La Liturgia – Cap 6

La teologia liturgica del Vaticano II

Il nostro secolo ha avuto un grande sviluppo della liturgia, soprattutto sotto l’aspetto teologico. Se n’è fatto promotore il cosiddetto “movimento liturgico”, che ha avuto prodromi nei secoli precedenti, ma che tuttavia è un fatto molto moderno, non soltanto nel termine, ma anche nel contenuto.

Per movimento liturgico s’intende quella corrente “che accomuna ambienti più vasti nella ricerca di un rinnovamento sia, prima di tutta, della propria vita spirituale partendo dalla forza della liturgia, sia in un secondo tempo, della stessa liturgia partendo da una comprensione più profonda del suo spirito e delle intime leggi che la reggono…”

Questo movimento liturgico non è limitato soltanto all’Italia, ma si allarga un po’ dovunque in Europa e anche in America, conoscendo ora affermazioni ora grossi contrasti.

Guardando solo all’Europa, la più famosa controversia fu suscitata sul piano della teologia e della spiritualità intorno alla cosiddetta “visione misterica” della liturgia, com’era stata proposta e difesa dal benedettino tedesco O.Casel (1886-1948).
Anche i papi diedero il loro contributo e fissarono un orientamento ben determinato al movimento liturgico. Basterà rammentare le due encicliche di Pio XII°: la “Mystici corporis” (1943) e soprattutto la “Mediator Dei” (1947), che rappresenta il primo riconoscimento ufficiale dei valori del movimento liturgico a livello della Chiesa universale. Quest’enciclica, che sembrava volesse puntualizzare alcuni aspetti teologici e frenare certi fermenti innovatori, in realtà diventava solo il prologo di un discorso più ampio.

Da una riforma rubricale ad una visione teologica

Dal 1951 al 1961, anno d’indizione del Concilio Vaticano II°, si susseguirono alcuni importanti documenti pontifici, che avviarono la riforma vera e propria della liturgia.

Basterà ricordare i principali:
– Restaurazione della Veglia pasquale (9 febbraio 1951);
– Introduzione della Messa vespertina e nuove norme per il digiuno eucaristico (6 gennaio 1953);
– Semplificazione delle rubriche del messale e del breviario (23 marzo 1955);
– Nuovo rito della Settimana Santa, accompagnata da un’intelligente istruzione pastorale (16 novembre 1955);
– Istruzione sulla musica nella liturgia (3 settembre 1958);
– Nuovo codice delle rubriche (25 luglio 1960).
Sono tutti documenti che riguardano la liturgia considerata più che altro sotto l’aspetto rubricale vero e proprio. Le rubriche (dal latino ruber=rosso) sono quelle annotazioni scritte in rosso e poste nei libri liturgici che servono ad indicare il comportamento esteriore del celebrante e dei ministri durante le celebrazioni liturgiche.

Riguardano, perciò, l’aspetto esteriore della liturgia.
Attraverso questi documenti di riforma rubricale si voleva dunque affermare:
– Il centralismo in materia liturgica. Contro le tendenze riformatrici che qua e là affioravano, si affermava che tutto, in campo liturgico, doveva essere stabilito dall’alto, perfino i dettagli in ortografia.
– Il muro divisorio tra rubriche e liturgia vera e propria. Proponendo una riforma di riti, si voleva quasi ignorare l’aspetto teologico della liturgia, relegandolo a livello di “teoria” (nonostante tutto che di negativo può richiamare questa parola nel campo pastorale), mentre la “pratica”, ossia la riforma vera e propria della liturgia, era lasciata come competenza alla Congregazione dei Riti.

Tuttavia bisogna ancora osservare che, piano piano, sotto l’impulso di forti personalità di liturgisti, andava maturando una nuova teologia liturgica.
Si capiva che cambiare dei riti non era più sufficiente per attuare una “riforma” liturgica. Bisognava cambiare una mentalità, motivarne le trasformazioni in atto: si esigeva quindi, un sottofondo teologico. Altrimenti perché riformare la Veglia Pasquale, ad esempio, se a livello di coscienza, non era riportata alla luce la centralità del mistero pasquale, che diventerà poi il filo conduttore di tutta la riforma?

