Libro dei Proverbi: Capitolo 30,1-14 e 31,1-9

Siamo verso la fine del libro. Le due collezioni si somigliano, scompare il nome di Salomone ed incontriamo altri due personaggi: Agur e Lemuel.

Come di solito succede quando s’incontrano dei nomi propri nell’A.T., ci si sente provocati a verificare esistenza e identità dei personaggi citati, e, tanto per cambiare, ci si trova di fronte ad una ridda d’ipotesi: qui poi abbiamo a che fare con due re stranieri, le cui parole, come vedremo, hanno autorevoli paralleli all’interno dell’A.T., non facili da giustificare.

Prov.30,1 attribuisce quanto segue ad Agur, figlio di Iakè, da Massa, del quale non sappiamo null’altro, perché non compare in altre parti della Scrittura. Per di più, il titolo della collezione è completato (v.1b) da una formula che può essere una dedica o, come abbiamo nella nostra traduzione, una confessione: Sono stanco/ ho faticato, o Dio, sono stanco/ ho faticato, o Dio e vengo meno/ desisto.

In 31,1 compare invece Lemuel, re di Massa, che trasmette l’insegnamento ricevuto dalla madre. Ricordo a questo punto l’importanza della figura femminile nel Libro dei Proverbi, soprattutto il fatto che la donna è colei che custodisce e trasmette la tradizione ai figli attraverso l’educazione. Nel mondo ebraico questo sarà il modo con cui la donna esplica il compito sacerdotale che le è proprio e che consiste nel passare l’identità ebraica ai figli tanto che è esonerata dalla preghiera pubblica (che può fare, in ogni caso, se crede) e dagli altri obblighi giuridici, come comparire in tribunale.

In questo caso si tratta però di una donna straniera, dal che si può riferire che quello di trasmettere un’identità attraverso l’educazione sia in ogni modo compito squisitamente femminile; in più è addirittura la regina-madre, come affermare che dall’insegnamento e dalla formazione che sa dare al principe ereditario, dipende il buon governo della nazione.

La collezione d’Agur inizia dunque con una confessione, in cui sentiamo un’eco delle parole che Dio rivolge a Giobbe, la citazione combinata di almeno due salmi, e infine una citazione dal libro del deuteronomio: se davvero Agur è un pagano, si tratta di capire come mai possieda così bene parole attribuite a Davide o addirittura provenienti dalla tradizione deuteronomista che sappiamo essere abbastanza tardiva, almeno rispetto al complesso dei materiali che compongono la gran parte del Libro dei Proverbi. Tentiamo un’ipotesi: la collezione è tardiva, potrebbe risalire a quando già i salmi, Giobbe e tradizione “dtn” sono testi definiti: La sapienza biblica che questo collage rappresenta è vista come diffusiva, tanto da essere accolta e attestata da un maestro pagano, che le riconosce un carattere universale. Egli attesta, con la confessione e le domande dei vv.1b-4 che la sapienza divina è in attingibile; l’uomo si affatica ma può solo arrivare alla soglia di una vera sapienza, come dice, del resto, con toni drammatici un altro salmo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla porta della sapienza” (sal.90,12), costatando che, per quanto duri nel tempo la vita, essa è “fatica e dolore”, tutto passa presto e “noi ci dileguiamo” (sal.90,9-10).

Tale visuale in fondo pessimistica della condizione umana è temperata da una visione della vita improntata alla moderazione, non nel senso della mediocrità, ma nel senso di dare alle cose l’importanza che meritano. Non è importante essere ricco e neppure vale l’essere povero: nessuna di queste cose ha senso e valore in sé, anzi possono essere un’insidia, come dicono i vv.7-9, perché ambedue nascono da o conducono alla dimenticanza, quando non al rinnegamento di Dio.

Povertà e ricchezza sono in parallelo a falsità e menzogna: la ricchezza può condurre infatti al senso d’autosufficienza, la povertà al furto e alla bestemmia. Il parallelo è giustificato dal fatto che in questi versetti anche il ricco e il povero si esprimono con termini, in cui l’orecchio esercitato sente, ancora una volta l’eco del “Dtn” (in particolare Deut.8).

Dedichiamo un momento all’eventuale domanda del ricco: “Chi è il Signore?” (v.9): mì YHWH?, che pone in questione l’identità del Dio d’Israele che si è rivelato sul Sinai a Mosè come il provvidente Dio dei Padri. E’ una domanda che non riguarda l’esistenza di Dio (l’uomo antico non avrebbe mai avuto di questi dubbi metafisici), bensì il riconoscimento della sua identità e del suo potere espressi dal Nome, come fece il faraone nello scontro con Mosè (Es.5,1). Dunque un dubbio inquisitivo, che percorre la storia della salvezza, sul Dio che si rivela nella storia e che talora visita anche la nostra vita di credenti. Esso nasce da quell’atteggiamento che la Bibbia chiama “empietà”.

Ora la ricchezza come anticamera dell’idolatria e dell’empietà è idea frequente nell’A.T. (compare, per esempio, nei salmi), ma non è lontana dalla nostra esperienza.

