tradizione” ricevuta dal Signore. Nel narrare quel che Gesù aveva fatto e detto, egli usa uno stile dichiaratamente liturgico: questo indica che, ai suoi tempi (54-57 d.c.), esisteva già una “tradizione liturgica” determinata circa il modo di celebrare l’avvenimento della morte sacrificale del Cristo, tradizione che risale a Gesù stesso.
Anche i testi eucaristici dei sinottici (Mt.26,26-29; Mc.14,22-25; Lc.22,15-20) riferiscono il fatto della cena del pasquale di Cristo in uno stile liturgico: sembrano quasi una descrizione del rito praticato nelle comunità, per le quali gli evangelisti scrivono.
Infatti non segnalano i differenti momenti del rito pasquale ebraico, ma si limitano ai due soli riti del pane e del vino, che aprivano e chiudevano l’antico rito, mentre costituiscono il tutto della Cena del Signore nella liturgia cristiana. Questo fatto dimostra allora chiaramente che nella tradizione apostolica la cena del Signore s’identificava con la cena pasquale e che questa, nella liturgia cristiana, da celebrazione annuale diveniva celebrazione ripetibile a piacimento, come appunto dice l’apostolo “Ogni volta che berrete questo calice, fatelo in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché Egli venga” (1^ Cor.11,25-26).
In tutto questo appare chiaro che la Chiesa apostolica possiede già una sua liturgia, le cui manifestazioni principali sono il battesimo e l’eucaristia, che ora si presentano in un’altra e nuova dimensione. Ma non sono le uniche.

La primitiva comunità culturale cristiana

Oltre le testimonianze già esaminate sul battesimo e l’eucaristia, altri indizi accrescono il quadro liturgico della primitiva Chiesa apostolica.
Anzitutto At. 2,42 (uno dei cosiddetti sommari) presenta quattro elementi caratteristici della comunità cristiana: assiduità all’insegnamento apostolico; alla comunione fraterna; alla frazione del pane; alle preghiere (vedi sezione meditazione: “Atti degli apostoli”, relativo proprio a questa parte). Inoltre sempre At. 2,46-47 aggiunge che “ogni giorno frequentavano il tempio (luogo di culto ebraico) e spezzavano il pane nelle case (rito tipicamente cristiano), lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”.
Una Chiesa dunque, quell’apostolica, che, senza troncare di colpo con il culto ebraico, tuttavia comincia a differenziarsi nettamente.

L’insegnamento degli apostoli

Non è altro che il momento omiletica di spiegazione e commento, che già, nella sinagoga faceva seguito normalmente alla lettura: spiegazione già praticata anche da Cristo (Mt.4,23; 9,35; Mc.12,35; Lc.21,37; ecc..) Molto presto questo “insegnamento” fatto sulla lettura dell’A.T., passerà prima in tradizione orale, poi darà origine a tante piccole raccolte scritte e ordinate (Lc.1,1-2) probabilmente in temi; per trovare finalmente una redazione definitiva nei Vangeli. Questi infatti, con le lettere degli apostoli, diventeranno ben presto la seconda lettura nella celebrazione liturgica cristiana. Naturalmente il testo biblico era letto e spiegato secondo quella “intelligenza della Scrittura”, che scopriva Cristo in tutto quello che è scritto nella legge di Mosé, nei profeti e nei salmi (Lc.24,44-45).

La comunione fraterna

Una delle interpretazioni date a questo termine è quella che vede nella “koinonia” non soltanto la comunione di fede e di pensiero, ma anche di beni, rilevata più avanti nello stesso libro degli Atti. Ma sembra più semplice e forse più coerente al contesto che Luca voglia far capire che il gruppo di cristiani si presentava come una “comunità” (=Koinonia) religiosa distinta, al momento del culto. Il termine usato serve ad esprimere il nascere della comunità cristiana giacché “comunità di culto”. Tutti gli altri elementi, infatti, sono legati al culto (insegnamento apostolico, frazione del pane, preghiere). Addirittura la volgata ha unito questo termine con il seguente traducendo “erano assidui alla comunione della frazione del pane”. Il verbo che regge tutto il discorso, infine, (=erano assidui, che può indicare un’assiduità di tempo e di luogo) è lo stesso che si ritrova in At.2,46, dove si parla appunto di “assiduità” alle riunioni nel tempio o nelle case.

