Libro dei Proverbi: Capitolo 30,15-33

I proverbi che meditiamo nei versetti 15-33, sono i cosiddetti proverbi numerici. Il proverbio numerico elenca cose o fatti o fenomeni in stinchi paralleli: in ciascuno c’è un numero in progressione (accresciuto di un’unità) rispetto al precedente. Questa tecnica serve probabilmente per favorire la memorizzazione.

L’effetto immediato, ai nostri orecchi può essere quello della conta dei bambini; in realtà questa forma poetica è tutt’altro che “popolare”.

Se ci pensiamo bene, tra i nostri proverbi d’uso quotidiano facciamo fatica a ricordare qualcuno su schema numerico, analogo a quelli che abbiamo appena letto in vv.15-33. Il che significa, allora, che non ci troviamo di fronte a detti di stampo popolare, ma a qualcosa di più sofisticato e pensato: esso ha paralleli nella letteratura dell’Antico Vicino Oriente più raffinata ( a Ugarit, per esempio) e, ancora una volta, tradisce la presenza non già della strada, ma della scuola.

Sono del resto detti che percepiamo un po’ lontani, perché privi dell’immediatezza che riscontriamo in altre parti del libro; non per questo sono privi di bellezza e di fascino.

In questa serie dobbiamo notare ancora due cose di tipo generale: la ripresa di temi e motivi già presenti non solo nelle altri parti del libro, ma in questo stesso capitolo, e la presenza di animali che vengono usati in chiave quasi allegorica: si parte a volte cioè da una loro caratteristica vera o presunta tale, secondo le conoscenze zoologiche dell’epoca, per evocare un comportamento umano, come accade anche nella favolistica antica che ci è forse più familiare.

Il tema della insaziabilità collega i vv.15-16 ai vv.7ss di questo capitolo, che abbiamo già visto precedentemente: qui esso è presentato come in crescendo (da quanto è piccolo e costatabile, alla misura dell’infinitezza) grazie alla progressione numerica: si passa dalle due figlie gemelle della sanguisuga ad una dimensione naturale e cosmica incontrollabile: quella dell’abisso, del ventre sterile, della terra arida, dell’acqua e del fuoco.

Si tratta di elementi interessanti: l’abisso sottostà al mondo abitato dell’uomo, è qualcosa di nascosto e smisurato, che ha a che fare col mistero della vita nei miti della creazione, ed è perciò connesso al grembo materno; ugualmente la terra, l’acqua e il fuoco i quali sono, allo stesso tempo, elementi vitali e distruttori, a seconda, diciamo così, del loro dosaggio rispetto alla qualità della terra. Sono quindi legati, per l’uomo, al mistero della vita e della morte, della fertilità e della sterilità. Il fatto di divorare insaziabilmente perciò, che si tratti della sanguisuga o della terra arida o del fuoco o dell’uomo, oltre a non garantire la vita, è, al contrario, segno di aridità e di incapacità a generare.

Il tema mortifero continua, servendosi degli animali, nel v.17 in cui viene pronunciata una dura maledizione.

Gli animali nominati sono difficili da identificare e pongono dei problemi di traduzione: ci sono infatti dei “corvi del torrente”, forse una varietà che si reca presso i corsi d’acqua a ore fisse, quando i pastori conducono le greggi ad abbeverarsi, per esempio, come quello che si prese cura di Elia, e altri uccelli che la traduzione chiama “aquilotti”, ma che è difficile pensare come tali, dato che l’aquila non mangia carogne. Alcuni propongono perciò di tradurre “avvoltoi”.

Si riprende comunque il tema del v.11 di questo capitolo; siamo così di fronte ad una serie di richiami interni che fanno pensare all’esercitazione o all’antologia scolastica perché ricorrono le stesse idee, riprese con varie immagini o sotto diverse angolature. L’insegnamento è, in tal modo, unitario e diversificato nello stesso tempo, e forse ci conserva anche le tracce delle due diverse stratificazioni cronologiche.

