Libro dei Proverbi: Capitolo 2, 1-22

Il capitolo 2 lo possiamo considerare legato a quelli che lo seguono fino al cap.7. Da dove viene questo legame? Essenzialmente dal fatto che parla sempre lo stesso personaggio: è una figura maschile, questa volta, che si rivolge ai suoi interlocutori chiamandoli “figlio mio” tredici volte (2.1, 3.1.11.21, 4.10.20, 5.1.7, 6.1.3.20, 7.1.24) e una volta “figli” (4.1). Quattordici vocativi, quindi, d’indubbio peso simbolico.

Colui che parla può essere un padre o, più probabilmente, un maestro. Il suo intento è persuadere; fa ricorso perciò all’arte retorica, che pare di scuola molto matura, e tocca i temi principali relativi alla vita secondo sapienza.

Per quanto riguarda il capitolo 2 in particolare, colpisce la struttura sintattica rigorosa, quasi perfetta, nella quale sono inquadrati questi temi fondamentali, come in una specie di sommario e, in più, in una sequela di ventidue sentenze o versetti: il numero è interessante, perché è quello delle lettere dell’alfabeto ebraico, talché dice una completezza tematica, ordinata come il linguaggio creatore di Dio.

Vediamo, prima di tutto, alcune clausole su cui il discorso è costruito, a titolo d’esempio.

Si comincia con una serie di condizioni:

v.1 se accoglierai e custodirai + v.2 tendendo e inclinando

v3 se invocherai e chiamerai

v.4 se ricercherai e scriverai

seguite dalle conseguenze con le rispettive motivazioni:

v.5 allora comprenderai – v.6 perché il Signore

v.9 allora comprenderai – v.10 perché la saggezza

La complessa costruzione del discorso appare tipica di chi voglia convincere non già imporre: abbiamo di fronte a noi un vero e proprio stile pedagogico, che ci offre preziose indicazioni. La prima è certamente che non si devono nascondere condizioni e rischi e conseguenze delle scelte vitali alle persone che sono affidate

Alle nostre cure o educative o pastorali. Minimizzare la difficoltà potrà forse rincuorare per un momento, ma alla lunga non paga, come non paga parare sempre tutti i colpi. Quello che in psicologia si chiama “principio di realtà” è qui affermato abbastanza chiaramente e meglio svolto nel corso del testo.

La seconda è che un discorso austero non implica necessariamente toni terroristici: deve essere onesto e senza sconti, ma non c’è bisogno di alzare la voce e minacciare. Il maestro che parla in questi capitoli è un uomo abile e accorto: sa che cosa dire e come dirlo.

L’accorto maestro sa toccare tutte le corde: quella strettamente sapienziale, quella etica e quella religiosa; soprattutto però sa fare uso delle metafore che hanno un grande seguito nel linguaggio biblico, fino al N.T. compreso: immagini come quella del tesoro (v.4), dello scudo (v.7), del cammino e della strada (vv.8.12.13.15.18.19.20), dell’abitare-possedere la terra (vv.21-22) hanno risonanze nell’A.T., ma arrivano poi fino al discorso della montagna e alle parabole del regno.

C’è però un linguaggio che si oppone a quello del maestro, ed è quello tutto speciale della sgualdrina (vv.16-19). E’ questa un’immagine che troveremo ancora nel corso del libro dei Proverbi, almeno fino al cap.9, ed è la controparte della signora Sapienza, che abbiamo già visto nelle meditazione precedente, e sinonimo della signora Follia.

Perché è tanto importante la figura della sgualdrina o della prostituta, fino ad essere sinonimo di follia? Posso anticipare ( e del resto già questi pochi versetti lo fanno presagire), che il problema, per il maestro, non è propriamente morale. Egli considera infatti la prostituta come cifra dell’idolatria, dell’abbandono cioè di quella fedeltà originaria al Dio dell’Alleanza, che ha coi suoi fedeli un rapporto sponsale ed esclusivo.

Questo tema è particolarmente caro ad alcuni profeti, ma qui ne vediamo il versante sapienziale.

Anche noi, per esempio, quando diciamo che “il primo amore non si scorda mai”, lasciamo capire che ci sono legami originari, forti, irripetibili, dai quali ci si può forse distogliere, ma tradire i quali equivale, in fondo, a tradire se stessi. Il rapporto con la sgualdrina è di questo tipo, perché conduce alla morte. Non si tratta di una scappatella di gravità più o meno forte, ma di un travisamento radicale della verità dei rapporti, che la sgualdrina sa manipolare molto bene. Il maestro ne descrive così il modo di fare, la malvagità e le irreversibili conseguenze.

Non bisogna dimenticare che la prostituzione era esercitata, nell’antico Israele, da donne straniere; era quindi automatico associare il tradimento della moglie legittima a quello della propria nazione/cultura per arrivare al tradimento dell’Alleanza con Dio, su cui la nazione stessa si fondava. Perché in questo tipo di mentalità nulla che sia carnale è privo di risvolti spirituali e viceversa.

Per vedere meglio questa relazione prostituzione/idolatria è opportuno andare a leggere Pr.7, dove il maestro/padre dà all’allievo/figlio consigli per la conduzione della vita matrimoniale.

Comunque l’opposizione principale presente in Pr.2 è tra cattiva strada e retta via, come si legge ai vv.12-15, praticamente al centro geografico del capitolo.