La frazione del pane

Nei Vangeli il gesto di “spezzare il pane” da parte di Cristo viene sempre esplicitamente annotato, sia nella moltiplicazione dei pani (Mt.14,19-20; 15,36-37); sia nella cena pasquale (Mt.26,26; 1^Cor.11,24). L’espressione doveva comunque richiamare qualcosa, che era, nel ricordo, particolarmente legato a Gesù, se si nota che “lo riconobbero nello spezzare il pane” (Lc.24,35). Che poi il termine “frazione del pane” voglia indicare una tipica celebrazione esclusivamente cristiana è evidente in At.20,7-11; dove si precisa, tra l’altro, il giorno in cui avviene (=domenica), poiché si tratta del giorno propriamente legato, nella tradizione cristiana, alla celebrazione eucaristica.
Ancora più questo appare in Cor. 10,16, dove “il pane che spezziamo” è dichiarato essere “comunione al corpo di Cristo”. Se si considera che, nello stesso testo, la frazione del pane è messa in parallelo con “il calice di benedizione”, che chiudeva la cena pasquale ebraica, allora è ancora più chiaro che l’espressione si riferisce direttamente all’Eucaristia, nella quale si continua la cena pasquale.
Il libro degli Atti presenta questa frazione del pane come un rito che avveniva nelle case private. Questo perché erano ammessi solo gli appartenenti alla nuova comunità, ma anche perché l’ambiente domestico stava all’origine stessa del rito, il quale aveva lo scopo di riprendere e continuare ad essere la cena pasquale, che Cristo promulgò appunto in casa.

Le preghiere

Il testo di At.2,42, dove si parla dell’assiduità alle preghiere (al plurale) e il testo di At.2,46, dove si segnala l’assiduità dei primi cristiani nel frequentare il tempio, induce subito a pensare che ci si voglia riferire a preghiere determinate, fatte in ore determinate.
Si tratterebbe delle preghiere ormai fisse della tradizione ebraica, vigente all’epoca di Cristo, e cioè:
– Lo Shemà Israel (=Ascolta Israele=compendio di tre testi biblici: Deut.6,4-9; 11,13-21; Nm.15,36-41), recitato mattino e sera, sia in privato sia com’unitariamente.
– Le 18 benedizioni (o “thephillah) detta la preghiera per eccellenza, recitata dal sacerdote davanti all’assemblea.
– Preghiere personali, che precedevano e seguivano quelle ufficiali.
I cristiani, andando al tempio, partecipavano forse anche ai sacrifici (come testimonia At.21,20-26). Si deve però supporre che si facessero sentire quelle correnti spiritualizzanti che si erano andate sempre più affermando dal tempo dell’esilio e che volevano accompagnare (o sostituire) i sacrifici animali con la preghiera, organizzando addirittura gruppi di 24 persone (due per tribù), che a turno dovevano stare in preghiera durante i sacrifici (i famosi “ma-amadòth”).
In ogni caso accentuando l’assiduità dei cristiani al tempio, si vuole evidenziare un forte rifiorire dello spirito di preghiera nella prima comunità apostolica, avvalorato dall’esempio stesso degli apostoli (At.3,1: 10,9 ci mostrano Pietro e Giovanni in preghiera ad ore determinate). E sarà appunto attraverso quest’assiduità della Chiesa apostolica alle ore di preghiera, che la tradizione ebraica continuerà ad esistere da allora nella Chiesa di tutti i tempi (=liturgia delle ore). Va infine notato che i cristiani avevano una loro preghiera particolare, che si aggiungeva a quell’ebraica: il “Padre Nostro”, insegnato da Gesù come preghiera distintiva del gruppo dei discepoli.
Quando l’ebraismo diventerà forza ostile alla Chiesa, alla triplice preghiera giornaliera dello “Shemà” si sostituirà appunto la preghiera del “Padre Nostro”, nella quale i cristiani si riconoscono per quello che sono, e cioè discepoli di Cristo.

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