Libro dei Proverbi: Capitolo 11, 17 al 12,1

In questi versetti ha inizio la raccolta di “detti” che potrei definire “proverbi” o, più propriamente, “sentenze”. Dal cap.10, infatti, incontriamo una serie di sentenze che, apparentemente non presentano relazioni tra loro, quasi fossero affastellate senza criterio. Sono, per di più, sentenze brevi, incisive e fatte senz’altro per essere memorizzate, ma non sempre facili per noi da capire e da tradurre. Del resto come pensiamo che si potrebbe comprendere tra qualche migliaio d’anni una sentenza del tipo “Campa caval che l’erba cresce”. Soprattutto se fosse messa in serie con altre?

In realtà i legami interni ci sono, ma…ci vuole orecchio. Si colgono, infatti, in lingua originale, grazie a rime ed assonanze, strutture parallele o contrapposte, secondo i casi e termini che si rincorrono da una sentenza all’altra, concatenandole. Orecchio e memoria sono i veri strumenti necessari all’interpretazione.

Questo però può ben confermare la natura della meditazione di formazione come un’esercitazione scolastica della nostra raccolta dei Proverbi, per l’importanza che vi assumono la memoria e la capacità di collegare istintivamente una frase all’altra.

Si potrebbe quindi ridimensionare l’affermazione della Bibbia di Gerusalemme, secondo cui “in questa raccolta non traspare alcun ordine”. Un ordine c’è, anche se non è facilmente riconoscibile.

E’ invece vero che siamo di fronte, probabilmente, alla parte più antica del libro, risalente all’epoca di Salomone. Presenta, infatti, parecchi legami con testi egiziani di formazione. Tale raccolta antica arriva all’incirca fino al cap.22.

Notiamo infine ( e ascoltando in un secondo momento il commento rabbinico sarà subito chiara), come la tradizione ebraica si sia preoccupata di storicizzare queste sentenze, che sembrano riguardare un’esperienza quotidiana senza specifici riferimenti alla rivelazione, richiamando subito la Torah e il dono della Torah. Il che significa che una qualsivoglia forma di sapienza umana, che non sia in contrasto con la rivelazione, è, di fatto, una traccia di lei: un seme del Verbo, direbbero i Padri.

Lo vediamo per esempio nell’interpretazione che la Mishna offre di Pr.11,22.

Consideriamo alcune corrispondenze interne nella serie di sentenze che leggiamo qui di seguito; individuiamo così tre serie, che cerchiamo di seguire sul testo:

sentenze sulla donna
11,16 una donna graziosa
11,22 una donna bella

sentenze su beni e benessere
11,16 fannullone e laboriosi
11,17 misericordioso e crudele
11,24 chi largheggia e chi risparmia
11,25 chi benefica e chi disseta
11,26 chi accaparra e chi vende
11,28 chi confida nella ricchezza
11,29 chi rovina la casa

sentenze su onesto e malvagio
11,18 l’esempio
11,19 chi pratica la giustizia e chi fa il male
11,20 i cuori depravati
11,21 il malvagio
11,23 i giusti e gli empi
11,24,25,26 tre sentenze che s’incrociano con la serie di sentenze su beni e benessere già vista
11,27 chi è sollecito del bene
11,28,29 ancora una serie incrociata con la precedente su beni e benessere
11,30 il giusto e il saggio
11,31 il giusto, l’empio e il peccatore
12,1 chi ama la disciplina e lo stolto

E’ necessario leggere e rileggere il testo senza stancarsi per cogliere questi legami, e questo fa parte dell’impegno di ognuno: è necessario, infatti, farsi l’orecchio su pochi versetti alla volta per penetrare un po’ nel gioco interno delle corrispondenze.

Vediamo ora qualche versetto da vicino.

Cap.11 v.17: la più evidente risonanza a questa sentenza si trova in Is.58 che leggiamo di frequente in quaresima. Vi si afferma che gli altri sono la nostra stessa carne e che il bene che si fa agli altri ricade su chi lo fa. Si potrà forse obiettare, in base all’esperienza, che non sempre è vero, perché spesso le persone beneficate si preoccupano di “tagliare le gambe” a chi ha fatto loro del bene, ma è proprio qui che dobbiamo vedere emergere la saggezza tipica dell’A.T.: non è l’esperienza a dare la saggezza, ma la consapevolezza della propria dignità, che consiste nel fare il bene. Talché non si è tanto compensati da eventuali contraccambi, come avviene nei comitati d’affari, ma nel fatto che il bene è rispetto di se stessi. Non esiste, per quel che so, un proverbio italiano che corrisponda a questa saggezza, ma il senso è che si è più uomini a perdere con altruismo che a vincere con opportunismo. Solo dal bene, infatti, nasce il bene, al di là di effimeri vantaggi.

Cap. 17,22: l’immagine è così plastica che merita un attimo di considerazione. L’anello alla narice era – e di questi tempi lo è di nuovo per molti giovani – un ornamento femminile usuale. Quello che più colpisce è l’accento al porco (non al maiale, che in ogni caso per noi è un animale positivo). Il porco era e resta un animale negativo per gli ebrei, escluso dall’alimentazione e dal culto; il termine ebraico è particolarmente forte in senso negativo. La sentenza gioca quindi su un duplice paradosso: il fatto che il maiale si agghindi come una bella ragazza e quello che in ogni caso è un animale senza diritto di cittadinanza nel mondo ebraico.