D’altra parte neppure la povertà in quanto condizione sociale è priva di rischi. Il povero può facilmente cadere nella violenza o nel furto e, anche se gli possono concedere delle attenuanti, resta vero che nessuno può farsi giustizia da solo come nessuna condizione eccessiva è in sé buona.

Il testo ci propone il modello della moderazione, appunto, come situazione in cui l’uomo controlla lingua e azioni e fa rimanere Dio al centro del proprio progetto di vita.

Perché l’attenzione d’Agur è sui peccati che si commettono con la parola. Mentre infatti la parola di Dio è buona ed è uno scudo (magen), come quello che riparava David, quella dell’uomo può:

  • mentire, v.7;
  • rinnegare Dio e profanarne il nome, v.9;
  • calunniare, v.1;
  • maledire, v.11;
  • tagliare e distruggere, v.14.

Il vero grande contrasto è quindi tra due parole e due modi di parlare/essere: quello di Dio e quello dell’uomo. Il linguaggio è tema caro al Libro dei Proverbi, come abbiamo già visto ed è anche tema quanto mai attuale. Certamente l’attenzione allo spessore delle parole, alla verità di quel che si dice, al modo e alla discrezione di come si parla è segnale della ricerca di sapienza che può animare l’uomo.

Vediamo ora che cosa insegna la regina madre a Lemuel.

Parrebbe proprio che questo principe sia un tipo, come dire?, gaudente. Tanto che la madre lo mette in guardia da uno dei rischi classici che sono ricordati nei Proverbi, in altre parole le donne alle quali il re consegna la sua “forza” (nayl) e la sua “via” (derek), ovvero la sua forza in senso dinamico, come progettualità e condotta di vita in generale. Non dobbiamo pensare, in questo senso, ad una visione negativa delle donne in generale. La seconda parte di questo capitolo, che vedremo a suo tempo, mostra la celebre immagine della “donna da lodare”. Dobbiamo vedere piuttosto il riflesso di un costume politico: il re poteva tendere a passare la giornata nel harem di corte, che diventava perciò il luogo classico degli intrighi e quindi della rovina del re.

Oltre alle donne, il vino. Noi diremmo:

Bacco, tabacco e Venere riducon l’uomo in cenere

(ovviamente qui di tabacco non se ne può parlare, perché non si conosceva ancora), con la differenza che il nostro testo non di un uomo qualunque tratta, ma del re, col carico di responsabilità che la cosa porta in sé.

La madre prevede infatti che un uomo qualunque possa concedersi qualcosa di più: chi è afflitto può anche affogare il dolore nel vino (vv.6b-7). Alcuni studiosi e la traduzione anzi pensano che il v.6 si riferisce ad un condannato a morte, talché l’ubriachezza avrebbe una motivazione comprensibile in chiave umanitaria; tuttavia su questa interpretazione si potrebbe discutere.

Il re deve invece mantenersi lucido perché deve amministrare la giustizia; è suo compito esercitare discernimento sulle situazioni e schierarsi dalla parte giusta. Non è difficile qui rileggere in controluce e all’incontrario la storia di Salomone, saggio da giovane e debosciato da vecchio, perché travolto, appunto, dalla vita del harem.

Nel discorso della regina madre si mescolano buon senso e toni profetici. Il capitolo del resto si apre con un’apostrofe drammatica e la madre si rivolge al principe chiamandolo “figlio dei miei voti” (v.2).

Questa strana espressione va compresa nel contesto della poligamia, che presenta i medesimi tratti ancora adesso, per esempio in certe etnie africane. La prima moglie ha sempre una preminenza sulle altre, è “più moglie delle altre”. Se proprio lei non avesse figli sarebbe gravissimo.

La donna che qui parla ha “fatto voti” per diventare madre. Il figlio le è caro quindi per una somma di motivi: è nato da lei, certo, ed è il principe ereditario che assicura stabilità alla nazione, ma è nato forse tardivamente dopo che la madre aveva a lungo pregato e fatto voti per questo, com’è successo ad Anna, madre del profeta Samuele.

Questo particolare dà un tocco di realismo in più all’insegnamento.

Dal Trattato dei Padre della Mishna:

II.13. Rabbi Eli’ezer dice: l’onore del tuo prossimo ti sia caro quanto il tuo; non essere pronto all’ira, e convertiti un giorno prima della tua morte. Riscaldati pure al fuoco dei sapienti, ma stai attento alla loro brace per non scottarti…

III.16. Rabbi ‘Aqiba dice: riso e leggerezza abituano all’impudicizia. La tradizione è una siepe della Torah, le decime una siepe alla ricchezza, i voti una siepe alla castità, e la siepe alla sapienza è il silenzio.

IV.11. Rabbi Me’ir dice: riduci le tue occupazioni e occupati di più della Torah, ma sii umile di fronte a ogni uomo. Se trascuri la Torah, ti imbatterai in molte cose futili che ti contrarieranno. Ma se ti affatichi nella Torah, ha da darti una grande ricompensa.

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