Tale opposizione comporta alcune associazioni. Abbiamo così:

La cattiva strada e l’uomo che la segue o che si limita ad istigare al male (2,12);
La retta via, colui che l’abbandona, e le vie tenebrose (2,13); notando come la retta via sia una , mentre quelle tenebrose possono essere svariate e sono, per così dire, in discesa: il testo infatti mostra (vv.14-15) un passaggio dall’abbandonare, al seguire, al compiacersi nel fare il male, al rallegrarsi della malvagità: una specie di pozzo in cui si cade a capofitto, di cui non si vede il fondo, men che meno vi compaiono appigli per tentare una risalita.

Anche in questo caso si nota tutta l’abilità pedagogica del maestro, che mette serenamente in guardia dai facili ottimismi. Cedere un momento può voler dire cedere per sempre. L’opposizione infatti tra rettitudine e tenebre è forte. Qualunque via in sé retta può diventare difficile al buio, tanto più un cammino perverso porta con sé qualcosa d’irrimediabile.

Nello stesso tempo, bisogna notare la doppia valenza del simbolo del buio, che può significare, da un parte, protezione: sappiamo tutti che la notte concilia il riposo cui ci si abbandona e la confidenza con gli amici o i rapporti affettivi più forti. La stessa protezione però può funzionare all’incontrario per celare insidie. I ladri lavorano sovente di notte, il buio favorisce l’agguato e persino la capacità di mentire a se stessi: non a caso la tradizione rabbinica vede nel sonno una forma incompleta e imperfetta (ma anticipatrice) della morte.

Il giovane/figlio cui il discorso è indirizzato è quindi invitato ad ascoltare, e ascoltare è già scegliere. Mentre il discorso del maestro/padre vuol dire che qui si tratta di vivere o morire, suggerisce anche che l’essere docili all’ascolto è già un essere incamminati sulla via giusta.

Solo raramente le circostanze della vita ci mettono in condizione di prendere decisioni chissà quanto grandi, ma nella vita quotidiana di fatto ogni momento può essere il momento decisivo.

In questo senso la Torah dei maestri d’Israele va intesa non come un maestro che fornisce risposte, ma piuttosto come un maestro che interpella l’allievo e gli dà le opportune indicazioni, per sospingerlo sempre verso nuove decisioni sulla via della saggezza. Tale saggezza valorizza al massimo la libertà del figlio/allievo: l’essere docili non corrisponde ad una passività, ma ad una creatività sempre nuova.

Ecco perché essa appare come il tesoro dell’esistenza, perché di fatto corrisponde al patrimonio dell’ umanità che ognuno ha ricevuto, porta con sé, traffica e custodisce.

Il maestro/padre, a sua volta, non si presenta con un tono perentorio: sa anche troppo bene che l’essere perentori significa farsi rifiutare e indurre alla ribellione, tuttavia sa farsi ascoltare con una certa fermezza. Non è autoritario, ma autorevole; così come il figlio/allievo non è passivo, ma docile. Il rapporto che si instaura tra loro è il medesimo che c’è tra il Dio dell’Alleanza e il suo popolo.

E’ un rapporto dialogico anche se il figlio allievo/non parla – i soggetti dotati di parola sono, anzi, sono gli opposti: maestro e malvagio/prostituta – Il rapporto però rimane dialogico, perché non si dà dialogo senza riconoscimento dell’autorevolezza dell’altro e tensione d’ascolto verso una saggezza che potrei definire “preventiva”. Il maestro, infatti, ha un programma ambizioso: è consapevole di come sia inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, ma anche del fatto che dove è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore (Mt.6,21).

Dal Trattato Detti dei Padri della Mishna:

VI.6 Grande è la Torah, perché dà vita a quanti la mettono in pratica, sia in questo mondo sia nel mondo che viene. Come è detto: “I precetti della Torah sono vita per chi li trova e salute per tutto il suo corpo” (Pr.4,22). E aggiunge “Guarigione per il tuo ombelico, midollo per le tue ossa” (Pr.3,8). E si dice pure: “Essa è un albero di vita per quanti vi si attengono. Chi si appoggia ad esso è beato” (Pr.3,18). E anche:”Saranno una ghirlanda graziosa sul tuo capo, e collane intorno alla tua gola”(Pr.1,9). E similmente: “Porrà sul tuo capo una ghirlanda preziosa, ti cingerà con un diadema di gloria “(Pr.4,9). E aggiunge: “Lunghezza di giorni alla sua destra, alla sua sinistra ricchezza e gloria” (Pr.3,16). E ancora: “Perché ti aggiungeranno lunghi giorni, anni di vita e pace “(Pr.3,2).

VI.8. Rabbi Josè ben Qisma’ dice: Una volta, mentre camminavo per strada, mi venne incontro un uomo che mi salutò e io gli ricambiai il saluto. Poi mi domandò: Rabbi, di dove sei? Risposi: Vengo da una città grande di sapienti e di scribi. Allora mi disse: Rabbi, vorresti venire ad abitare presso di noi, nella nostra città? Io ti darei un milione di denari d’oro, pietre preziose e perle.

Figlio mio, . gli dissi – anche se tu mi dessi tutto l’argento e l’oro, le pietre preziose e le perle di questo mondo, non abiterei che in un luogo dove si studia la Torah. Perché quando un uomo si congeda dal mondo, non l’accompagnano né l’argento né l’oro né le pietre preziose né le perle, ma soltanto la Torah e le opere buone, come sta scritto: “Quando cammini ti guiderà. Quando ti corichi veglierà su di te. Quando ti svegli ti parlerà” (Pr.6,22).

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