Allo schema numerico torniamo coi vv.18-19: ancora una volta il sapiente ci pone davanti una serie di tre immagini (il cammino dell’aquila, del serpente, della nave) in cui davvero “l’universo ci squaderna” per ampiezza e inconoscibilità: in esso tutto sembra avere una voce udibile, ma non facile da interpretare; pare conoscibile ma ha come fine l’ignoto.

L’immagine più importante è però la quarta che riguarda il mistero della vita: pare così evidente, così alla portata della comune esperienza, eppure è un fatto misteriosissimo: non a caso si dibatte a tutt’oggi sull’origine della vita e sulle condizioni che la rendono realmente tale e così via. La quarta immagine è il vero centro d’interesse del saggio.

Notiamo l’insistenza sul termine “cammino” (derek) che solca aria, roccia e acqua. Ancora una volta vengono coinvolti gli elementi fondamentali della creazione collegandoli alla procreazione, che esige a sua volta una derek da non intendersi qui, dato il contesto, solo fisicamente, ma da interpretare come linea di condotta, o ethos, come diciamo oggi: questo è veramente misterioso, perché ogni uomo deve trovare e decidere quale via di comportamento prendere e tenere per avere e trasmettere la vita.

Il testo ci presenta un’umanità avvolta dalla meraviglia e dal mistero quanto al suo stesso destino.

Con il v.20, ci troviamo apparentemente di fronte ad un’altra interruzione rispetto agli schemi che percorrono il capitolo. Però incontriamo una vecchia conoscenza del Libro dei Proverbi, ossia la adultera, parente stretta della signora Follia e delle altre figure femminili negative che, con quelle positive popolano il testo.

Anche l’adultera ha una sua derek: questo termine, oltre al riferimento sessuale, lega il detto a quelli che precedono pur essendo fuori dello schema numerico. Certo non potremo affermare che anche l’adultera ha positivamente un suo ethos, ma anche lei ha un suo modo di regolarsi nella vita. Da vera “mangiatrice” di uomini non ha scrupoli né remore: niente è più normale del mangiare e nessuno si sogna di contestarlo. Per la morale puritana dell’antico Israele, invece, era impensabile ridurre la sessualità a pura necessità fisiologica. Talché la condanna, benché non espressa, è evidente.

Approdiamo così ad una terza serie numerica (vv.21-23), di stampo potremmo dire, più direttamente sociale: la quaterna si apre e si chiude con la figura dello schiavo e della schiava che prevaricano rispetto alle loro prerogative: anche la schiava infatti aspira al potere perché non di una “padrona” qualunque parla il testo, ma di una “signora”, con un titolo che solitamente si dà alla regina madre.

Si parla quindi di un forte sovvertimento sociale, e anche noi, quando accadono cambiamenti radicali analoghi, parliamo, come qui. di “terremoto”.

In mezzo ci sono altri due casi paradossali ma, evidentemente, non impossibili: il bifolco (nabal) che si sazia, dove il termine ebraico indica l’uomo di animo grossolano, facilmente volgare, e la donna che proprio non ha nulla che possa piacere e trova ugualmente marito.

Fa seguito un paragone quadripartito tra il saggio e, appunto quattro specie di animali attraverso i quali ci è offerto come uno spaccato della vita sociale.

Le formiche sanno provvedere alle vettovaglie. Gli iraci, che sono animali timidissimi e fuggono al minimo rumore, sanno nascondersi e si difendono vigilando: al mattino, per esempio, scendono ai ruscelli per bere e bagnarsi e gli adulti fanno la guardia ai piccoli ponendosi veramente di vedetta sulle rocce. Le locuste si muovono schierate come un esercito. E le lucertole sanno entrare dappertutto come chi è capace di coltivare le pubbliche relazioni. Il saggio si configura non solo come colui che sa leggere ovunque dei segnali di sapienza, ma anche come colui che sa collocarsi nella società prescindendo dalla forza, semplicemente facendo tesoro delle proprie prerogative.

