Il Libro dell’Esodo: Meditazione 2

Capitolo 1,1-22

Già da questo primo capitolo abbiamo le principali chiavi di lettura per il libro dell’Esodo. Vediamole, oltre ad alcuni dettagli. Il capitolo ( e quindi il libro) si apre con una cesura sintattica, rispetto alla narrazione della storia dei patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, che occupano il libro della Genesi dal capitolo 12 in avanti. Abbiamo quindi virtualmente chiuso un volume e ne stiamo aprendo uno nuovo.

La Genesi, il volume appena chiuso, ci ha raccontato le vicende di alcuni clan di nomadi e seminomadi nelle loro migrazioni stagionali ordinarie che seguono la linea pluviale con la garanzia di pascoli e acqua. Si chiude però con le vicende in occasione di una migrazione straordinaria, causata da una siccità e da una conseguente carestia, che li conduce (li fa “scendere”) in Egitto.

Uno di questi nomadi ha fatto fortuna, pur dopo una travagliata vicenda personale, trascinando positivamente con sé anche il destino del suo clan.

L’ultima parte della Genesi è anzi un romanzo vero e proprio, quanto a genere letterario, centrato su questo singolo personaggio. Adesso il racconto, o il volume nuovo, si apre dicendo: Ora questi sono i nomi dei Figli d’Israele che erano andati in Egitto (Es.1,1).

E’ il versetto che riprende Gen.46,8 e stabilisce così un collegamento diretto tra le storie dei patriarchi e la storia dei figli di Giacobbe in Egitto: siamo quindi entro un medesimo ciclo narrativo, benché abbiamo cambiato libro. Sulla durata del soggiorno egiziano di questi clan gli studiosi discutono e hanno formulato diverse ipotesi. Per esempio i nomadi potrebbero essere scesi in Egitto mentre era al potere una dinastia non propriamente egiziana, e perciò più tollerante verso emigrati stranieri perché culturalmente a lei affini.

Possiamo pensare che il soggiorno si sia protratto per almeno due secoli, fino ad un cambio di scena (v.8) che nel testo è rappresentato come improvviso, pur entro una continuità di racconto ( e sorse un re nuovo), tanto che parrebbe che all’origine di tutto ci sia l’oblio da parte del singolo re, come talora accade nei racconti fiabeschi: è passato del tempo e il sovrano non è coinvolto personalmente.

Visto così, potrebbe sembrare persino un caso di revisionismo storico, come ne conosciamo bene anche oggi, che finisce in xenofobia. Di fatto, non dobbiamo mettere subito le cose sul piano morale o sociale, ma pensare invece ad un cambiamento di dinastia o ad un rivolgimento politico come allora era frequente. Il risultato xenofobo è in ogni caso lo stesso.

Subito dopo vediamo delinearsi una serie di contraddizioni o aporie o doppioni nel racconto. Questo problema ci accompagnerà lungo tutto il libro, ma per adesso ci limitiamo a vedere quelli di questo primo capitolo. Il re pare preoccupato che il gran numero dei Figli d’Israele si allei con presunti nemici esterni dell’Egitto e fugga (v.10). Di questa preoccupazione il testo non ci offre alcun retroterra. Non sappiamo per esempio, se i Figli d’Israele si fossero già lagnati del nuovo corso politico e avessero tentato di ribellarsi e, del resto, è difficile associare una ribellione alla fuga: normalmente chi si allea con altri per fare da quinta colonna combattendo un potere dal di dentro intende scalzarlo, non già andarsene.

Volendo comunque prevenire ogni atto di ribellione, il re ricorre al lavoro forzato. Fa in modo in pratica che i Figli d’Israele lavorino per lui, sottraendoli al loro lavoro, quello cui sono abituati, e privandoli di quanto esso produce, per far costruire le città reali sul Delta del Nilo (v.11b). Coerentemente impone un controllo sul lavoro che noi chiameremmo di “caporalato”, in caso che sia esercitato da egiziani, o di “kapò”, se chi vigila è un collaborazionista, più o meno coatto, preso tra i forzati medesimi (v.11°). Si affaccia qui il contrasto tra una società di pastori seminomadi e una civiltà urbana: il pastore è strappato al suo naturale contesto vitale e si fa di lui un muratore, compresa la produzione dei mattoni, mestiere che, con ogni evidenza, non è suo e in qualche modo lo aliena, al di là di altre imposizioni e violenze. Lavorare gratis, senza godere del frutto del proprio lavoro in alcun modo, e sotto sorveglianza è quindi la caratteristica della corvée.