Si può quindi affermare senza dubbio che la riforma del Vaticano II°, il cui iter non fu per nulla facile, e che sfociò in una teologia della liturgia vera e propria, non partì tanto da presupposti teorici, ma da una rilettura e da un ripensamento della liturgia in chiave pastorale.
In altre parole: fu perché il concilio volle restare fedele all’idea di fare della liturgia una celebrazione autentica che si cerò una teologia vera e propria di tale celebrazione. Insomma: fu la prassi, la vita della Chiesa, che ha il suo culmine nella liturgia, a determinare un ripensamento di quest’ultima, a porre alla base di quest’attività della Chiesa una nuova motivazione, una nuova teologia, che il documento conciliare “Sacrosanctum Concilium” ha enucleato.

Non per questo, tuttavia, lo sfondo ideologico, ossia quella teologia della liturgia cui si richiama il concilio, è meno importante. Se lo scopo è pratico, ossia il centro d’interesse della costituzione è di condurre il popolo a vivere profondamente la liturgia, è l’ideologia che lo caratterizza e lo giustifica. Per cogliere lo spirito della Costituzione bisogna dunque penetrare in quella teologia su cui si fonda.

La liturgia momento ultimo nella storia della salvezza

Il Concilio affronta la liturgia nella prima costituzione, la “Sacrosanctum Concilium” (=S.C.) E la affronta non con un discorso sulla natura del culto e sulle sue attuazioni (culto interno e sterno; privato-pubblico), ma parlando direttamente della rivelazione come storia della salvezza, discorso già ampiamente usato dalla teologia biblica. Incentrando la liturgia in questa situazione; il concilio ne rivelava la vera natura: essa non è una preposizione dottrinale, oppure qualcosa d’esteriore soltanto (riti, cerimonie…), ma un momento nel quale si attua l’opera della nostra redenzione, in modo tale che per lei il mistero di Cristo e la stessa natura autentica della Chiesa si esprimono nella vita e si rivelano agli altri.

La Rivelazione, infatti, appare come un susseguirsi d’avvenimenti, che “in diversi modi e tempi” (Eb.1,1) realizzano quel piano di salvezza (o “mistero”: Ef.1,9 ss), che Dio ha preordinato fin dall’eternità. La diversità dei modi mette in risalto i differenti piani, nei quali si attua questa salvezza:
– Piano della religione naturale;
– Piano della religione rivelata: per gli Ebrei, per i cristiani.
La diversità dei tempi mette in risalto i diversi momenti storici, nei quali si è realizzato il piano di salvezza divino.
La S.C. 5-6 così presenta questi diversi momenti:

a. Il primo momento è quello profetico, momento cioè d’annuncio del piano di salvezza; annuncio in cui è gradualmente rivelato l’eterno amore con cui il Padre, “volendo salvi tutti gli uomini” (Tim.2,4), li vede e li sceglie come figli nel suo Figlio (Ef.1,4). Questo annuncio è fatto ai “padri”, cioè al popolo ebraico, anche se non sono esclusi coloro che vivono nella religione naturale.

b. Il secondo momento è quello della “pienezza dei tempi” (Gal.4,4), in cui cessa l’annuncio e la salvezza diviene realtà negli uomini (=carne: Gv.1,14). La salvezza entra nel tempo, per attuarsi attraverso la presenza di Dio in Cristo, in modo che “tutti quelli che accolgono Cristo, diventino figli di Dio” (Gv.1,12).

Così dal tempo della profezia-annuncio si passa a quello della realtà, cioè al tempo di Cristo. In lui gli uomini trovano la perfetta riconciliazione, la perfetta amicizia, che permette loro di dialogare con il Padre e di offrire a Lui la pienezza del culto divino.

c. Il terzo momento è insieme il risultato e la continuazione del secondo. Infatti, il tempo di Cristo dà origine e si
Perpetua nel tempo della Chiesa. In Cristo tutti gli uomini sono già salvi: Paolo esprime continuamente, nelle Sue lettere, questa realtà: “In Lui noi siamo risuscitati….” (Ef.2,6 e tanti passi analoghi, dove si fa uso abbondante della proposizione “con”: consepolti, conresuscitati…). Citando un’espressione d’Agostino, la
S.C. afferma che “dal costato di Cristo dormiente sulla Croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa.