La forza non è comunque da disprezzare, purché sia temperata dalla nobiltà d’animo, come dice la serie numerica dei vv.29-31. Essa si manifesta con un nobile contegno.

Questi versetti presentano parecchi problemi di traduzione. Non è qui il caso di fermarsi ad elencare tutte le possibili congetture: salta comunque agli occhi che al centro dell’attenzione del saggio c’è la figura del re che guida il suo popolo, quasi a titolo di riepilogo dell’ambiente sociale presentato nei detti precedenti.

I vv.32-33 che chiudono il capitolo richiamano, ancora una volta, alla moderazione del linguaggio, attraverso la quale il saggio sa manifestare il controllo di sé e delle proprie passioni. Si passa improvvisamente alla seconda persona singolare, talché il tutto pare chiudersi con un’apostrofe che rompe non solo con lo schema numerico, ma anche con il tono generale del testo.

Ritroviamo però ancora il termine nabal del v.22: il v.32 dice infatti, alla lettera:

se hai fatto il nabal per gonfiarti

stabilendo così ancora un legame coi versetti che precedono e dandoci, nel complesso, un quadro articolato e ricco del mondo che il saggio scruta per imparare e per insegnare.

Un’ultima osservazione

Bene o male, il numero che sta al centro dell’attenzione è sempre il quattro: lo è in tutta la tradizione ebraica, a dir la verità, liturgia compresa, dove ritorna spesso, in particolare nelle grandi feste, il ritmo quaternario: quattro coppe di vino e quattro figli che fanno quattro domande nel rito della notte di pesah, quattro specie di piante per la festa delle capanne, quattro le lettere del Nome Divino e così via.

Certamente il quattro dava un senso di compiutezza ed era un po’ il simbolo del mondo visibile: sono pur quattro i punti cardinali, che l’A.T. chiama “i quattro angoli della terra” o “quattro venti”.

Tale simbologia non deve condurci a letture superstiziose di cose o fatti, ma aiutarci invece a leggere queste serie numeriche quaternarie tenendo sempre d’occhio l’ultimo membro che dice il culmine della serie stessa.

Dal Trattato dei Padri della Mishna:

V:8. In sette cose un uomo intelligente si distingue da uno stupido. L’intelligente non parla dinanzi a chi è più grande di lui in sapienza. Non interrompe un discorso di un latro. Non si affretta a rispondere. Fa domande pertinenti, e risponde in maniera appropriata. Dice all’inizio ciò che va detto all’inizio, e alla fine ciò che va detto alla fine. Di ciò che non ha mai udito dice: Non l’ho mai udito. E’ disposto a riconoscere la verità.

Per lo stupido è tutto il contrario.

V.11. Ci sono quattro tipi di persone. Quello che dice: Il mio è mio e il tuo è tuo. E’ un mediocre…Il mio è tuo e il tuo è mio: è un ignorante…Il mio è tuo e il tuo è tuo: un santo. Il mio è mio e il tuo è mio: un empio.

V.13. Ci sono quattro tipi di studenti. Chi impara in fretta ma dimentica in fretta: il suo guadagno viene annullato dalla sua perdita. Chi è duro a imparare, ma difficilmente dimentica: la sua perdita viene compensata dal suo guadagno. Chi impara in fretta e difficilmente dimentica; un sapiente. Chi è duro a imparare e dimentica in fretta: questa è la parte peggiore.

V.16. Ci sono quattro tipi tra quelli che siedono davanti ai sapienti: la spugna, l’imbuto, il filtro e il setaccio. La spugna, perché assorbe tutto. L’imbuto, perché fa entrare da un orecchio e uscire dall’altro. Il filtro, perché lascia passare il vino e trattiene la feccia. E il setaccio, perché fa passare la farina e trattiene il fior fiore.

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