Libro dei Proverbi: Capitolo 25,1-28


In questo capitolo c’è un’altra collezione di detti, anzi, come recita il titolo (v.1), ad indiretta testimonianza del fatto che esistessero più raccolte attribuite a Salomone, ordinate in epoche diverse. Per noi questa sarebbe la seconda (la prima Pr.10-22).

Se prendiamo per buono questo titolo, tra Ezechia (716-687 a.c.) o Salomone (970-931) c’è uno scarto di secoli. Possiamo allora pensare alla scuola di corte come all’ambiente che ha permesso alla raccolta di essere conservata e tramandata. Non solo: Ezechia si è trovato a regnare in Giudea dopo la caduta del regno di Samaria (721): è stato un riformatore e ha cercato di resistere all’invasione assira, ma si è preoccupato di una vera e propria politica culturale affinché non andasse dispersa la tradizione del regno del nord e permanesse quella del suo regno, il sud. In questo senso il richiamo a Salomone sarebbe comprensibile anche come richiamo alla monarchia indivisa. Possiamo utilmente vedere l’opera di Ezechia in 2 Re 18-29 e 2 Cor.29-32 e Is.37-39.

Il titolo comporta però un piccolo problema di traduzione. Sono detti raccolti o trascritti dagli scribi di Ezechia? I commentatori hanno l’una e l’altra traduzione. Forse converrebbe dire Compilati avendo presente la prima raccolta salomonica come modello.

Compaiono inoltre in questi capitoli la sapienza popolare con le sue frequenti allusioni ai fenomeni atmosferici e un forte spirito religioso, con richiami all’osservanza della Legge.

I commentatori considerano normalmente questa raccolta come un pilastro portante dell’intero libro, assieme alla prima collezione salomonica

Vediamone alcune caratteristiche soffermandoci su questo cap.25. Anzitutto, un po’ dei soliti richiami interni (diretti o per moto contrario) che, intrecciandosi, fanno da trama al testo. Possiamo distinguere alcune serie:

  • Il re vv.2.3.5.6
  • argento e oro vv.4.11.12
    • elementi naturali ( e agenti atmosferici)

    • cielo e suolo v. 3
    • neve, nuvole, vento v. 14
    • freddo v. 20
    • vento di nordest v. 23
  • prossimo e amico vv.8.9.17.18.19.21
    (e, al contrario, nemico, perfido ecc.)
  • il miele (e l’aceto) vv.16.20.27

Nello stesso tempo nei vv.1-7 troviamo dei personaggi posti in gerarchia: Dio (chiamato con il suo nome generico “Elohim”), il re/ i re, un anonimo cittadino, Dio e il re sono visti dapprima nel loro essere e agire come in tensione dialettica (v.2); l’essere del re è inserito poi in una specie di cornice cosmica e immutabile, in altri contesti attribuita a Dio (v.3); l’anonimo cittadino ha invece compiti sociali: è lui infatti il garante della giustizia, nella consapevolezza del proprio stato concreto e del proprio ruolo (vv.4-7). Notiamo, per inciso, la stretta vicinanza del v.7 con Lc.14,10 pur nella diversità di contesto, cosa questa che è tipica della sentenza, che può adattarsi a sfondi differenti, quando ne sia salvo il significato ultimo.

Il re deve dunque conoscere realtà e storia se vuole davvero governare e questa è la sua “gloria”; benché si riveli Dio resta invece celato e inconosciuto nella sua realtà e la sua “gloria” supera ogni conoscenza. Il cittadino (non il re) deve salvaguardare la giustizia, che pure è il primo compito del sovrano.

I compiti del cittadino si estendono anzi fino al v.10, con una serie di imperativi che individuano, in tutto, sette comportamenti.

Riprendendo dal v.4 sono:

  • 4 scevera le scorie
  • 5 allontana il malvagio
  • 6 non vantarti, non metterti
  • 8 non avere fretta di intentare lite
  • 9 componi la lite
  • 10 non rivelare i segreti

Potremmo dire una specie di “tavola del buon comportamento” all’interno della propria società, nel rispetto della propria condizione.

La tavola si prolunga, benché in maniera indiretta (vengono meno gli imperativi) nei versetti che seguono attraverso una serie di immagini di origine varia.

Troviamo un esempio:

11-12 immagini che provengono dall’oreficeria

13-14 immagini di fenomeni naturali (fuori tempo o inefficaci)

un paradosso anatomico (ricordo un proverbio che ho sentito in dialetto marchigiano e traduco: “La lingua non ha ossi, ma ossi rompe”.

E così avanti. Identificare l’universo simbolico e catalogare le immagini potrà essere un esercizio divertente, sempre cercando di ricordare se nella nostra tradizione popolare esistano detti affini.