In altri termini: la salvezza compiuta da Cristo-uomo diventa di pieno diritto una realtà per tutti gli uomini,
Nella Chiesa. Per cui tra Cristo e la sua Chiesa non c’è appena una semplice secessione di tempo (=il tempo
Della Chiesa “viene dopo” il tempo di Cristo). C’è una linea di continuazione tra questi due tempi, che è
Costituita appunto dalla realtà liturgica.

d. Il discorso liturgico vero e proprio della S.C. inizia al nr.6. Dopo avere tracciato i vari momenti della storia salvifica, si ferma a considerare la missione della Chiesa, che continua quella di Gesù Cristo. Tale missione non consisterà più nell’annunciare cose future, come nell’A.T. L’annuncio non manca neanche dopo Cristo, ma esso è un Vangelo, ossia il lieto annuncio di una realtà presente. Ma com’è presente, come entriamo in contatto con questo mistero, con quali mezzi esso continua ad agire su di noi che viviamo in venti secoli di distanza da Cristo? Come e perché è possibile un incontro fra noi e lui? La risposta a questa domanda introduce nell’intima essenza della liturgia, in quell’elemento che la colloca necessariamente al centro della vita della Chiesa e di ogni cristiano. La categoria della sacramentalità lega i tre elementi: Cristo, Chiesa, Liturgia ponendoli in continuità. “Sacramentum” è oggi un termine che dice poco. Nella tradizione biblico-patristico-liturgica esso ha invece una ricchezza straordinaria.

Con questo termine si intende una realtà sensibile e visibile, che in qualche modo contiene e comunica ai ben disposti una realtà invisibile, sacra, divina; realtà che, nello stesso tempo, si manifesta a chi ha fede e si nasconde a chi non l’ha. La S.C. non chiama direttamente Cristo “Sacramentum” ma esprime la stessa idea in forma del tutto equivalente, là dove dichiara che “l’umanità del Cristo, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza” (S.C. 5). Perciò l’umanità di Cristo, nella sua visibilità e nelle sue azioni sensibili, aveva precisamente questa funzione “sacramentale”: rivelare, cioè rendere presente e quindi sensibile, la realtà divina che voleva comunicare attraverso il suo contatto. Per questo Agostino chiama Cristo “nome sacramentale e Tommaso “lo strumento immediatamente congiunto con la divinità”, attraverso cui Dio voleva operare la nostra salvezza. Prima e dopo, tutto guarda a Lui, tutto dipende da Lui, anche se in modo misterioso e per noi incontrollabile.

Anche le sue azioni quindi sono “sacramentali”, perché sotto l’involucro visibile di gesti e atteggiamenti percepibili nella sua umanità, nascondono e trasmettono una realtà divina. L’intera vita di Gesù diventa un unico atto salvifico nel mondo e per il mondo, un unico atto sacramentale che dona la salvezza (dal “Credo”: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo…si incarnò…morì…). A questo primo fondamentale sacramento si riallaccia la Chiesa. Anch’essa è una realtà essenzialmente sacramentale, perché sotto un primo elemento umano, visibile, sociale nasconde una realtà invisibile, quella stessa di Gesù. Difatti quando la S.C. vuol presentare la genuina natura della vera Chiesa la descrive con questa doppia proprietà: “…di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile, ma dotata di realtà invisibile, ardente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina…” (S.C. 2).

