Libro dei Proverbi: Capitolo 16, 1-33

Abituati ormai alla morale generalmente laica dei Proverbi, il capitolo 16 non può non sorprenderci. Per capirlo meglio sarebbe opportuno ampliare la lettura rivedendo il capitolo da 15,25.

In ogni caso, anche limitandoci al solo testo, oggetto della riflessione, non sarà difficile notare, ad una prima lettura, una serie di quelle famose corrispondenze interne di cui abbiamo parlato nei precedenti studi, che danno organicità al testo e, in questo caso, persino una connotazione propria.

Compare, infatti, un grande protagonista, il Signore, chiamato col Tetragramma di Dio del Roveto, il Dio cioè della rivelazione ebraica, come se dalla sapienza fino ad ora egiziana, fossimo passati a quella più direttamente ebraica e biblica. Difatti anche la mentalità è diversa.

Cap.16,1-7 compare, in ciascuno, il nome di Dio che ne è così il protagonista assoluto, e tale continua quasi ad essere per tutto il capitolo, nonostante i cambiamenti di soggetto e d’argomento. LO vediamo, infatti, ritornare al v.9 e al v.11; poi al v.20, per chiudere infine il cerchio al v.23. Cerchio che, appunto, si era aperto alla fine del capitolo precedente, in cui lo stesso nome compare quattro volte (vv.25,26,29,33).

Questi versetti presentano un contrasto tipico della rivelazione biblica: quello tra azione potente e sovrana di Dio e limitatezza dell’uomo. Questi ha progetti, mentalità, modi di vedere conformisti e scontati: pensa che le persone socialmente deboli siano costitutivamente vittime senza difesa, mentre il Signore le difende (15,25); pensa che Dio non veda quel che si pensa in segreto (15,26); pensa che tutto sia concesso e il Signore sia in ogni caso vicino (15,29).

Se quindi vuole acquisire sapienza, deve fare una lunga e penosa gavetta (15,33).

Perché solo Dio conosce l’esito degli umani progetti (16,1) come conosce le intenzioni (16,2). Talché nulla può veramente riuscire se non si cede alla potenza di Dio (16,3), cercando di non barare (16,5-6). Tuttavia chi accetta questa logica di cedere alla potenza del Signore può ritrovarsi in mano molti più risultati del previsto (16,7).

Questa sapienza, più direttamente legata alla fede non è però lontana dall’ambiente della corte cui abbiamo sempre fatto riferimento finora per descrivere origine e scopo del nostro Libro.

Dopo i vv.1-7, abbiamo, infatti, una serie di versetti in cui si parla del re, in altre parole dell’arte del buon governo (vv.10 e 12-15). Non possiamo non riconoscere che , coi tempi che corrono, essi vengano ben a proposito anche per noi. Perché non pensare per esempio, ad una pastorale della vita sociale e della politica in conformità a queste indicazioni?

Il legame tra il tema della sovranità divina e quello della monarchia è consolidato nel testo da una fitta serie dia assonanze interne, con la ricorrenza di termini e suoni, un vero e proprio ingranaggio volto a favorire oltre che la memorizzazione dei detti, la loro reciproca connessione.

Del re si dice infatti che pronuncia giusti giudizi (16,10), ma dopo il severo avvertimento sull’onestà e sulla capacità di Dio di dire l’ultima parola dei vv.8-9. Del resto, poiché la parola del re viene accolta come un oracolo decisivo e sovrumano, è necessario che egli presti molta attenzione ai giudizi che pronuncia. Lo stesso motivo è confermato dai vv.11-13.

Non c’è bisogno di insistere sulla straordinaria attualità anche di queste affermazioni.

Segue poi una coppia di detti sull’ira e sull’aspetto del re. Esso ne mostra la benevolenza (vv.14-15), è garanzia di vita. E’ vita ciò che egli perdona, ma egli stesso è una corrente vitale come la pioggia di primavera, grazie alla quale le messi possono crescere e giungere a maturazione.

Vediamo dalla stretta connessione tra il tema divino e quello regale quale concezione della monarchia avesse il compilatore della nostra raccolta di detti.

Non potremmo affermare che sia un’idea teocratica.

Il modello del governo resta laico, perché non siamo di fronte, come in altri casi dell’A.T., ad un testo di polemica antimonarchica che affermi il Signore come unico re del suo popolo.

L’istituzione è invece riconosciuta senza mezzi termini: Dio è e resta Dio; il re è e resta il re. Ma se questi vuole realmente governare e non semplicemente comandare, deve riconoscere la sovranità di Dio e prenderla a modello della propria.

Siamo di fronte ad un tratto ideologico di grande importanza.

Il compilatore della raccolta e la monarchia salomonica, che pure hanno presente il modello egiziano per la formazione dei funzionari di corte, come ho più volte ripetuto, sentono la necessità d’inculturare tale modello entro la rivelazione e compiono tale operazione in tre fasi:

  1. affermano la sovranità di Dio con la serie settenaria;
  2. identificano questo Dio col nome tipico della rivelazione dell’Esodo;
  3. mettono in parallelo il modo d’essere e di agire del sovrano con quello di Dio.

Versetto 16: a partire da questo e fino alla fine del capitolo, troviamo una raccolta di detti circa la saggezza, la rettitudine, l’umiltà e la pazienza.

