Chi è per noi

In realtà, come spiega il profeta Osea (10,1-4), una volta messe le radici e raggiunta la prosperità, il popolo ha tralignato nell’idolatria, il frutto non è stato quello sperato da Dio, la vigna ha tradito le legittime aspettative del suo padrone.

Inoltre, affidata a dei fittavoli, essi hanno rifiutato di consegnare i frutti al padrone; anzi, ne hanno ucciso il figlio, che andava a chiedere il suo (Mc.12,1-11; Mt.21,33-44; Lc.20,9-18).

L’immagine cioè passa al NT, nei sinottici, adattandosi alla situazione storica di Israele con la venuta di Gesù, ma mantenendosi sempre nell’ambito di significato dell’AT in cui è chiarissima l’alterità tra il padrone e la vigna, tra Dio e il suo popolo, come è chiaro il rapporto di fedeltà e fecondità che deve intercorrere tra di essi.

Con il Vangelo di Giovanni invece ci troviamo di fronte a una svolta.

Salta subito agli occhi che l’alterità scompare: Gesù incentra subito il discorso su di sé e sul popolo in lui. Egli è la vite di cui il padre si prende cura e il discorso sul popolo pare passare in secondo piano. Non siamo di fronte a una contraddizione o a un discorso zoppicante, ma semplicemente a una rivelazione su noi stessi e la nostra natura. Benché oggetto di cura assidua e amorosa da parte di Dio noi, da soli, non siamo capaci di una risposta adeguata. Anzi, tendiamo a tralignare producendo cattivo frutto, appropriandoci dei doni di Dio. Il patto che Dio stabilisce e sancisce con una legge, segno del suo amore, come era accaduto sul Sinai, non basta a renderci e a mantenerci giusti producendo frutti di giustizia.

E’ necessario qualcosa di più e di diverso. E’ necessario che il patto sia persona e che questa persona si prenda carico di noi fino a renderci partecipi di sé e della sua vita: non un popolo-vigna, ma un popolo di tralci sul ceppo di Cristo.

L’immagine della vigna secondo Giovanni presenta cioè Cristo come frutto buono e compimento del patto. Quella fedeltà e quella fecondità che Israele non ha saputo avere da solo, in modo da realizzare per parte sua l’0bbedienza richiesta da Dio, trova risposta in Dio stesso per Gesù Cristo, vite secondo il desiderio del Padre che, attraverso i secoli, si è rivelato a Israele come colui-che-se-ne-prende-cura, e frutto scelto del popolo, unica vera risposta di esso all’amore di Dio.

Ugualmente noi non siamo più soli ad arrabattarci per una risposta di fedeltà a cui le nostre forze non bastano (anzi, per lo più ci tradiscono). Insieme al patto ci è data una nuova forza per osservarne la Legge su cui è stipulato; ci è rivelato un progetto di comunione e siamo messi in grado di viverlo grazie alla stessa vita, allo stesso Spirito, che Cristo ci dà perché circoli in noi come in lui.

Gv.15,1-17 contiene questi diversi elementi: un nuovo progetto di vita nella comunione (vv.2.4.5-7.9.11), la consegna di una legge che sancisce questa alleanza (vv.12.17), la possibilità concreta di vivere l’alleanza per una forza che ci rinnova e ci abilita a vivere da amici di Dio (vv.15-16).

Gesù ci rivela qui che solo vivendo uniti a lui possiamo essere realmente noi stessi al meglio delle nostre possibilità; se accogliamo la vita che egli ci dona e viviamo di essa, si realizza per noi una liberazione completa: quella di poter vivere con Dio e tra noi da fratelli, appunto, con confidenza e nella reciproca fedeltà. Fuori da questa comunione non possiamo far nulla, o meglio, possiamo certo compiere delle scelte e fare delle cose, ma non siamo sicuri del frutto, come non possiamo, di fatto, essere sicuri che la nostra generosità e la perseveranza nel bene possano reggersi con motivazioni puramente umanitarie o filantropiche. Dice bene la tradizione ortodossa che chiama Gesù “il vero filantropo”, l’unico che sappia veramente amare gli uomini. Al di fuori di lui, della sua forza, del suo Spirito, noi ci scontriamo sempre con la nostra buona volontà e la nostra infingardaggine.