Subito dopo il re d’Egitto ricorre ad un’altra misura in palese contrasto con la precedente, ordinando l’uccisione dei neonati maschi (vv.15ss.): è abbastanza chiaro che volendo seguire una politica di repressione attraverso il lavoro forzato, è necessario avere disponibili degli uomini adesso e in futuro, senza esasperare chi già sta lavorando. Il fatto che si ordini la soppressione dei neonati maschi è coerente con l’ipotesi di un potere che paventa la ribellione, ma in disaccordo con la misura del lavoro forzato. Ecco dunque il problema da fronteggiare: come si spiega questa specie di contraddizione? Probabilmente dobbiamo pensare a flussi migratori differenziati per la discesa in Egitto dei nostri nomadi, e ad un esodo (cioè ad un movimento opposto) avvenuto in epoche, tempi e modi differenti. Dobbiamo pensare, in altre parole, che il Testo che abbiamo davanti e che leggiamo abbia una sua preistoria, fatta di diverse tradizioni che si sono incrociate e che rispecchiano diversi flussi migratori. Teniamo presente fin da adesso questo doppio filone, perché lo troveremo ancora, sotto altre forme, nel corso della narrazione.

L’indicazione principale del Testo è però che non esiste una libertà autentica se non si è padroni del proprio lavoro, inteso come disponibilità di forze, di tempo, di progettazione e di quanto il lavoro stesso possa fruttare. Talché il lavoro entra a pieno diritto nella teologia come elemento funzionale alla salvezza, anzi come elemento fondante, senza il quale è impossibile pensare la libertà umana. L’uomo che non sia padrone del proprio lavoro non è totalmente libero: non si tratta di vedere l’A.T. come un testo sovversivo, bensì come un testo in cui è centrale la preoccupazione per la dignità della persona. Il tema della dignità della persona è ripreso dal racconto delle levatrici.

Come spesso accade per le donne dell’A.T., costoro sono presentate come donne che venerano Dio (v.17): più avvedute del re da una parte, perché riconoscono che l’autorità di lui è relativa rispetto a quella di Dio, e capaci dall’altra di una specie di ribellione civile, non attestata per gli uomini reclutati per il lavoro forzato. Sono ancora capaci di dialettica nei confronti del re, che dal v.11 ha un nome: si chiama, infatti, Per-àa, traslitterato normalmente da noi con il termine “Faraone” da scrivere, allora, con la maiuscola perché è usato come nome proprio, non come titolo.

Le levatrici sanno così rispondergli a tono (v.19), preferendo sembrare professionalmente superflue, poiché le donne ebree partoriscono da sole e in fretta, anziché obbedire ad un ordine che non possono condividere. Le due donne hanno, in questo, un senso autentico della propria dignità, oltre a quello della venerazione di Dio, a differenza dei forzati, che appaiono muti in questo primo capitolo e solo sterilmente capaci di lamentarsi, più che di ribellione vera e propria, nei capitoli che seguiranno.

La nostra storia si delinea quindi complessa. C’è un popolo che ancora non si identifica come tale, tanto che i maschi non sanno propriamente ribellarsi. Uno degli scopi del libro sarà precisamente quello di far scoprire a questa gente la propria identità popolare. Ci sono delle donne che paiono invece avere una percezione più acuta di sé e della situazione. Le figure femminili in generale tali si dimostrano anche nel restante corso della narrazione. C’è un re che apparentemente non ha studiato la storia del proprio paese e prende delle decisioni pragmatiche. Esse hanno una parvenza di efficacia, ma possono facilmente essere aggirate, purché si abbia venerazione per Dio. Dio, infine, rimane sullo sfondo e compare qui a malapena: egli è in realtà il vero protagonista di questa vicenda, ma non si impone e si rivelerà a poco a poco, con una certa lentezza, lasciando ampi margini al dubbio e alla ribellione umana, giocando sovente sulla possibilità che i fatti possano essere letti in più modi a seconda che si ricorra o no alla fede per interpretarli.

Anche in questo senso l’Esodo può essere letto come il libro che ci introduce a capire che cosa significhi essere liberi. La libertà non è solo assenza di schiavitù e possibilità di gestione del lavoro, ma è soprattutto identità popolare, capacità di lettura della storia, riconoscimento della rivelazione e dell’azione di Dio, accettazione della propria appartenenza a lui attraverso il grande tema dell’alleanza cui preludono il racconto della schiavitù e dell’uscita dal paese d’Egitto. L’Esodo tocca dunque, capitolo dopo capitolo, il problema più profondo dell’identità dei credenti, per Israele e per la Chiesa dei cristiani.