Sergio e Elena

Parte seconda

Erano le sette del mattino di quel 1993 e la notte, in quello stupefacente autunno, volgeva al termine in un tenue velo di foschia. Il primo chiarore dell’alba rompeva le tenebre. La nuova luce si affacciava incerta, quasi timorosa di dovere richiamare gli esseri umani alle loro attività quando il primo raggio di sole rischiarò il letto e parte della camera e, benché giacessi con la schiena rivolta alla finestra, brillava attraverso le palpebre chiuse, penetrandomi nel cervello. Mi rifugiai sotto il cuscino, stringendolo con forza sopra la testa, per cercare di immergermi nuovamente nel sonno. Mi agitai assonnato, fino a quando una esile e delicata mano iniziò ad accarezzarmi la schiena.

Mi stirai pigramente, assaporando la gentilezza di cui venivo fatto oggetto e mi girai sullo stomaco, mettendomi maggiormente a mio agio, onde lasciare che le dita vellutate eseguissero meglio il gesto affettuoso. Arcuai la schiena, lievemente, contro il delicato massaggio, lasciando placare l’indolenzimento notturno. Languidamente mi voltai verso la fonte dell’affettuosa attenzione. Accesi, un poco più tardi, la lampada del comodino e fissai la donna al mio fianco, era Elena mia moglie nella sua sfolgorante e gioiosa vitalità. Le augurai il buon giorno baciandola, mi alzai e mi affacciai un istante alla finestra. La città si stava rianimando, e il solo pensiero di cosa stava accadendo mi eccitò. Era mercoledì, giorno di mercato, e sapevo che in via Boccaccino, quell’angolo caratteristico della città, i fiorai stavano allestendo i loro banchetti con frenesia. Nello stesso lasso di tempo i due bar situati alle spalle della Cattedrale dischiudevano i battenti. Le solite vecchiette lasciavano frettolosamente il tempio religioso uscendo dalla porta laterale, affrettandosi verso casa, quasi temessero di farsi cogliere dalla gente. Un garzone di fornaio in bicicletta, fischiettando, risaliva con energia la lieve salitella della via per scomparire più innanzi in direzione di piazza del mercato. I primi passanti, quelli più mattinieri, leggevano famelicamente la cronaca cittadina sul quotidiano locale. Abbandonavano la lettura solo per rispondere al saluto di qualche altro passante. Eppure, nonostante il pensiero dell’idilliaco quadro avvertii improvvisamente dal profondo del mio essere, che la giornata sarebbe stata diversa dal solito.

Forse l’origine repentina della mia inquietudine andava ricercata nel fatto che da qualche tempo non riuscivo più a scrivere? Oppure perché percepivo a livello interiore, l’inutilità dell’esistenza che conducevo dopo avere rassegnato le dimissioni dalla scuola? O il motivo della sofferenza esulava lo scibile umano? Spostai la mia attenzione, per evitare gli snervanti quesiti che mi erano balenati nella mente osservando Elena che già si era affaccendata in cucina. Tuttavia, lei capì che qualcosa non andava per il verso giusto, mi guardò e corse tra le mie braccia piangendo, dicendomi che un peso le gravava in petto. La strana sensazione opprimente che ci aveva scosso e il timore del presagio inconscio di ciò che sarebbe potuto accadere non ci lasciava per niente tranquilli, anzi.

A mezzogiorno, quel che temevamo accadesse, era diventato cruda realtà.

I sogni, le illusioni, le evasioni rassicuranti, come tanti altri, da giovani qualunque, il periodo del dopoguerra della miseria, della ricostruzione, il boom degli anni sessanta, la sconfitta del proprio handicap di povertà, la fedeltà agli ideali trasmessici dai genitori e dal martirio di mio padre, i sacrifici delle nostre madri, i nostri primi miti: J.F. Kennedy, Papa Giovanni XXIII°, Martin Luther King e Gandhi; Marcuse e l’ideologia di sinistra, il realismo, il razionalismo, l’impegno politico e sindacale, la certezza che il nostro destino era esclusivamente nelle nostre mani, che la tragedia che si profilava all’orizzonte sembrava fatta apposta per segnare il tramonto di un’era in cui si sperava che il progresso unito al consumismo non potessero che migliorare la nostra vita. Il periodo delle grandi marce pacifiste contro la segregazione razziale, contro la guerra del Vietnam, la musica pop, i figli dei fiori, l’Italia problematica, inquieta, eternamente alla ricerca di qualcosa sia che si trattasse di musica, sesso, oblio, giustizia sociale, uguaglianza, la lusinga politica, praticamente un qualcosa che era impossibile trovare, la convinzione che con tenacia ed intelligenza si sarebbe riusciti, insieme a tanti altri, ad edificare una società ed un mondo il più adatto alle esigenze esistenziali di tutti dove pace, giustizia e libertà non rappresentassero parole vuote ma, al contrario, uno stile di vita.