E, tanto per ricordare una legge costante del mondo sacramentale, la S.C. mostra subito in che rapporto stanno tra loro i due elementi, aggiungendo che: “…quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura…” (S.C.2)
Così la Chiesa è costruita sul modello sacramentale e in vista della sua funzione sacramentale. Certo questo aspetto liturgico-sacramentale non esaurisce tutto. Prima di sacramentalizzare, bisogna evangelizzare, portare agli uomini il messaggio di salvezza, che attende l’accettazione. Tuttavia questo primo momento tende irresistibilmente al secondo. Perciò la S.C. scrive: “Come Cristo fu inviato dal padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli…non solo perché…annunciassero che il Figlio di Dio con la morte e resurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e della morte e ci ha trasferiti nel Regno del Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del Sacrificio e dei sacramenti sui quali si impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunciavano” (S.C. 6).

Qui la liturgia appare chiaramente come momento della Rivelazione, storia della Salvezza, poiché attuazione nell’oggi del mistero di Cristo, sia in se stesso sia nel suo annuncio. La liturgia è quindi il momento-sintesi della storia della Salvezza, perché unisce sia l’annuncio (realtà tipica dell’A.T.) sia l’avvenimento (realtà tipica del N.T.)

Nello stesso tempo è anche momento-ultimo di questa storia salvifica, perché suo compito è di partecipare gradualmente a tutti gli uomini di tutte le epoche l’immagine piena di Cristo, che nella liturgia-sacramento si continua come realtà.

La liturgia costituisce perciò il tempo della Chiesa. Questa, infatti, si viene edificando nel mondo a mano a mano che negli uomini si inserisce vitalmente il mistero di Cristo: con l’annuncio, come elemento che predispone, e con l’attuazione, attraverso l’azione sacramentale della liturgia.

Chiesa e liturgia sono perciò indissolubilmente legate, anzi, questa ultima costituisce il cuore della comunità ecclesiale, perché in essa si attualizza al sommo grado quella gloria data a Dio in Cristo Gesù e quella trasmissione di vita divina che Egli opera anche attraverso uomini e cose sensibili e visibili.

Questa è appunto l’ultima ragion d’essere della natura e della struttura della Chiesa: “La liturgia, infatti…contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della Chiesa…” (S.C.2).

Certo la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Non si può fare del panliturgismo: rimangono molte altre attività che la Chiesa deve svolgere (opere di carità, di pietà, di apostolato ecc.). Tuttavia la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (S.C. 10).

Se questo oggi a molti è poco familiare, è perché c’è ancora mancanza di visione teologica nel considerare la liturgia. Cioè manca l’approfondimento della funzione capitale e sempre attuale della liturgia nell’ordine storico della salvezza, per cui: “Deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa” (S.C. 10).

In sintesi

– La nozione di liturgia del Vaticano II° è nettamente derivata dal concetto di “sacramentum” visto in Cristo stesso, nella Chiesa in genere, ed applicato poi alla liturgia vera e propria. “Sacramentum”, cioè come cosa sensibile che in qualche modo contiene manifesta, comunica ai ben disposti, mentre nasconde a chi non è disposto una realtà divina invisibile.
– Sommo rilievo è dato alla realtà di segno sensibile. La liturgia è condensata in questo concetto. Essa è complesso di segni sensibili attraverso i quali Cristo Signore esercita in certo modo il suo sacerdozio, santificando gli uomini e assumendoli nel culto che con essi rende a Dio Padre.

– Questo complesso di segni non si riferisce soltanto al culto, ma insieme alla santificazione e al culto. Infatti, solo con la santificazione l’uomo può rendere culto a Dio. Le espressioni esteriori del culto sono valide solo quando esprimono uno stato di reale e totale adesione a Dio. Ma questo a sua volta c’è quando l’unità esistente in Cristo tra uomo e Dio è comunicata all’uomo: dove? Appunto nella liturgia con i suoi “sacramenti”. Per questo il Concilio può affermare che: “La liturgia è giustamente ritenuta come l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo; in essa, con segni sensibili, è significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, ed è esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale” (S.C. 7).

