Libro dei Proverbi: Capitolo 19,1-29

Abbiamo ancora di fronte un capitolo con cui fare l’esercizio di cercare le corrispondenze, per termini e temi ricorrenti.

Indichiamone alcune, per cominciare, che poi vedremo nei particolari:

  • l’opposizione tra povero e bugiardo (vv.1 e 22);
  • due detti sul falso testimone (vv.5 e 9);
  • due detti sul pigro (vv.15 e 24);
  • detti per educare un figlio (vv. 13-26 e il v.27).

Potremmo anche aggiungere con ironia e preoccupazione che in questo capitolo si parla spesso di percosse e bastoni (vv.18,19,25,29), ma sarà meglio lasciar stare, notando invece che cinque volte compare il nome divino e che di svariato tenore sono i detti: alcuni, infatti, hanno il carattere dell’esortazione diretta ad un “tu” (vv.18,20,25,27), solo una volta identificato (Figlio mio, v.27), la maggior parte invece sono enunciati di tipo descrittivo di situazioni in atto o prevedibili.

L’opposizione tra povero e bugiardo apre dunque il capitolo. Una traduzione più corretta del v.1 sarebbe, infatti:

Meglio un povero che integro cammina
Che uno contorto di labbra:
costui è stolto.

Il motivo della traduzione che abbiamo invece sotto gli occhi è che per anni è prevalsa una scuola interpretativa la quale, quando le pareva che il testo non fosse coerente, anzi ché cercare di spiegarlo, semplicemente lo armonizzava. In realtà dobbiamo cercare di capire. Se per esempio diamo al nostro v.1 un’ambientazione giudiziaria o anche più ampia, possiamo pensare che un testimone falso ( di cui si parla anche più avanti), magari esce baldanzoso e arricchito dal tribunale, a differenza del povero che, per amore di rettitudine esce sconfitto dalle contese, tuttavia è semplicemente uno sciocco perché la falsità non resta impunita. Lo confermano il v.5 e il v.9.

Il v.22 contrappone ancora povero e imbroglione:

  • Desiderio dell’uomo è la sua lealtà
  • È meglio un povero che un bugiardo.

E qui davvero potremmo formulare più ipotesi per cercare di comprendere il senso. Per esempio, per uno che sia povero ha il massimo valore il suo desiderio d’essere leale.

D’altra parte questo primo versetto può essere letto nel complesso dei due che lo seguono.

Il v.2 ha molti corrispondenti anche tra noi (rammentiamo la famosa “gatta frettolosa”: anzi, continuo a credere che sarebbe un esercizio utile, oltre che divertente, cercare di trovare dei corrispondenti ai proverbi biblici tra quelli della nostra cultura popolare); esso ci ricorda come il controllo sia necessario: di regola gli impostori non riflettono troppo, ma hanno fretta di arricchire e di arrivare; e il v.3 conferma: la stoltezza frastorna e fa perdere la strada, poi il cuore dell’uomo se la prende con il Signore.

Il discorso si è fatto religioso, come si vede, perché chi si affanna senza pensare finisce poi col dovere incolpare Dio per i propri insuccessi e guai o con irritazione blasfema o, per le persone che vogliono mantenere una parvenza di pietà, con la “permissione” divina. Ma è dottrina comune e corrente dell’A.T. che non si deve giocare a rimbalzello con le proprie responsabilità.

Per concludere il ritratto dello stolto che compare in questo capitolo, associato, ancora una volta, al falso testimone, è di particolare interesse il v.10.

S’è visto prima la connessione tra bugiardo, stolto e chi si affanna per arricchire: al contrario, dato che lo stolto non sa vivere (in assoluto), tanto meno gli conviene il lusso. Sia perché non lo merita, dato che lo consegue con frode, sia perché non saprebbe apprezzarlo: signori si nasce, e lo stolto non potrebbe essere, alla fine, che uno di quegli arricchiti contro di cui si dirigono ancora oggi giustamente gli strali sarcastici della gente.

Parliamo adesso di pigrizia e fannulloni (vv.15-24).

Di pigrizia parla più precisamente solo il v.15°:

La pigrizia fa piombare in letargo

E potremmo affermare che è un detto che può bastare a se stesso, perché non ha un membro parallelo.

Il v.15b parla già del fannullone e presenta semplicemente le conseguenze del suo modo di essere.

Il detto del v.24 è invece veramente interessante, perché iperbolico e paradossale ( ma a ben guardare l’incisività del proverbio sta proprio nel paradosso su cui spesso è costruito). L’immagine è plastica, come se sollevare la mano piena di cibo fosse una fatica sovrumana, più che un lavoro, contro di cui nulla possono o la fame o la gola. Il pigro, poveretto, soffre quindi la fame, perché gli apre troppa fatica non già lavorare, bensì compiere il percorso piatto-bocca con la mano. Lo stesso detto è ripreso in Pr.26,15, ma il tema è affrontato più volte nel corso del libro e potrebbe essere oggetto di una ricerca interessante.

