Chi è per noi

Ne conosciamo la meta ultima, che è una meta di vittoria certa e di vita eterna, ma ci è ignoto il tempo della realizzazione; inoltre è posta in gioco la nostra vita nella povertà, nella non-violenza e nel rischio dell’insuccesso, in termini di tempo brevi, come è accaduto al pastore prima di noi. Si tratta cioè di accettare consapevolmente la sfida della sconfitta e della morte.

Peraltro Gesù compare nel NT non solo come il pastore, ma anche come l’agnello sacrificale, per il quale la sofferenza vissuta docilmente e la morte sono indiscutibili come la vittoria (Ap.5,6-14).

Che Chiesa è quindi quella del buon pastore? Certamente è l’oggetto privilegiato del suo amore, come mostrano i termini affettuosi con cui Gesù ne parla a Pietro (Gv.21,15-17): un amore che sa superare ogni sviamento e ogni richiesta di autonomia, come accade allorché la pecora lascia il gregge e si smarrisce; in ogni caso questa Chiesa sa di presentarsi indifesa come il suo pastore di fronte al mondo; essa anzi pone la sua vita per il mondo, la offre liberamente come il Cristo, certa di poterla di nuovo riprendere per averne la sovrabbondanza.

La Chiesa quindi non aggredisce nessuno, non cerca trionfi, non vuole efficientismi; i cristiani non valutano se stessi dalle cose che fanno, ma dal loro modo di essere conformi a Cristo. Scelgono di preferenza di stare dalla parte di chi perde, sono ufficialmente degli sconfitti, perché sono troppo preoccupati di dare e di soccorrere anziché pensare a se stessi.

Ma questa è la condizione perché alla fine del cammino il Pastore li riconosca come suoi. Anzi, potrà accadere che egli li riconosca mentre essi non erano consapevoli di appartenergli servendolo negli ultimi, come mostra la parabola di Mt.25,31-46.

Diciamolo ancora, questa immagine è una sfida, che presenta un modo di essere per noi forse ancora lontano ma realizzabile: un vero progetto di Dio su di noi, che deve investirci totalmente e di fronte al quale siamo provocati a una decisione. Saremo capaci di accogliere e seguire fino in fondo il Pastore della nostra vita.

Fermiamo questa volta la nostra attenzione su un’immagine che ricorre con particolare incisività nel Vangelo di Giovanni (15,1-17). Come sempre, ne ricostruiremo le coordinate essenziali attraverso l’AT; poi, percorrendo il NT, vedremo come e fino a che punto essa sia determinate per la nostra vita cristiana.

Questa immagine è dunque quella della “vigna” e della “vite”.

Accanto al Dio-pastore, l’AT ci presenta il Dio-agricoltore (sal.65,11-14) e, particolarmente, vignaiolo. L’ottica è per noi inconsueta, anche perché non ci rendiamo conto di quanto fosse difficile per gli uomini dell’AT lavorare la terra e ricavarne frutti. Per essi il lavoro dei campi significava attenzione, pazienza, cura della pianta e del frutto in tutte le sue fasi vitali, compresa la sua utilizzazione, rispetto del tempo e dell’equilibrio naturale, come ben dimostra la nota parabola di Isaia (5,1-7): Dio si occupa della vigna non trascurando nulla per la sua fecondità. Ma, deluso nei frutti, lascerà non solo che essa vada in perdizione, bensì che sia sconvolto anche l’equilibrio dell’ambiente, come per giungere a uno stato di sterilità irreversibile (v.6).

Un altro testo di Isaia ci mostra però che tale giudizio non è definitivo: Dio ama prendersi cura della vigna e della sua irrigazione, la collera può cessare e lasciare il posto alla pace, purché la vigna stessa voglia questa pace e accetti di produrre il frutto che il padrone si aspetta dopo la sua fatica (27,2-5).

E’ fin troppo facile, a questo punto, identificare chi sia questa vigna, oggetto di tanto amore e di tanta cura da parte del Signore: essa è un popolo, un organismo vivente, libero e capace di seguire o di rifiutare colui che se ne prende cura. Come viene allegoricamente descritto dal Salmo 80,9-15; il popolo è stato scelto e trapiantato (nessun trapianto è indolore per l’albero che lo subisce), ma, superata la fase critica dell’ambientamento, ha messo radice nel nuovo terreno, fino ad una quasi inattesa devastazione.