La liturgia presenza di Cristo

Inviando i suoi apostoli in missione, con il potere di fare di tutti gli uomini altrettanti discepoli, per mezzo dell’annuncio (=insegnate) e dei sacramenti (=Battezzate), il Cristo dà questa garanzia: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.28,20). Egli assicura così una continua presenza tra i suoi, realizzata per mezzo della Parola e dei Sacramenti. Per questo S.C. 7 afferma: “Per realizzare un’opera così grande (=opera della salvezza), Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche”.

La stessa S.C. si premura poi di elencare alcuni momenti della liturgia, in cui è affermata questa presenza:
– Nel sacrificio della Messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche;
– Nei sacramenti, in essi Cristo agisce;
– Nella parola proclamata nella Chiesa, perché Cristo è il contenuto di questa parola;
– Nella preghiera comunitaria, Cristo è sempre presente dove due o tre sono uniti nel suo nome (Mt.18,20).
Qui sorge spontanea la domanda: di quale presenza si tratta?
Nell’enciclica “Misterium fidei” (3 sett.1965) Paolo VI°, trattando delle varie presenze di Cristo nella liturgia in relazione a quella tradizionalmente definita “reale”, riservata all’Eucaristia”, così si esprime: “Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente”.

Il papa parla allora di diverse presenze “reali”, oltre a quella eucaristica. Anzi, questa non esclude assolutamente le altre. Soltanto che la presenza eucaristica è detta “reale per antonomasia”, ossia per eccellenza (=per excellentiam). Questo non significa che si tratti di una presenza più reale delle altre, ma semplicemente di una presenza reale per una ragione propria, non comune alle altre. E qual è questa ragione? Mentre nell’eucaristia la presenza reale di Cristo è permanente, perché legata ad una sostanza (=il corpo di Cristo), che permane, che resta, finché durano le specie del pane e del vino, nelle altre celebrazioni liturgiche la presenza reale di Cristo è transitoria, perché è legata alla celebrazione, che è azione che passa e non sostanza che rimane. La differenza non sta dunque nella realtà in sé (=l’una reale e le altre no), ma nel modo in cui questa realtà si attua. Dunque Cristo è sempre presente nelle azioni liturgiche, realmente presente, anche se questa realtà si attua in modi diversi.

La presenza di Cristo nella liturgia va poi considerata, al di là del modo in cui si attua, sempre in rapporto al fatto storico di Gesù Cristo. A questo avvenimento essenziale, che ha colmato l’attesa dell’A.T. Cristo, infatti, ha realizzato la parola profetica, dandole uno spessore di realtà ormai indistruttibile. Egli, come si esprime la lettera agli Ebrei, “una volta sola è apparso, alla pienezza dei tempi, per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb.9,26). Alla luce di questa realtà che è Cristo, anche i riti assumono un altro significato. Mentre nell’A.T. erano riti profetici, cioè indicatori di ciò che sarebbe avvenuto (“un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose”, Eb.10,1), quelli del N.T. sono riti che attuano ciò che è realmente avvenuto in Cristo.

I primi erano segni senza contenuto, perché la realtà non c’era ancora; questi, invece, sono immagini della realtà, anzi, sono la realtà di Cristo nel segno. Il rito, infatti, ha come scopo che l’uomo in esso veda e legga qualcosa che è fuori di esso. Nel rito cristiano questo qualcosa è appunto la realtà di Cristo che si rende presente. Per questo la liturgia, che sia attua in un regime di segni, è presenza reale di Cristo, perché fa riferimento a un evento che è compimento di un’attesa, e come tale realtà piena, alla quale ormai non può più seguire nulla. E’ questa presenza reale che rende la liturgia qualcosa di dinamico, perché l’azione di Cristo, un tempo presente nella e con la sua umanità, ora si presenta nel rito e con il rito.

La liturgia diviene così una grandezza insostituibile e di vera efficacia, perché costituisce una continuazione effettiva del tempo di Cristo, sempre presente-agente nel rito. Ciò fa dire a sant’Ambrogio: “Eccoci ormai non più nell’ombra, nella figura e nel tipo, ma nella realtà; tu, o Dio, non per via di specchi e d’enigmi, ma a faccia a faccia ti sei rivelato a me e io ti trovo nei tuoi sacramenti”.

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