Va detto infatti che il mondo ebraico aveva ( e ha tuttora, del resto, e noi da esso lo abbiamo ereditato) in grande stima il lavoro manuale. Non deve sembrarci cosa scontata. Il mondo greco-romano, per esempio, disprezzava il lavoro “servile”: un vero uomo doveva dedicarsi all’otium, cioè alla riflessione, alla meditazione e alla ricerca della sapienza lontano da campi, mercati e botteghe. Il negotium, cioè il lavoro (manuale o altro che fosse), era una triste necessità, non un’opera legata a quella divina (e quindi un atto di culto), come si legge nel secondo racconto della creazione (Gen.2,15).

Il blocco dei vv.13-26, come abbiamo detto, riguarda ancora l’educazione di un figlio. Esso segue immediatamente un detto sul re (v.12). Forse è troppo pensare che il figlio, per prepararsi ad essere un buon funzionario, debba sapere che i sentimenti del re diventano subito azione e che bisogna condurre una vita domestica ordinata, tuttavia non è questa prospettiva da trascurare.

Tanto per restare nel clima generale del capitolo, si comincia dall’ipotesi di un figlio stolto (v.13), a cui si associa una moglie litigiosa: davvero una casa invivibile.

Una brava moglie però uno non se la può dare; il v.14 riprende il tema della convivenza domestica per moto contrario e mostra come può essere organizzata una vita ben fatta: casa ed eredità per partire, una brava moglie come dono di Dio, voglia di lavorare, osservanza dei comandamenti di Dio come garanzia di vita (il v.16 è formulato in maniera particolarmente incisiva, adatta alla memorizzazione).

E’ una vita familiare, però, non per niente chiusa: il saggio è attento ai poveri e educa il figlio sulla stessa linea: notate come donare ai poveri sia dare al Signore, come più tardi in fondo dirà Mt. 25,31ss.

Ognuno potrà ricostruire i passaggi di questo stile di vita proposto come progetto educativo, dal quale, come abbiamo detto all’inizio, non sono assenti le legnate, diciamo pure, come…argomento persuasivo, per l’uso del qual è raccomandata in ogni caso, con buona dose d’ironia, una prevedibile moderazione (v.18).

Al violento invece si deve con assoluto realismo, bastonare la borsa (v.19):

Il violento pagherà una penale:
se lo liberi ci ricasca.

Di fatto chi cede alla collera può incappare facilmente in reati, per i quali deve rifondere i danni; se poi si volesse guarire qualcuno dalla collera (questa è anche una lettura possibile del testo particolarmente difficile), si sappia che si rischia di aggravare la situazione.

Particolare attenzione vorrei dedicare al v.21.

Esso rispecchia un insegnamento che ricorre sovente nell’A.T. e il cui parallelo privilegiato (ricorrono gli stessi termini) è il Salmo 33, che poi consiglio di leggere, in particolare il v.11.

Evidentemente il senso non è quello di un generico fatalismo. Il contesto fa ben capire che l’uomo deve valutare le situazioni, accettare consigli e correzioni, quindi progettare. Deve però essere consapevole che l’ultima parola spetta a Dio e che la vera intelligenza non consiste nel moltiplicare piani o nel cercare stratagemmi (questa sarebbe piuttosto “furbizia”), ma nel verificare sull’eterna e fedele parola di Dio la validità di progetti e disegni.

E, si noti, il discorso vale sia per la condotta del singolo (noi diremmo nel privato), sia in una dimensione più vasta (nel pubblico), come invece sottolinea il Salmo. Potremmo dire anzi che il salmo procede in orizzontale o per estensione, quando parla di progetti e disegni di nazioni e popoli, e in verticale o in relazione alla storia, investendo tutto il futuro, anche quello lontano che l’uomo non può pensare (“di generazione in generazione”).

Il discorso educativo che sottostà a questi versetti non è dunque troppo spiccio o spicciolo. Non propone un’etica d’espedienti e neppure un’etica soggettivista, come siamo abituati a pensare per noi stessi. Essa ha bensì un fondamento oggettivo ed eterno e, come recita appunto il v.16:

Chi veglia sul precetto veglia sulla sua stessa vita
Chi trascura la propria condotta morrà.

Dal Trattato Detti dei Padri della Mishna:

III.20. Rabbi ‘El ‘azar ben Azarjà dice:

Senza Torah non c’è buona condotta, ma senza buona condotta non c’è neppure Torah. Senza sapienza non c’è timore, ma senza timore non c’è neppure sapienza. Senza intelligenza non c’è conoscenza, ma senza conoscenza non c’è neppure intelligenza. Senza farina non c’è Torah, ma senza Torah non c’è neppure farina.

IV.3. (Ben ‘Azzaj) diceva: Non disprezzare nessun uomo e non sottovalutare nessuna cosa, perché non c’è uomo che non abbia la sua ora e non c’è cosa che non abbia il suo posto.

IV.6. Rabbi Jishma ‘el (…) dice: Se uno studia in vista di insegnare, gli è data la possibilità di studiare e di insegnare, Ma se uno studia in vista di fare, gli è data la possibilità di studiare, di insegnare, di osservare e di fare.

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