L’autore della raccolta non li attribuisce direttamente ad alcuno: parla d’uomini (v.17) e usa espressioni generali e generiche.

Possiamo formulare due ipotesi:

che anche questi versetti vadano riferiti al re, benché non se ne faccia menzione diretta, come pensa qualche commentatore: in tal caso il nostro capitolo “costituirebbe un programma di governo per il monarca autentico”;

che questi versetti siano invece indicazioni per i sudditi, i quali, resi consapevoli dell’autentica sovranità e del suo esercizio, trovano ora indicazioni sul loro modo di essere: in questo caso si darebbe ai funzionari di corte l’immagine della monarchia ideale, in cui i sudditi dotati di senso dello stato sul modello della sovranità divina e umana, si regolano di conseguenza e coltivano un sapiente progetto di pace.

Di particolare interesse, in questo senso, pare il v.32.

Normalmente è difficile pensare politico senza potenza e valore militare. Qui invece l’ottica è rovesciata. Come era rovesciata l’ottica del governo, fondato sul diritto, sulla giustizia e sulla benevolenza, così il vero cittadino non è l’eroe che conquista città, ma quello che sa conquistare se stesso. “Dominarsi” nell’ira, facendo in modo che non domini l’uomo fino a diventare peccato (Ef.4,26) è la caratteristica del suddito (o del re, se accettiamo l’altra interpretazione).

Notiamo bene: il testo non dice che l’ira debba/possa essere eliminata: non sarebbe da saggi ignorare che ciò è impossibile; il testo dice che il saggio sa dominarla, come dirà, secoli dopo, un maestro chassidico, “Tengo la mia ira in tasca, come un fazzoletto, e la estraggo o la ripongo secondo il bisogno”.

Stando al nostro versetto il paziente ha “larghe narici”, respira a fondo, “tira il fiato”; il collerico ha “narici strette”, respiro corto, concitato e affannoso. La descrizione dei due tipi umani è plastica e onomatopeica: sono qui contrapposti un vento largo e tranquillo, come quelli che spargono semi e pollini, e quindi vita, ad un uragano devastante.

Di per sé ambedue hanno un loro posto nell’equilibrio della creazione, ma sappiamo bene quale sia l’esito di un uragano imprevisto.

L’ultimo versetto del capitolo, infine, va connesso strettamente con quelli che lo precedono e parlano di giudizio e giustizia.

Giudizio e giustizia sono fondati in Dio e fondano, a loro volta, il regno, ma nel v.33 si parla di un caso particolare, del giudizio di Dio risolto tirando a sorte.

La pratica è ben attestata nel diritto antico e nell’A.T.. Un esempio lo possiamo leggere nel salmo 16,15, ma non è l’unico.

Ci sono situazioni in cui l’uomo pare affidarsi al caso per decidere. In realtà non dobbiamo guardare superficialmente questo genere di pratiche. Esse venivano messe in opera quando alla abilità e al discernimento umani non restavano altre risorse e non c’era più nulla che si potesse fare. Non era quindi un modo per affidarsi al caso sollevandosi delle responsabilità dovute, ma affermare che, dopo avere messo in opera ogni abilità si rimetteva a Dio quel giudizio per il quale ci si riconosceva incapaci.

Il Dio dell’A.T., del resto, non è soggetto al caso o al fato, come le divinità della tradizione omerica, che sono governate da un destino che le supera e cui non si possono opporre. Ma è egli stesso padrone di ogni destino e soggetto a nessuno, talché quando l’uomo (compreso il re) abbia già messo in opera tutte le proprie risorse senza giungere ad alcun risultato, affida all’Eterno la sentenza mediante la sorte.

Non vi è quindi né magismo né carismasticismo nella pratica antica del “gettare le sorti”, ma l’affermazione del diritto divino, laddove l’uomo abbia consumato tutte le sue abilità.

Ben diversamente stanno le cose per noi, oggi, vedendo il processo involutivo della fede a credulità dei tanti, che si affidano a pratiche svariate, demandando ad esse di risolvere i problemi che sarebbe in loro potere, o comunque loro compito risolvere.

Dal Trattato detti dei Padri della Mishna:

II.1. Rabbi dice: Quale è la retta via che un uomo dovrà scegliere per sé? Quella che sia onorevole per chi la pratica e considerata onorevole da parte degli altri.

Stai attento a un precetto lieve come a uno grave, perché tu non sai quale sarà la ricompensa dei precetti. Considera il danno derivante da un precetto in confronto alla sua ricompensa e il profitto derivante da una trasgressione in confronto al suo danno.

Rifletti su tre cose e non cadrai in balia della trasgressione. Sappi che cosa c’è sopra di te: un occhio che vede, un orecchio che ascolta e tutte le tue azioni sono scritte nel libro.

II.12°. Chiese loro Rabban Jochanan: esaminate qual è la via retta cui un uomo deve attenersi. Rabbi Eliezer dice: Un occhio buono. Rabbi Giosué dice: Un buon vicino. Rabbi Simone dice: Uno che prevede le conseguenze (di quello che fa). Rabbi Eleazar dice: Un cuore buono.

Rispose loro: Io preferisco le parole di Rabbi Eleazar, poiché nelle sue parole sono incluse le vostre.

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