Cap. 11,26: dal punto di vista formale essa è legata alla precedente (v.25), perché vi ritorna una radice ebraica, quella della parola “benedizione”. Il significato è invece più vicino a quello del v.24. Evidentemente si tratta di un detto contro gli speculatori, cioè contro chi accumula in vista di un vantaggio personale, non del bene comune. Si potrebbe partire da qui per avere una visione dell’economia in chiave etica. Il vero problema, infatti, non è nell’arricchirsi, ma nelle motivazioni e nelle conseguenze dell’accumulo della ricchezza (qualunque ricchezza, in questo caso, anche quella culturale, se si pensa che nella Scrittura “grano” e “pane” sono termini che fanno riferimento alla parola e alla conoscenza).

Cap. 11,30: ci rimanda invece ad un ambito di significati che conosciamo già (ricordiamo il salmo 1): esso affronta il problema della responsabilità, perciò esiste una relazione di causa ed effetto tra decisione, azione e risultati. Analogamente il v.29 introduce un’immagine di grande interesse, quella della casa distrutta dal proprietario stesso, che resta perciò in balia delle intemperie. Ma “casa” non indica solo un edificio, bensì anche l’intera gestione della propria vita: familiare, sociale, nazionale.

Chi accumula male s’illude di essere al sicuro, in realtà sta svellendo il tetto della propria casa. Né si potrà difendere dagli uragani con un ombrello.

Chi vive onestamente fa del bene agli altri e a se stesso; chi invece vive nella e della violenza annienta il suo prossimo illudendosi di procurare del bene a se stesso. Nei momenti difficili sarà però costretto a ricredersi.

Cap. 12,1: Qui c’è una doppia sentenza. Essa andrebbe ancora reduplicata, perché manca delle rispettive conseguenze (apodosi) alla prima affermazione (protasi). Più o meno potrebbe essere:
Chi ama la disciplina, ama la scienza

Integrando

(e chi è indisciplinato finisce nell’ignoranza);

e ancora si deve integrare

(chi è sapiente ama la correzione,
chi odia la correzione è stolto).

Il fatto di avere tagliato la conseguenza dell’affermazione iniziale o la sua premessa, rende il testo molto incisivo e fa comprendere come probabilmente ci possa essere stata una tradizione orale e mnemonica che ha accostato mezze sentenze per assonanza con effetti di indubbia efficacia.

Troviamo qui però una concezione molto realistica dell’uomo. Noi tutti, infatti, siamo naturalmente poco inclini alla disciplina intellettuale, che è faticosa e paga poco nell’immediato.

Ancora meno siamo disposti ad accettare la correzione che può venirci da altre persone o dagli avvenimenti.

Quasi sempre c’illudiamo di costruirci una scienza di vita basata sulla nostra esperienza (per altro sempre molto limitata) o su quello che riteniamo un sano buonsenso quando non, addirittura, su quello che noi sentiamo.

In realtà un’attenta lettura di queste sentenze ci mostra come non si possa essere troppo indulgenti con se stessi, volendo conseguire un’autentica sapienza.

Il buon senso non basta, per esempio; ma è necessaria un’autentica disciplina della mente che passi in uno stile di vita; sono necessarie conoscenze, confronti, superamenti di sé e così avanti.

La sapienza di cui ci parlano le Scritture non è indolore né si propone di eliminare il dolore; è piuttosto un assumere tutta la sofferenza che si accompagna alla negatività dell’uomo, superandola con la correzione, la disciplina e l’applicazione. E’ una ricerca dell’armonia, ma a partire da una storia concreta. Come tale questa sapienza non può prescindere, ma anzi anticipa e annuncia il mistero dell’Incarnazione e della pasqua del Signore.

Trattato Detti dei Padri della Mishna.

VI.2. Dice Rabbi Giosué ben Levi: Tutti i giorni, dal monte Horeb, esce una voce che proclama: Guai agli uomini, se offendono la Torah! Perché chi non si applica alla Torah si merita il nome di reprobo, come è detto: “Anello d’oro al naso di un porco: tale è la donna bella ma priva di senno” (Pr.11,22)

Così pure è detto: “Le tavole erano opera di Dio, e la Scrittura scrittura di Dio scolpita (charùt) sulle tavole” (Es.32,16). Non leggere charùt ma cherùt: “Libertà sulle tavole”, perché nessun uomo è libero, se non colui che si applica assiduamente allo studio della Torah. Ma chi si applica assiduamente alla Torah, costui è esaltato, come sta scritto: “Dal dono all’eredità di Dio, e dall’eredità di Dio alle altezze” (Nm.21,19)

V.16. Ci sono quattro tipi tra quelli che siedono davanti ai sapienti: la spugna, l’imbuto, il filtro e il setaccio.

La spugna, perché assorbe tutto.

L’imbuto, perché fa entrare da un orecchio e uscire dall’altro.

Il filtro, perché lascia passare il vino e trattiene la feccia.

Il setaccio, perché fa passare la farina e raccoglie il fior fiore.

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