Il sentirsi al centro dell’universo, inattaccabili, consapevoli di controllare gli eventi, il passare da illusione in illusione, da errore in errore, da moda culturale in moda culturale, precipitando nella delusione e morendo un po’ anticipatamente; il difendere sempre i più deboli, rifiutare il facile e spesso adattarsi, non seguire la corrente, il restare profondamente anticonformisti, il porsi molte domande pagando prezzi altissimi all’utopia, alle speranze politiche, al desiderio di cambiamento e alla fiducia nell’amicizia. L’incoercibile primo ed unico amore, da romantici quali siamo, sempre fedeli, il figlio che amiamo moltissimo. Il mosaico di una intera esistenza si era frantumato , si era sciolto come neve al sole, sotto i colpi della crisi economica. Ogni coccio e ogni goccia rifletteva il colore della disperazione, del fallimento e della delusione. Le prime ore del pomeriggio risultarono inesorabilmente lente, traumatiche nelle loro drammaticità. La nostra famiglia era sull’orlo del baratro senza possibilità di scampo. Ci sentivamo nella dolorosa condizione di un ammalato al quale i medici abbiano diagnosticato una malattia che non lascia speranza alcuna.

Tutta la struttura di una vita intera era crollata simile ad un castello di carta. Le idee, i bisogni, le certezze, le amicizie tutto era miseramente finito nel nulla, svanito in una sorta di maledizione demoniaca. Di quei giorni colmi d’angoscia e di amarezza rammentiamo il buon amico Giulio e sua moglie, la cara Lucia, la loro delicatezza, la dolcezza e la sensibilità. Non ci abbandonarono un istante, a differenza di altri, e pur evitando di affrontare la realtà dei tristi ed avvilenti avvenimenti, erano lì a confortarci, a sorreggerci, a sostenerci materialmente e moralmente onde farci comprendere che non eravamo soli, che vi era qualcuno che ci voleva bene e a cui importava e condivideva la nostra disgrazia. Certo, ci fu anche mio fratello che, pur attraversando anch’egli un periodo non florido, ci aiutò moltissimo nell’emergenza. Imparammo a nostre spese, in quei tremendi giorni, il significato dell’umiliazione, del dolore e della sofferenza.

Al primo appuntamento con l’uomo che mi rivoluzionò l’esistenza, colui che m’avrebbe reso libero, mi condusse il generoso Tito quando, non vedendomi da diversi giorni, pensò che doveva essermi accaduto qualcosa. Infatti mi rintracciò un giorno mentre transitavo davanti al suo negozio. Mi costrinse a seguirlo nel retro e mi chiese, con modi bruschi, quale fosse il problema. Lì per lì non risposi. Lui allora con dolcezza mi disse che non ero il Sergio che stimava e che aveva imparato a conoscere. Ero più simile ad un barbone. Aggiunse che solo qualche giorno prima ero un uomo nel pieno vigore fisico, ma in quel momento aveva la netta percezione che fossi repentinamente invecchiato. Le spalle erano cadenti, come se sopportassi a fatica un peso per me eccessivo ed oltremodo gravoso.

Mentre lui parlava, lo rammento bene, io stavo a capo chino, ammutolito, stranito, alla ricerca di una qualsiasi spiegazione logica. Le sincere parole non attenuarono l’afflizione che mi pervadeva. Ero svuotato di ogni energia. L’atroce sofferenza e la disperazione palesavano la drammaticità della realtà a tal punto che restavo indifferente a qualsiasi sollecitazione e a tutto ciò che mi circondava. Non esisteva più nulla per me, era come se vagassi nel vuoto assoluto. Inoltre, ero caduto in uno stato di abulia non indifferente, a causa del senso di colpa che mi attribuivo,per non essere stato in grado di prevedere e proteggere da fattori esterni la mia famiglia e questo mi stava distruggendo psichicamente. Elena, in questo bailamme, era costretta ad andare in ufficio con la morte nel cuore, affrontando con coraggio tutto suo la situazione.