La summa del buon comportamento è il senso di discrezione tratteggiato ai vv.16-17: due sentenze in parallelo, che riguardano cibo e compagnia, elementi chiave, assieme all’uso delle parole, per la gestione dei rapporti, nel mondo antico specialmente.

Avere trovato il miele (qui si parla di miele selvatico, ovviamente) o avere un buon vicino sono colpi di fortuna; il vero problema è l’arte del vivere al di là dei colpi di fortuna.

Discrezione che ritroviamo anche al v.20.

Un’attenzione particolare meritano i vv.21-22, citati anche in Rom.12,20, ma che hanno un antecedente in Amenemope, che abbiamo imparato a conoscere precedentemente. Dice:

Non fare uno scandalo contro chi ti attacca.

Riempigli lo stomaco del tuo pane

Così che se ne sazi e pianga.

Carboni ardenti da una parte, lacrime dall’altra. Le lacrime sono comprensibili come segno di vergogna e di pentimento; più difficile capire i carboni. Il testo potrebbe alludere al giudizio divino, come nel salmo 11,6 (Farà piovere sugli empi/ brace, fuoco e zolfo,/ vento bruciante toccherà loro in sorte), pur sapendo che le sentenze giocano spesso su immagini non sempre comprensibili.

Non dovrebbe comunque essere una forzatura comprendere questo detto come una condanna della vendetta o della propensione di alcuni al farsi giustizia da sé. In questo la sapienza antica si mostra non solo in perfetto accordo con l’insegnamento neotestamentario (persino quella pagana), ma anche di grande attualità. La tentazione alla giustizia sommaria e privata, infatti, è sempre in agguato sotto i migliori pretesti anche oggi.

Il ritratto dell’uomo che sa condursi bene presentato da questo capitolo si chiude con due sentenze.

La prima (v.27) è anch’essa problematica. Nel primo emistichio torna il discorso del miele, che richiama il v.16, mentre resta arduo da interpretare il secondo, sul quale si accavallano le congetture e le ipotesi. Dato che il numero delle ipotesi è inversamente proporzionale alla loro leale probabilità, verrebbe da rinunciare all’impresa. Tuttavia mi pare interessante l’ipotesi di cambiare la vocalizzazione e tradurre:
Indagare cose ardue è un onore/una carica

Sarebbe un’ipotesi poco costosa dal punto di vista testuale e in linea con quanto si afferma nei primi versetti del capitolo: tocca infatti al re investigare. Il nostro capitolo terminerebbe quindi riprendendo uno dei temi con cui è iniziato.

Più interessante l’ultima. Se è vero, infatti, che “la passione è sostanzialmente prendere sul serio le cose”, come ha detto di recente un filosofo, ed è pertanto necessaria alla vita, è anche vero che deve essere dominata per mantenersi, com’è, un punto di forza e non diventare una debolezza. La sapienza biblica è su questo concorde: ci presenta sempre personaggi con forti passioni (Dio stesso ne è il capofila), che appaiono debolissimi quando cedono ad esse senza alcun controllo.

Da La Corona del buon Nome

Poiché il Signore è Dio (Sal.100,3), eccelso sopra le altitudini, la dimora del suo pregio è in lato nei cieli…, giacché Egli è nascosto oltre ogni recesso ed è lui che dispone di ogni conoscenza superiore, Egli che è primo dei primi e l’ultimo degli ultimi, l’antecedente d’ogni antecedente, colui che sa e che è alla testa di ogni moltitudine, che non ha secondo, né accidente o appellativo e in cui non sussiste né un dove né un perché né un come.

Levata è la sua mano, sublime la sua destra, occulta a ogni occhio, ma non al cuore dell’anima sapiente, la quale afferma che non c’è misura alla statura. Mentre gli empi e i superbi che domandano come e cosa, sono figli ribelli (Ez.2,7) e nessuna superiorità hanno sulla bestia (Eccl.3,19)…

Ora tu oggi riconoscerai (Dt.4,39) che Egli è temibile e venerabile, presente e occulto: è questo il suo Nome incoronato, con quattro corone incoronato, con cui sono sigillati il sopra e il sotto e i cieli eccelsi, perciò giubilino i cieli e gioisca la terra (1 Cor.16,13) e colui che lo conosce e lo riconosce secondo il suo significato e lo proclama…

E’ gloria di YHWH celare le cose (Pr.25,2): queste quattro lettere sono degne di onorare il Nome glorioso, giacché sono quattro corone e la corona del buon nome si fonda su di esse.

Io, Tal dei Tali, mi sono applicato a indagare con le mie poche facoltà, sì da conoscere il segreto del Nome glorioso e terribile, per dare forza al mio re (1 Sam.2,10) e sapere di fronte a chi stare come è scritto: Sempre il Signore tengo dinanzi ai miei occhi (Sal.16,8)…

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